Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


venerdì 29 marzo 2013

UE – L’articolo censurato da El Pais che paragona la Merkel a Hitler


L’articolo di Juan Torres censurato da El país:
“È molto significativo che abitualmente si parli di “castigo” per riferirsi alle misure che la Merkel e i suoi ministri impongono ai paesi più colpiti dalla crisi.

Dicono ai propri compatrioti che devono castigare le nostre irresponsabilità affinchè il nostro scialacquamento e i nostri debiti non li debbano pagare adesso i cittadini tedeschi. Però il ragionamento è falso perchè gli irresponsabili non sono stati i popoli ai quali adesso la Merkel si impegna a castigare, ma le banche tedesche che sta proteggendo e quelle degl’altri paesi alle quali prestarono capitali, in questo caso si che irresponsabilmente, per ottenere guadagni multimilionari.

I grandi gruppi economici europei riuscirono a stabilire un modelo di unione monetaria molto imperfetto e asimmetrico che da subito ha riprodotto e ingrandito le differenze originarie tra le economie integranti. Inoltre, grazie alla sua enorme capacità d’investimento e il gran potere dei suoi governi, le grandi compagnie dei paesi del nord riuscirono ad appropiarsi di una grande quantità di aziende, o addirittura interi settori economici, dei paesi periferici come la Spagna. Tutto ciò ha provocato grandi deficit commerciali in questi ultimi paesi e un forte surplus in Germania e in forma minore in altri paesi.

Parallelamente le politiche dei successivi governi tedeschi concentrarono ancora di più i redditi verso la cima della piramide sociale, aumentando quindi il loro già alto livello di risparmio. Dal 1998 al 2008 la ricchezza del 10% della popolazione tedesca più ricca, passò dal 45% al 53% del totale; quella del 40% (classe media) dal 46% al 40% e quella del 50% della popolazione più povera dal 4% all’1%.

Queste circostanze misero a disposizione delle banche tedesche ingenti quantità di liquidità. Però invece di dedicarla a migliorare il mercato interno tedesco e la situazione della popolazione con un reddito più basso, la usarono (circa 704000 milioni di euro fino al 2009, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali ) per finanziare i debiti delle banche irlandesi, la bolla immobiliaria spagnola, l’indebitamento delle aziende greche o per speculare, facendo in modo che il debito privato nella periferia europea s’impennasse e che le banche tedesche si riempissero di attivi tossici (900000 milioni di euro nel 2009)
.
Allo scoppiare della crisi si risentirono gravemente però riuscirono a fare in modo che la propia insolvenza, invece di manifestarsi come il risultato della loro grande imprudenza e irresponsabilità (alla quale non si riferisce mai la Markel), si presentasse come il risultato dello scialacquaggio e del debito pubblico dei paesi alle cui banche avevano prestato i propri capitali. I tedeschi ritirarono rapidamente il proprio denaro da questi paesi, però il debito rimaneva nei bilanci delle banche debitrici. Merkel si eresse come la difensora delle banche tedesche e per aiutarle mise in atto due strategie. Una, i salvataggi, venduti come se fossero diretti a salvare i paesi, però che realmente consistono nel dare ai governi denaro sotto forma di prestiti, pagati dalla popolazione e che vengono passati alle banche nazionali affinchè queste si recuperino quanto prima per pagare i tedeschi. L’altra, impedire che la BCE tagli dalla radice gli attacchi speculativi contro i debiti dei paesi periferici affinchè, aumentando lo spread, si abbassi il costo di finanziazione per la Germania.

Merkel, come Hitler, ha dichiarato guerra al resto dell’Europa, oggi per garantirsi il suo spazio vitale economico. Ci castiga per proteggere le sue grandi aziende e banche, ma anche per nascondere al suo elettorato la vergogna di un modelo che ha fatto in modo che il livello di povertà nel suo paese sia il più alto degl’ultimi 20 anni, che il 25% dei suoi impiegati guadagni meno di 9,15 euro l’ora, o che alla metà della popolazione corrisponda, come ho detto prima, un misero 1% di tutta la ricchezza nazionale.

