Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


mercoledì 30 luglio 2014

DEMOCRAZIA IN EUROPA: Più potere alla gente!


Come hanno dimostrato le recenti rivolte in Iran, in Spagna o in Turchia internet fornisce ai cittadini numerosi strumenti di azione politica. La maggior parte potrebbe essere usata in Europa per superare la crisi democratica attuale, ritiene un economista francese. Estratti.

Philippe Aigrain EUTOPIE Rome

Il fatto che cittadini di regimi democratici critichino il fallimento di questi regimi nel raggiungere gli obiettivi annunciati, e dubitino persino della loro capacità a raggiungerli affatto fa parte dell’essenza della democrazia stessa. Ma non è un motivo per ignorare la profondità della crisi profonda e globale delle democrazie, e in particolare dell’intensità di questa crisi in Europa.

Malgrado dei processi democratici come le elezioni e le votazioni in parlamento c’è un diffuso sentimento che le nostre società sono governate da un piccolo gruppo di persone che sfruttano per il proprio benessere e profitto gli interessi economici, politici e dei mezzi d’informazione.

Anche se, grazie alla rivoluzione digitale, un numero crescente di attività possono svolgersi senza transazione monetaria, il pensiero politico maggioritario è dominato da uno stretto economicismo.

Diverse analisi sono state proposte, più o meno coerenti, per trovare dei modi per superare questa crisi democratica. La prima si concentra sull’evoluzione oligarchica delle nostre classi dirigenti — l’aumento delle diseguaglianze e del modo in cui gli vengono serviti gli interessi di un nuovo gruppo di super-ricchi.

La seconda descrive le nostre società come postdemocratiche, e si concentra più sui processi istituzionali e sul ruolo delle tecniche manageriali nella distruzione del tessuto sociale e democratico.

La terza analisi mette l’accento sul doppio ruolo della rivoluzione digitale, che da un lato rafforza la capacità di vaste organizzazioni a organizzare la produzione secondo modalità che indeboliscono le resistenze collettive e di controllare e sorvegliare le società; dall’altro, consente a gruppi e individui di sviluppare nuove capacità di pensiero critico, di coordinazione, di innovazione e di realizzazione di alternative concrete.

Gli intellettuali che adottano il terzo tipo di analisi sono più ottimisti sulla possibilità che la democrazia si rigeneri, anche se ammettono che le sfide che la aspettano sono notevoli.

A creare una nuova relazione tra cittadini e politici sono il militantismo e il sostegno della libertà della rete e dei diritti nella sfera digitale; un uso più diffuso dell’azione politica attraverso la rete nelle rivolte iraniane, siriane, spagnola e turca e il movimento dei commons in Italia e più in generale in Europa. Tutti elementi profondamente diversi dal movimento No global della fine del XX secolo.

I nuovi movimenti hanno le radici nell’espressione personale degli individui, ma non sono affatto individualisti nel senso neoliberista del termine. Puntano a sviluppare comunità basate sull’amicizia, sugli interessi condivisi, sulle buone pratiche e il vicinato, e la loro produzione è sottoposta al regime dei commons.

Si caratterizzano per la partecipazione degli individui a diverse comunità o attività più che per un’affiliazione formale.

Ogni comunità dipende massicciamente dalla rete e dai mezzi d’informazione digitali per la comunicazione e il coordinamento, e per le attività stesse (sia che si tratti di software, militanza online, cultura digitale o sistemi di scambio locali).

I nuovi movimenti sociali sembrano molto più potenti e seducenti, con il loro obiettivo duplice di ottenre riforme politiche radicali e di creare una vita quotidiana migliore

Le realizzazioni di questi movimenti sono impressionanti, e vanno ben al di là dei limiti incontrati di solito da gruppi di pressione come le ong monoobiettivo. I nuovi movimenti sociali sembrano molto più potenti e seducenti, con il loro obiettivo duplice di ottenre riforme politiche radicali e di creare una vita quotidiana migliore. Non solo ottengono vittorie, come la bocciatura del trattato ACTA da parte del parlamento europeo, o il risultato del referendum sulla gestione dell’acqua in Italia; hanno anche creato nuove tecnologie come il software libero o open design, e creano nuovi processi di partecipazione con nuovi meccanismi come i prestiti a interesse zero tra individui e il crowdfunding.

Più in generale rigenerano la produzione locale e lo scambio di beni, di servizi, di cultura e di conoscenza. Ma devono anche affrontare ostacoli che risultano dal dilemma del loro posizionamento rispetto a un potere politico ed economico centralizzato.

