Tony Barber 4 dicembre 2012 FINANCIAL TIMES Londra
Pier Luigi Bersani,
61 anni, è un ex comunista figlio della classe operaia, e nelle primarie di
domenica scorsa ha potuto contare sulla sua fedele base del sindacato dei
lavoratori per sconfiggere lo sfidante Matteo Renzi, sindaco di Firenze di 37
anni che si è fatto da solo.
Con i sondaggi che
calcolano al 30 per cento il sostegno nazionale al Partito democratico, molto
più avanti dei suoi avversari, pare che Bersani abbia buone probabilità alle
elezioni parlamentari fissate a marzo di diventare il primo ministro di un
governo di sinistra di coalizione.
Tuttavia, sia in
Italia sia nel Mediterraneo, le prospettive dei partiti tradizionali sono più
complesse di quello che implica il successo di Bersani. Lo sviluppo più
interessante nella politica italiana resta il disfacimento delle forze di
centrodestra che hanno dominato la scena politica nazionale dal 1994. Il Popolo
della Libertà dell’ex primo ministro Silvio Berlusconi, in precedenza noto come
Forza Italia, è in caduta libera. Poco alla volta buona parte del supporto che
aveva si sta trasferendo all’idiosincratico Movimento
Cinque Stelle del comico Beppe Grillo.
Ma il fascino degli
iconoclasti ha i suoi limiti, anche in un paese come l’Italia nel quale le
élite dei partiti sono disonorate per aver portato lo stato sull’orlo del
disastro finanziario. Subito dopo la seconda guerra mondiale fece irruzione
sulla scena politica un partito anti-establishment noto come Uomo Qualunque,
che conquistò oltre un milione di voti nelle elezioni del 1946 e del 1948 e una
ventina di seggi in parlamento.
Ma il qualunquismo
svanì rapidamente come era comparso, inghiottito dai democristiani a destra e
dai comunisti a sinistra. Adesso resta da capire se il movimento di Beppe
Grillo resterà in vita dopo l’inevitabile revival del centrodestra italiano che
avverrà non appena Berlusconi si sarà finalmente ritirato dalla politica.
L’esempio più
evidente del crollo dell’ordine costituito lo offre la Grecia: dalla fine del
regime militare del 1974 e fino alla crisi del 2009 la politica è stata per lo
più in mano a due partiti, il conservatore Nuova democrazia e il socialista
Pasok. Ma nelle elezioni generali di sei mesi fa le preferenze ottenute da
questi due partiti messi insieme ha raggiunto a stento il 42 per cento dei
voti.
In particolare, con
il suo esiguo 12,3 per cento, il Pasok è parso una forza ormai esaurita. Gli
elettori si sono rivolti in massa a Syriza, un’alternativa più esplicitamente
di sinistra. Ma a parte la rabbia dell’elettorato per la caduta della Grecia
nell’abisso, uno dei motivi per il quale i partiti tradizionali hanno perso
supporto in maniera consistente è che avevano perso la possibilità di fare
promesse in cambio di voti.
In Spagna
e in Portogallo i sistemi partitici costituiti dopo la transizione degli anni
settanta per il momento paiono reggere meglio rispetto a quelli della Grecia. A
livello nazionale – quantunque non a livello regionale in Spagna – sono in
lizza un grande partito della destra e uno della sinistra. Il cambiamento è
ostacolato dalla natura fortemente centralizzata di questi partiti e dal potere
della leadership di scegliere con attenzione i propri candidati al momento
delle elezioni, senza contributo da parte dei membri ordinari di partito o
degli elettori.
Ci sono tuttavia
sfumature diverse tra Spagna e Portogallo: se il consenso popolare di Mariano
Rajoy, primo ministro di centrodestra, è in caduta libera, dai sondaggi non
emerge che ai cittadini spagnoli piaccia di più Alfredo Pérez Rubalcaba, leader
dell’opposizione socialista. Perfino tra gli stessi elettori del partito c’è
un’impressionante mancanza di fiducia nel fatto che Rubalcaba possa governare
la Spagna meglio di Rajoy.
Se la Spagna
evidenzia alcune condizioni essenziali per rinnovare il sistema dei partiti,
ciò appare molto meno evidente nel caso del Portogallo. Lì i conservatori al
governo e i socialisti all’opposizione mantengono la loro capacità di esprimere
gli atteggiamenti di un popolo che spesso appare più passivo da un punto di
vista politico del cugino spagnolo. Nel 1975, quando il Portogallo indì le sue
prime elezioni libere in cinquant’anni, l’affluenza alle urne fu del 92 per
cento, mentre nell’elezione nazionale dell’anno scorso è stata del 58 per cento.
È scoraggiante pensare che, perfino in un periodo di crisi, i giovani nati in
una società democratica votino meno rispetto ai loro genitori che vissero di
persona la dittatura. (Traduzione di Anna
Bissanti)
Francia
Dopo Sarkozy il diluvio
Le Figaro, grande
quotidiano conservatore, l’ha definito
“un suicidio in diretta”. Dal 18 novembre, giorno in cui i militanti hanno
votato per nominare il presidente del partito dell’ex presidente francese
Nicolas Sarkozy, l’Ump (Unione per un movimento popolare) si sta sfaldando
dall’interno. Il risultato elettorale è stato infatti poco netto, e i due
candidati si contendono la vittoria e si accusano a vicenda di aver
imbrogliato.
Jean-François Copé,
finora segretario generale del partito, è stato nominato vincitore da due
commissioni interne. François Fillon, ex primo ministro di Sarkozy, contesta il
risultato e ha creato un gruppo di dissidenti all’Assemblea nazionale. Chiamati
in soccorso, l’ex primo ministro Alain Juppé e lo stesso Sarkozy non sono
riusciti a sbloccare la situazione, che a questo punto è nelle mani della
giustizia per volontà di Fillon.
“Bisogna collegare
questa vicenda esemplare a ciò che sta emergendo un po’ ovunque: regimi
'postdemocratici' dove lo scrutinio è soltanto un pretesto e dove il vero
potere si trova in altri circoli”, scrive
Philippe Thureau-Dangin su Le Monde:
Il politologo
britannico Colin Crouch ha analizzato questo fenomeno all’inizio degli anni
duemila, spiegando in che modo gli interessi privati e la forza delle lobby
finanziarie e mediatiche abbiano lentamente svuotato la democrazia di senso e
sostanza, anche in Europa (la cancelliera tedesca Angela Merkel è stata
definita una postdemocratica dal filosofo Jürgen Habermas). […] In questo
universo postdemocratico i politici non riescono a rispettare la separazione
dei poteri. […] Finita l’era dei colpi di stato, siamo entrati in quella dei
colpi di forze permanenti.
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