La tragedia è l’enorme connivenza tra i poteri finanziari paneuropei che dominano i nostri governi, e che questi, invece di difenderci con patriotismo e dignità, ci tradiscano attuando come vere e proprie comparse agl’ordini della Merkel.” (tradotto da Gigi Pieri e pubblicato Nocensura )

UE - Spagna e Portogallo si mettono al riparo dal contagio


Conviene essere subito chiari: né in Spagna né in Portogallo si sta verificando una ondata di populismo o euroscetticismo, come invece accade in altri paesi membri dell’Unione Europea (Ue).

Anzi è vero il contrario, anche se è evidente che la sfiducia nei confronti dell’Ue è notevolmente cresciuta in entrambi i paesi (che hanno aderito nello stesso anno all’allora Comunità europea e che si trovano oggi in condizioni economiche differenti, pur essendo state entrambe colpite duramente dalla crisi). Però, a ben vedere, la sfiducia nei confronti dell’Ue e l’euroscetticismo non sono sinonimi. I cittadini spagnoli e quelli portoghesi non si fidano dell’Ue, così come non si fidano delle Istituzioni politiche nazionali, anzi si fidano meno proprio di queste ultime. Un risultato del tutto logico se si considera che né le Istituzioni di Bruxelles né i governi di Madrid e di Lisbona sono stati in grado di risolvere la crisi attraverso politiche di austerità ad oltranza; al contrario, l’hanno approfondita. I politici (sia quelli nazionali che quelli europei) generano ormai sfiducia tra coloro che hanno perso il proprio posto di lavoro o temono di perderlo, hanno visto allontanarsi l’età del pensionamento, hanno dovuto accettare una riduzione del loro salario o, più in generale, osservano un deterioramento del loro tenore di vita; ciò vale quindi per milioni di cittadini, specialmente lavoratori.

E tutto questo senza alcuna contropartita, perché sulla base dei dati attuali non è possibile intravedere una via d’uscita alla crisi, né tanto meno un modo per ridurre le differenze sociali. Ad esempio la Spagna (secondo I Informe sobre la desigualdad realizzato dalla Fundación Alternativas e che sarà presentato a breve) è il paese dell’Unione in cui si è allargata maggiormente la forbice tra i ricchi e i poveri e in cui la povertà si è più approfondita ed estesa dall’inizio della crisi.

Sebbene dunque i sondaggi indichino un deciso aumento della sfiducia nei confronti dell’Ue, tuttavia essi non avvalorano l’ipotesi che i cittadini intendano bloccare la costruzione europea o rinunciare ad alcune delle sue più importanti conquiste. In effetti, continua chiaramente a prevalere l’opinione che l’appartenenza all’Ue sia comunque positiva. In gran parte i cittadini si considerano sia europei che spagnoli (o portoghesi) e, cosa ancora più importante, un’ampia maggioranza della popolazione non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi dell’uscita dall’euro, anzi al contrario lo ritiene indispensabile. È ad esempio significativo che in Spagna si considerino co-responsabili delle difficoltà economiche i governi di Germania e di Madrid prima che le Istituzioni europee, a riprova dunque del fatto che il tentativo di accollare a Bruxelles tutte le colpe non ha avuto successo. In realtà le manifestazioni di piazza criticano apertamente la politica di austerità e, nel caso del Portogallo (che, non va dimenticato, è stato salvato) la Troika. Ma a nessuno viene in mente di condannare la Ue in quanto tale, né tanto meno quello che essa rappresenta. E ciò per motivi piuttosto chiari. Anzitutto, va ricordato che i cittadini sono ormai capaci di distinguere le responsabilità perché fortunatamente la loro conoscenza delle questioni comunitarie è aumentata. Inoltre in Spagna, così come in Portogallo, i benefici dell’appartenza all’Ue sono stati, sono e saranno concreti e ben visibili sia dal punto di vista storico-politico che da quello economico-sociale, grazie soprattutto agli effetti della politica di coesione.