I vincoli economici e politici incarnati nelle politiche attuali sono il primo ostacolo per movimenti che tentano di cambiare l’orientamento dello sviluppo delle nostre società. Malgrado l’incombere della crisi ecologica, e i costi sociali devastanti del mantenimento dello statu quo, i cambiamenti richiesti da un nuovo sistema sembrano fuori dalla loro portata della maggior parte delle persone.

Con il tempo questi ostacoli potranno essere superati e sempre più gente uscita chi pim chi meno dal sistema economico e sociale dominante trarrà beneficio da questi nuovi usi.

Questo scenario è tuttavia reso molto improbabile dall’atteggiamento dei leader postdemocratici attuali. Definiscono infatti ogni tentativo di riforma radicale proveniente dai nuovi movimenti sociali, e le critiche che essi rivolgono alle loro politiche, come una nuova forma di demagogia populista.

Piuttosto di creare nuove coalizioni con questi moviementi, li stigmatizzano e creano per loro un quadro regolamentare ancora più ostile.

Sembra quasi che preferiscono affrontare la xenofobia populista nella speranza che convincerà la gente a continuare a sostenerli piuttosto che aprire la porta a riforme radicali.

Questi vincoli esterni non devono nascondere il fatto che un “reset” dal basso della società deve scontrarsi anche con ostacoli interni, e in particolare con la difficoltà dei partecipanti a essere d’accordo su una piattaforma di riforme di base. Usano o sviluppano una serie di interessanti strumenti di deliberazione collettiva, dalle pratiche basate sui segni degli Acampados o di Occupy Wall Street agli strumenti di decisione online come Liquid feedback.

Comunque sia questi approcci si sono dimostrati inefficaci quando si tratta di sviluppare nuove idee. In Spagna un approcio misto è sembrato promettente. Il Movimento 15-M è stato reso possibile grazie al lavoro preliminare di elaborazione di una piattaforma politica digitale. I suoi sviluppi successivi comprendono un’interessante interazione tra intellettuali che propongono delle politiche di riforme radicali.

Delle reti come Partido X fanno un uso esteso delle tecnologie digitali per sviluppare le loro proposte e per sottoporle ai commenti di un pubblico più ampio. La politica che ne è risultata ha alimentato il programma di Podemos e di altri movimenti che hanno ottenuto un successo significativo nelle elezioni europee di maggio 2014.

Al momento è presto per giudicare. L’applicazione testarda di politiche economiche immobiliste non ha sbocchi diversi dallo sviluppo di regimi regressivi xenofobi e autoriari? Oppure un numero sufficiente di umanisti e di leader progressisti capiscono che il loro compito è di dare maggiore autonomia a coloro i quali hanno già cercato di costruire un nuovo Futuro?

Traduzione di Luca Pauti

MOLDAVIA - Non resteremo alle porte dell’Ue


In occasione del suo insediamento, il nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha affermato che durante il suo mandato non ci saranno ulteriori allargamenti. La sua posizione è dettata dagli eventi in Ucraina ed è destinata a cambiare, dichiara uno scrittore moldavo.

Vasile Gàrnet 26 luglio 2014 ZIARUL NATIONAL  

Noi moldavi viviamo assillati dalle nostre preoccupazioni interne (la fermata dei minibus, gli scismi dei comunisti dell’ex presidente Vladimir Voronin, e così via), ma anche dalla guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. È normale, perché è impossibile ignorare ciò che accade in casa propria, né far finta di non capire che cosa sta accadendo dai vicini.

Nel frattempo, l’Europa ha eletto un nuovo Parlamento e si sono combattute violente battaglie per i posti dei commissari nell’esecutivo europeo. Noi speriamo di disporre, nella nuova legislatura di Bruxelles, del massimo numero possibile di amici e sostenitori, come accadde nel precedente parlamento, quello che ha incoraggiato e reso possibile la firma dell’Accordo di Associazione.

Purtroppo, nel suo discorso d’insediamento, il nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker ha pronunciato una frase a dir poco infelice per i moldavi. Ha detto infatti: “Nei prossimi cinque anni non ci saranno ulteriori allargamenti […]. L’Ue deve prendersi una pausa nel suo processo di allargamento, per consolidare ciò che è stato fatto nei Ventotto”.