Se dunque l’euroscetticismo classico non è cresciuto, quello che invece è decisamente aumentato è un europeismo critico che trova ormai ampio spazio nei grandi partiti di governo, ma anche nelle formazioni minori, nei sindacati e nelle altre forze sociali, nei mezzi di comunicazione e nell’accademia. In effetti, i socialisti – adesso all’opposizione – hanno assunto una posizione molto critica rispetto alla politica di austerità (che, senza alcun dubbio, essi stessi hanno contribuito ad elaborare e ad applicare mentre stavano al governo) a causa dei catastrofici risultati conseguiti, chiedendo invece a gran voce una politica capace di stimolare la crescita e l’occupazione. Ma ciò non li ha spinti nemmeno per un momento anche solo a ipotizzare l’abbandono del loro tradizionale europeismo, anzi li ha portati a chiedere un’unione politica di tipo federale dell’Ue e, in questo contesto, un’unione economica e sociale attraverso la quale preservare lo stato di benessere sin qui conseguito. Una posizione identica è stata adottata dai principali sindacati, da altre forze sociali, nonché da autorevoli commentatori e ricercatori (come indicato nel II Informe sobre el estado de la UE. El fracaso de la austeridad che è stato realizzato congiuntamente dalla Fundación Alternativas e dalla Friedrich-Ebert-Stiftung e che sarà presentato a breve).

Un passo più in là si trovano invece i partiti a sinistra dei socialisti, che in certa misura hanno visto rafforzata la loro opposizione all’euro, senza però spingersi fino a chiederne l’abbandono.
In ogni caso, ciò che va rilevato è che la politica di austerità sta modificando in maniera significativa il panorama politico esistente, anche se non attraverso un incremento del populismo. Né in Spagna né in Portogallo esistono partiti che hanno optato per questa deriva democratica o per l’antieuropeismo; cosa che non hanno fatto nemmeno i movimenti sociali di contestazione (per esempio, il 15-M in Spagna o movimenti simili in Portogallo). Ciò che invece viene ferocemente criticata è la gestione della crisi attraverso politiche di austerità da parte dei politici e delle Istituzioni; le critiche si concentrano quindi sui comportamenti dei primi e su come funzionano attualmente le seconde, e mirano a una profonda rigenerazione democratica.

Il cambiamento del panorama politico va dunque in un altro senso: prendendo il caso della Spagna, si va nella direzione di una perdita di consenso dei due principali partiti politici che congiuntamente di solito raccolgono circa l’80 per cento dei voti. Secondo alcuni sondaggi questa cifra appartiene ormai alla storia, in quanto oggi entrambi potrebbero arrivare a stento al 50 per cento, a tutto vantaggio di altre formazioni di sinistra o radicali, oltre che dell’astensionismo e delle schede bianche. Peraltro, altri sondaggi segnalano che i partiti di governo starebbero recuperando la loro egemonia nella distribuzione del voto, sebbene con un forte allontanamento da chi governa che però non va a totale beneficio di chi sta all’opposizione, quanto piuttosto delle terze opzioni sopra segnalate.
Né in Spagna né in Portogallo esistono per il momento un Beppe Grillo o un Ukip, per fortuna. Tuttavia ciò non significa che questo varrà anche per il futuro, anche se appare poco probabile. Né la storia né la vita democratica dei due paesi vanno in questa direzione.
In qualche modo quindi la lezione che va tratta è che l’Ue e i governi nazionali devono riflettere con attenzione sulle loro politiche di austerità. E che i partiti hanno il dovere di rinnovare la democrazia e combattere la corruzione. Altrimenti correranno il rischio di diventare inutili in un sistema in cui sono per definizione imprescindibili. Se questo paradosso dovesse verificarsi, allora sì che la porta del populismo verrebbe inevitabilmente spalancata.

29 - 03 – 2013 Carlos Carnero 


Carlos Carnero è direttore della Fundación Alternativas. È stato eletto eurodeputato e nominato “Embajador de España en Misión Especial”

UE - Per i tedeschi è l’Italia il problema maggiore per l’Europa


28 - 03 - 2013 - “Il più grande problema dell’Europa”: così titola il settimanale tedesco Die Zeit, in un articolo firmato dal collaboratore Fabio Ghelli, sottolineando che “tutti parlano di Cipro”, ma che il vero problema dell’eurozona è l’Italia e non solo per la crisi politica in corso.
Il giornalista intervista un imprenditore piemontese, Luca Peotta, a capo di un’azienda che produce altoforni, mentre si trova a Bruino, alle porte di Torino, che si lamenta del fatto che fino a un anno fa “qui nell’aria rombavano camion e auto, mentre oggi non c’è più nulla”. La disoccupazione tra i giovani rasenta il 31%: un tempo venivano a Torino a cercare lavoro, ora emigrano in Germania o in Svizzera.
Non solo Torino. “L’Italia è in una profonda recessione, la più pesante degli ultimi decenni. Solo nel 2012 circa 100mila aziende hanno dovuto chiudere i battenti. 100mila in un anno. Il tasso di disoccupazione raggiungerà presto il 12%”, secondo la Zeit online. La situazione necessiterebbe di una “forte leadership politica” – prosegue – invece il paese si trova in una crisi politica. Forse Pier Luigi Bersani non riuscirà a formare il governo neanche la settimana prossima: “Oltre a ciò – insiste l’autore dell’articolo – l’incertezza dell’Europa dopo il salvataggio di Cipro è tornata a crescere”.

CIPRO - Riaprono le banche: regole e restrizioni


29 - 03 - 2013 Le banche cipriote hanno ripreso l’orario di apertura abituale, ma restano in vigore le restrizioni decise dal governo di Nicosia per evitare il rischio di una fuga di capitali. Dopo 12 giorni di chiusura le banche avevano aperto ieri per sei ore, senza che si siano verificati incidenti o disordini.
Le uniche file si sono registrate questa mattina davanti alle agenzie della Laiki Bank, secondo istituto finanziario del Paese, destinata ad essere liquidata in conformità all’accordo raggiunto fra il governo cipriota e la “troika” dei creditori (Ue, Bce ed Fmi).
Il Ministero delle Finanze cipriota ha stabilito in 300 euro giornalieri il tetto massimo per i prelievi bancomat e agli sportelli bancari; è previsto un tetto ai bonifici verso l’estero di 5mila euro mensili, per ogni persona e per singola banca, mentre i turisti che lasciano l’isola non potranno portare con sé più di mille euro in contanti; inoltre verrà vietato l’incasso degli assegni e sarà possibile solo versarli sul proprio conto.
Per le transazioni commerciali non è prevista alcuna limitazione ma per gli ammontare superiori a 5mila euro le imprese dovranno provare davanti ad una commissione che le spese sono dovute alle attività ordinarie mentre per le somme superiori a 200mila euro la stessa commissione dovrà tenere conto anche della situazione della banca coinvolta prima di concedere l’autorizzazione.
Le imprese potranno invece pagare regolarmente gli stipendi dei dipendenti all’estero e le compagnie di assicurazione versare gli indennizzi senza alcuna limitazione; inoltre, i residenti ciprioti saranno autorizzati a sostenere le spese dei figli che studiano all’estero fino a un massimo di 5mila euro a trimestre.