Non intendo esprimere un giudizio sulla saggezza della formula utilizzata dal nuovo presidente della Commissione, né mi chiedo se per un solo istante egli abbia pensato che con le sue parole stava soffocando le aspirazioni di milioni di europei dell’est che vivono sotto la minaccia diretta della Russia. Questa minaccia non si traduce semplicemente in aggressioni armate, come in Ucraina, ma anche in embargo economici, in un’offensiva di propaganda virulenta e fascistoide, in operazioni segrete di sabotaggio, nell’istigazione di movimenti separatisti locali, e così via. L’arsenale a disposizione è considerevole e sembra non esaurirsi mai.

La dichiarazione del nuovo presidente della Commissione potrà scoraggiare gli sforzi riformistici della Repubblica della Moldavia, intrapresi da un governo che ha messo in gioco la propria credibilità nel nome dell’idea europea, e potrebbe anche apportare nuove motivazioni alle forze filorusse del nostro paese.

Al tempo stesso, non vorrei fare drammi sulle dichiarazioni di Juncker: è evidente infatti che esse vanno inquadrate in quel momento particolare, solenne, regolato da protocolli, nel quale ha lanciato un appello alla conciliazione ai populisti euro-scettici che hanno vinto parecchi seggi a Bruxelles. L’integrazione europea della Repubblica della Moldavia, per quanto strano ciò possa sembrare, dipende in gran parte da noi. Noi soli, infatti, potremo con il nostro voto [alle elezioni legislative] del novembre 2014 portare al governo forze in grado di dar vita a una nuova coalizione filo-europea. Questo sarà la nostra argomentazione davanti agli euro-scettici di casa nostra e all’estero.

Noi siamo protetti dall’Ucraina, dove si è veramente versato sangue per l’idea europea. Noi saremo aiutati da un gruppo di paesi membri dell’Europa centrale, con il suo zoccolo duro formato da Polonia, Paesi Baltici e Romania, che sosterranno con determinazione la causa della Repubblica della Moldavia. E non dimentichiamo il contributo essenziale degli Stati Uniti che, al di là degli scandali legati allo spionaggio e alla caccia alle “talpe” russe infiltrate nelle cancellerie occidentali, hanno anche loro voce in capitolo nella politica europea.

L’evoluzione degli eventi in Ucraina può cambiare l’atteggiamento disfattista di Bruxelles. Le previsioni di Juncker sono inevitabilmente momentanee e di circostanza in un’Europa la cui agenda è redatta da una Russia totalmente fuori di senno.

Traduzione di Anna Bissanti

lunedì 28 luglio 2014

L'ANALISI - Quale futuro per Gaza?


Il direttore delle operazioni Unrwa nella Striscia si interroga sul futuro di questo territorio dopo le violenze. "Tornare alla normalità - dice - significa tornare a otto anni di blocco, al 50% di disoccupazione e all'isolamento"

Un "ritorno all’accordo di cessate il fuoco del novembre 2012 tra Israele e Hamas[1]". È quanto chiesto dal Consiglio di sicurezza dell'Onu su richiesta della Giordania, convocato d'urgenza nella notte tra il 20 e il 21 luglio a New York. Dopo due ore di consultazioni a porte chiuse, in una dichiarazione letta dal presidente del Consiglio, l'ambasciatore ruandese Eugène-Richard Gasana, i 15 paesi membri chiedono "il cessate il fuoco, la fine immediata delle ostilità e il rispetto del diritto internazionale umanitario, compresa la protezione dei civili" nella Striscia di Gaza. Tutto questo mentre, nelle stesse ore, dall'altra parte del globo jet e carri armati israeliani hanno continuato a colpire la Striscia di Gaza. Alle prime ore dell'alba l'esercito dà la notizia che le forze israeliane hanno ucciso almeno 10 combattenti palestinesi che avevano varcato il confine da Gaza attraverso due tunnel.
'IL DRAMMA DELLE FAMIGLIE SFOLLATE TRA BOMBE, RAID AEREI E DISTRUZIONE. A due settimane dall'inizio degli scontri, l'8 luglio, il bilancio sale ora a 501 i morti palestinesi, 13 israeliani, 3.135 i feriti e migliaia di sfollati. Secondo l'Unrwa[2], l'agenzia per i rifugiati dell'Onu infatti, sarebbero più di 63mila (ma fonti locali parlano di 81mila) le famiglie palestinesi che in queste ore stanno lasciando le loro abitazioni distrutte dai bombardamenti nelle cinque aree della Striscia, trovando riparo in 55 scuole  dell'Unrwa che funzionano come rifugi di emergenza. Ma la situazione è difficile anche per gli aiuti. L'agenzia ha lanciato un appello per continuare a fornire a famiglie e bambini cibo, cure mediche e aiuti d'emergenza come materassi, coperte, kit per igiene personale. Intanto il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, giunto in Qatar, nuovo crocevia diplomatico in queste ore, ha parlato di "atrocità" a Gaza, chiedendo a Israele di "fare di più" per salvaguardare la vita dei civili.
L'OSTINAZIONE DI NETANYAHU  E L'ARRIVO DI JOHN CARRY AL CAIRO. E mentre la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza è al collasso e si continua ancora a combattere, tra la paura e il terrore della gente Il premier israeliano Benyamin Netanyahu fa sapere che andrà avanti per la sua strada: "Completeremo la missione - ha fatto sapere poche ore fa -. Riporteremo la pace nel sud e nel centro di Israele. Non abbiamo scelto di entrare in questa campagna, ci è stata imposta". Parole che sembrano allontanare ogni possibilità di raggiungere un accordo diplomatico, come anche auspicato dall’ONU. Nel frattempo, secondo il portavoce del Dipartimento di stato, Jennifer Psaki,  il 21 luglio il segretario di stato americano, John Kerry, è arrivato al Cairo per discutere la situazione a Gaza, sottolineando che gli Stati Uniti sono preoccupati per il rischio di un’ulteriore escalation e per la perdita di altre vite innocenti. "Riteniamo debba esserci un cessate il fuoco il prima possibile, uno che ripristini l'accordo del novembre 2012", ha insistito la portavoce Psaki, rinvigorendo il messaggio del Presidente Barack Obama.

L'ANALISI DI ROBERT TURNER SUL FUTURO DI UN TERRIROTIRO DEVASTATO DALLA GUERRA
"Mentre siedo nel mio ufficio, che è diventato anche la mia stanza da letto qui a Gaza, con l'orecchio teso al boato dei bombardamenti, si parla di come porre fine a tutta questa violenza. È sicuramente la priorità, soprattutto per i tanti civili che stanno caricando il peso di questa ultima escalation. Ma quando penso alle 17.000 persone sfollate che hanno cercato protezione nelle nostre scuole, con alcune delle quali ho parlato ieri, mi domando cosa ne pensano. Sono già passati attraverso tutto questo, per alcuni è il terzo sfollamento dal 2009, molti sono tornati nella stessa scuola che li aveva già ospitati in passato. Se il cessate il fuoco dovesse finire alla stessa maniera delle volte precedenti, non sarebbero comunque portati a interpretarlo come un'altra breve pausa, tra una violenza e l'altra?
Per Gaza, tornare alla normalità significa tornare a otto anni di blocco. Significa tornare a una situazione in cui oltre il 50 per cento della popolazione è disoccupata o comunque non viene pagata. Significa tornare a un isolamento che non permette nessun accesso al mercato, lavoro, educazione, insomma al mondo. Per esempio, se una delle nonne con cui ho parlato ieri volesse studiare all’università di Birzeit, in Cisgiordania, non potrebbe. Il governo di Israele non ha bisogno di dimostrare che questa nonna è un pericolo per la sicurezza, in quanto hanno già approvato un veto totale su tutti i gazawi che vogliano studiare in Cisgiordania. La maggior parte dei suoi abitanti, non può lasciare i 365 km quadrati in cui vive.
Se uno degli agricoltori con cui ho parlato ieri potesse trovare un acquirente per i suoi pomodori a Parigi o Praga potrebbe mettere in una scatola i suoi prodotti e spedirli tramite un varco commerciale al porto di Ashdod o all'aeroporto di Ben Gurion, due tra i siti più sensibili in termini di sicurezza di tutta Israele. Ma non c'è mercato per i pomodori di Gaza a Parigi o a Praga. Ci sarebbe un mercato in Israele e Cisgiordania, ma questo contadino non può vendere i suoi pomodori perché rappresentano un problema alla sicurezza, non meglio definito. Gli anziani che ho incontrato ieri si preoccupano di come potranno accedere al sistema sanitario una volta finita l'emergenza. Al di fuori dei servizi degli ambulatori dell'Unrwa e di qualche ONG sul campo, il sistema pubblico è al collasso. Le infrastrutture sono state gravemente danneggiate e ci si chiede chi potrà ripararle. Se all'Autorità Palestinese non viene concessa la possibilità, o non ha i fondi per farlo, lo deve fare la comunità internazionale? O deve essere Israele, la potenza occupante, ad assumersene la responsabilità?
Le madri che ho incontrato ieri si chiedono dove studieranno i loro figli tra sei settimane, il tempo della pausa estiva, se non nelle 245 scuole dell'Unrwa. Chi aggiusterà le scuole governative, comprerà i libri di testo, pagherà i salari agli insegnanti? Se le scuole pubbliche non riapriranno, è Unrwa  che deve riempire questo vuoto? Non abbiamo la capacità fisica, umana, finanziaria di integrare decine, centinaia, o migliaia di studenti nelle nostre scuole già sovraccariche. Unrwa  e la famiglia delle Nazioni Unite, inclusi Wfp, Unicef, Ocha e Undp, continuano ad occuparsi delle necessità umanitarie delle persone di Gaza. Tra i settori che abbiamo allargato negli ultimi anni c'è quello delle costruzioni: prevalentemente scuole, nelle quali insegniamo a oltre 230.000 bambini, e ricostruzione delle case distrutte dai bombardamenti o demolite da Israele.
Se vogliamo dare avvio a una nuova costruzione, dobbiamo prima presentare a Israele una procedura complessa, che specifica il progetto, il luogo, le spese, la quantità di materiale che servirà. Poi Israele giudica la proposta, fase che dovrebbe durare due mesi ma che invece dura di solito 20 mesi. Non abbiamo ricevuto una sola approvazione nel periodo di "calma" tra marzo 2013 e maggio 2014 e abbiamo progetti del valore di 100 milioni di dollari che aspettano un 'SI'. Il prossimo periodo di calma sarà meglio? Ancora più importante: la gente vuole sapere chi governerà Gaza. Nessuno ha una risposta per questa domanda. Penso che la gente di Gaza direbbe che se è questa la "calma" che hanno in mente, sebbene preferibile alla violenza, non può durare. Non durerà".