ITALIA - Ecco come Napolitano e Bersani hanno bisticciato


29 - 03 – 2013 - Il Pd è la forza che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato, se dicono no al candidato premier del centrosinistra perché dovrebbero dire sì ad un nome non del Pd ma sostenuto comunque innanzitutto dai democratici? E perché questo governo dovrebbe essere più forte?
E’ questo – scrive Alessandro Di Matteo dell’agenzia TM News – il senso del ragionamento fatto da Pier Luigi Bersani al Quirinale questa sera. Non è un esplicito no al “governo del presidente”, ma un ragionamento che il leader Pd ha messo sul tavolo dopo che il capo dello Stato ha ripetuto la richiesta di “numeri certi”.
Bersani, infatti, si sarebbe detto convinto che la strada migliore da seguire sarebbe quella di andare in Aula a vedere cosa dicono le forze politiche di fronte alla sua proposta. Non solo, ma il leader Pd avrebbe fatto presente al capo dello Stato che allo stato “altre soluzioni”, ovvero il governo del presidente, non sembrano piů facili. Un colloquio che certo non è stato facile, anche se lo staff del segretario nega qualunque tensione.
La linea di Bersani
Bersani, secondo quanto apprende TM News, avrebbe costruito il sui percorso basandosi sulla ostilità mostrata fin qui dal Pdl e dalla Lega verso un governo istituzionale: anche Maroni e Berlusconi, sarebbe stato il ragionamento, vogliono un governo politico e non ‘tecnico’. Ma un governo politico di larghe intese, avrebbe aggiunto Bersani, è impercorribile per il Pd, per tutto il Pd, anche per quelli che sarebbero pronti a sostenere un ‘governo del presidente’. Del resto, avrebbe buttato lì il presidente del Consiglio “non si può prescindere dalla forza che ha più voti in Parlamento”.
La replica del Quirinale a Bersani
Un discorso di fronte al quale Napolitano avrebbe allora rilanciato: andare alle Camere con il quadro che si è delineato è impensabile, apprfondiamo allora la posizione delle forze politiche e poi tiriamo le somme. Chiaramente, per Bersani e i suoi questo significa tenere aperta la possibilità di quadrare il cerchio per altre 48 ore, facendo nel frattempo capire al centrodestra che c’è il serio rischio che non esista un “piano B”.
Gli obiettivi di Napolitano
Il Quirinale, invece, secondo alcune fonti parlamentari consultate da TM News, interpreterebbe le consultazioni-lampo di domani in maniera molto ampia: sarebbero l’occasione non solo per verificare se si riesce a far partire un governo Bersani, ma anche per testare quel “governo del presidente” che al momento sarebbe stato oggetto di colloqui molto informali e riservati del capo dello Stato. Nel frattempo, però, cresce anche l’insofferenza del Pd: Matteo Renzi resta in rigoroso silenzio, Walter Veltroni da tempo è per un governo del presidente e anche Massimo D’Alema, raccontano, non sarebbe per niente d’accordo con l’idea di tornare subito a votare.