NOTE
[1]
Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (Movimento Islamico di Resistenza) è un'organizzazione palestinese, di carattere politico, paramilitare e terrorista secondo l'Unione Europea, in base alla Posizione comune del suo Consiglio (2005/847/PESC del 29 novembre 2005), secondo gli Stati Uniti e l'Australia.
[2] Il Comitato italiano per l'UNRWA è parte integrante della struttura dell'Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees) che dal 1949, su mandato dell'Assemblea Generale, fornisce assistenza e protezione ai rifugiati palestinesi in attesa di una giusta soluzione alla loro condizione.

ITALIA - Non solo riforme istituzionali: è l'estate delle trattative


Non c'è solo la partita del Senato sul tavolo del Presidente del Consiglio e della sua trasversale ma non solidissima maggioranza. I 'fascicoli' aperti sono almeno cinque, ciascuno legato all'altro e su ognuno dei quali si sta consumando e si consumerà una trattativa  interna a quel patto del Nazareno che lega i destini di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, il primo interessato a portare a casa risultati, il secondo a ottenere garanzie su altri temi che non sono necessariamente la riforma della Costituzione.

SENATO

La trattativa viene condotta apparentemente alla luce del sole. L'annuncio della tagliola ha fatto più male che bene al governo, non più così certo di voler forzare la mano all'ostruzionismo parlamentare per ottenere l'agognata approvazione in prima lettura entro due settimane.  Domani Palazzo Madama torna a votare gli emendamenti, dopo che la scorsa settimana l'Aula è rimasta praticamente ferma al palo. Problema ulteriore per il governo è il voto segreto, la cui ammissibilità è stata decretata dal Presidente del Senato Piero Grasso, causando l'insoddisfazione dei renziani, consapevoli di quanto può accadere in seno al PD quando si vota in questo modo. Renzi scrive ai senatori avvisandoli che dalla loro tenuta "dipende il futuro dell'Italia". Intanto il premier si prepara ad un nuovo faccia a faccia con Silvio Berlusconi, probabilmente mercoledì 30 luglio. Sul tavolo le presunte aperture che i firmatari del patto potrebbero concedere ai dissidenti.

LEGGE ELETTORALE

Se sul Senato dovrebbe essere possibile trattare solo su argomenti secondari (la non elettività di Palazzo Madama non sembra in discussione), i 'Nazareni' aprono sulla legge elettorale, la cui discussione ora diventa centrale e si lega comunque al Senato. Perché ogni concessione sull'Italicum potrebbe consentire di sbloccare l'ostruzionismo sul DDL Boschi, nel più classico degli scambi. Su cosa si discute in merito alla legge elettorale? Preferenze ma soprattutto soglie di sbarramento (4.5% per i partiti coalizzati) giudicate troppo alte dai partiti più piccoli. Partiti come NCD e la galassia dei centristi, decisivi per il governo a Palazzo Madama, ma anche SEL, oggi divisa fra filo-governativi e oppositori. Ed è il partito di Vendola ad aver presentato il maggior numero di emendamenti, circa 5mila su un totale di 7800.  Se si dovessero abbassare le soglie, potrebbero venire giù anche alcune barricate al Senato.

Ma non ci sono solo le arcinote riforme istituzionali al centro della trattativa.

MAGISTRATI

Oggi è iniziato l'iter di approvazione parlamentare del decreto sulla Pubblica Amministrazione, che dovrà essere convertito in legge entro il 24 agosto. I tempi sono stretti, proprio perché al Senato è stato imposto il tour de force per la discussione della riforma costituzionale. Con tutta probabilità il governo porrà sul testo l'ennesima fiducia. Partita importante anche per i magistrati: il decreto porta l'età pensionabile da 75 a 70 anni e mette in difficoltà la categoria. Ancor prima dell'entrata in vigore della legge sono numerosi gli uffici giudiziari 'scoperti' e il decreto acuirà questo problema, coinvolgendo circa 400 magistrati. La legge prevede una deroga di un anno per chi compie 70 anni all'entrata in vigore della norma, ma la categoria auspica una proroga di un altro anno, fino al 2016. Il governo non sembra voler ascoltare. La terza trattativa, che riferendosi al capitolo giustizia interessa molto l'altra metà del patto del Nazareno, quell'ex Cavaliere che sul tema ha da tempo ottenuto garanzie si unisce ad una quarta e una quinta: la nomina degli 8 membri laici del CSM e di due giudici costituzionali. Nomine di cui si dovrebbe occupare il Parlamento, fin qui congelate.

CSM

16 membri sono già usciti dalle 'urne' togate, eletti dai magistrati non senza pressioni della politica, ma il Parlamento non trova l'accordo per le sue otto nomine. Il tutto sembra venga rinviato a dopo l'approvazione del DDL Boschi, dopo la pausa estiva. Nel frattempo altre nomine restano congelate, come quella del nuovo procuratore capo di Palermo, ufficio particolarmente 'caro' alla politica, dove si conduce l'inchiesta sulla trattativa stato-mafia che tanto fastidio provoca a Roma, fino ai colli più alti. Toccherà al nuovo CSM. Sarà un caso, ma sull'argomento è piombato proprio l'intervento di Napolitano, con una nuova lettera al CSM che di fatto ha stoppato ogni decisione. "Francamente questo slittamento non ci voleva - il commento di Sabelli, presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, riportato oggi da Repubblica - Perché è evidente che più si tarda nel far entrare in vigore il nuovo Csm, più si perde tempo con le nomine. Farne centinaia, di uffici direttivi e semidirettivi importanti, nell'arco di un anno sembra davvero un'impresa impossibile. Nasce da qui la richiesta di avere una deroga più ampia, fino al 2016, come ho spiegato in Parlamento".

CONSULTA

Quinto fascicolo della trattativa, la nomina di due giudici costituzionali. Per una Corte dove sono già presenti Giuliano Amato (nomina di Napolitano), Paolo Maria Napolitano (nel 2009 a cena con Berlusconi, Alfano e Gianni Letta proprio mentre la Consulta doveva giudicare la costituzionalità del Lodo che portava il nome dell'attuale ministro degli Interni), Sabino Cassese (già ministro del governo Ciampi, poi nei CDA di Autostrade, Generali, Lottomatica), Giuseppe Frigo (sostenitore delle separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, eletto dal Parlamento durante l'ultimo governo Berlusconi) e Sergio Mattarella (Ministro della Difesa durante il governo D'Alema e ministro della Pubblica Istruzione con il governo Andreotti, eletto dal Parlamento nel 2011), erano stati fatti i nomi di Ghedini, storico avvocato di Berlusconi, e di Luciano Violante, saggio di Napolitano che lo scorso anno proponeva di istruire i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati davanti ad una Corte nominata per 1/3 dal Parlamento e per 1/3 dal Presidente della Repubblica, a sua volta eletto dal Parlamento. Ora i nomi del 'perfetto inciucio' sono scomparsi, ma il Parlamento rinvia anche in questo caso ogni discussione a dopo la pausa estiva, in attesa del buon esito delle altre trattative
Claudio Forleo