USA - Legalizzata l’assenza di controlli sugli OGM


Obama ha firmato l’”Atto di Protezione Monsanto” (HR933)
La rabbia cresce contro il presidente Barack Obama, il giorno dopo la firma che converte in Legge un Disegno comprendente una disposizione che è stata prontamente ribattezzata dall’opposizione, la “Legge Protezione Monsanto “.
La suddetta nota, la risoluzione di continuità HR 933, era principalmente destinata a scongiurare un blocco del governo e assicurare che lo stesso governo federale potesse continuare a pagare i suoi conti per i prossimi sei mesi.
Però gli avvocati di “Food and Public Safety” e molti agricoltori indipendenti, sono furiosi perche Obama ha firmato nonostante l’inserimento di una norma che, ritengono, sia un regalo all’impresa Monsanto Company (NYSE:MON) e altre ditte che producono organismi geneticamente modificati (OGM) o sementi geneticamente modificate (GE).
I manifestanti hanno trascorso gli ultimi due giorni protestando davanti alla Casa Bianca, prima invitando Obama a porre il veto alla risoluzione e poi per criticare la avvenuta firma della Legge.
Le proteste vengono sulla scia di una massiccia campagna, organizzata dal gruppo di avvocati Food Democracy Now, che ha raccolto più di 200.000 firme di persone che chiedevano al Presidente Obama di porre il veto al HR 933 al fine di bloccare ed eliminare la sezione 735 – il cosiddetto “Monsanto Protection Act” – da essere codificata in legge.
Però Obama ha ignorato la petizione, scegliendo invece di firmare una legge che, effettivamente, impedisce alle Corti di Giustizia Federali, di poter proibire la vendita o la coltivazione di colture OGM o GE, indipendentemente da quali possano essere le future conseguenze per la salute, derivanti dal consumo di questi prodotti.
“Questa legge è semplicemente uno stratagemma delle lobbies industriali per continuare a vendere i semi geneticamente modificati, anche quando un tribunale ha dichiarato che sono stati approvati da USDA illegalmente”, questa è la chiara presa di posizione dei promotori della petizione. “È una legge inutile ed è un chiaro attacco, senza precedenti , al potere e all’indipendenza della rama giudiziaria degli Stati Uniti. Il Congresso non dovrebbe intromettersi mai nel processo di revisione giudiziaria, sopratutto di una forma basata esclusivamente sull’interesse di una manciata di aziende speciali.”
Molti sostenitori della sicurezza alimentare, sostengono che non ci sono abbastanza studi sui potenziali rischi per la salute di semi e colture OGM e GE, in questo contesto, il potere giudiziario, era un ricorso fondamentale per proibire alle aziende di vendere o coltivare organismi geneticamente modificati, in caso che venissero alla luce rischi per la salute del consumatore.
Ma il “Monsanto Protection Act”, chiamato invece dai suoi sostenitori “Garanzia delle forniture ai Coltivatori”, cancella tale opzione al potere giudiziario. Gli oppositori al Disegno di Legge, oltre ad essere arrabbiati con il Presidente Obama per la firma apposta allo stesso, sono indignati con la Senatrice Barbara Mikulski, D-MD., che è accusata di aver commesso un errore gravissimo nel non modificare il Disegno di Legge e lasciar passare la norma che proibisce alle Corti Federali di giudicare sui suddetti OGM e GE.
Andrew Kimbrell, direttore esecutivo del centro per la sicurezza alimentare, ha dichiarato alla stampa: “In questo inciucio, nascosto nelle plieghe di un disegno di legge totalmente estraneo al tipo di industria che alla fine va a regolamentare, la senatrice Mikulski ha voltato le spalle ai consumatori suoi elettori, all’ambiente e alla protezione dell’agricultura in favore degli interessi di aziende biotech come Monsanto” e ancora “Questo è un abuso di potere, queste non sono il tipo di azioni che il pubblico si attende dalla senatrice Mikulski o dalla maggioranza dei democratici al Senato”.
Molti oppositori alla Legge sostengono che questa norma era già inserita nel disegno di legge mentre questi era ancora allo studio della Commissione agli Stanziamenti del Senato, presieduta dalla Sen. Mikulski, e che il Comitato non ha apportato nessuna modifica al disegno stesso.
Molti Deputati del Partito Democratico, che hanno votato per il disegno di legge, hanno dichiarato di non essere a conoscenza della norma li inserita e volta a legiferare una questione così delicata.

Traduzione di Diego B. per Dionidream

mercoledì 27 marzo 2013

ITALIA - Il vaffa che Bersani avrebbe dovuto dire ai 5 Stelle


Si può anche essere avversari del Pd, non avere simpatia per Pier Luigi Bersani ed augurarsi che il suo tentativo di formare un governo fallisca miseramente; ma non si può tollerare che il leader di un grande partito, erede più o meno felice di tradizioni e culture radicate nella storia e nella società sia sottoposto, come è successo oggi in occasione dell’incontro tra il presidente incaricato e i rappresentanti del M5S, a una volgare messinscena e a una spietata requisitoria da parte di un gruppo di disoccupati, precari, peracottari e nulla facenti del web, che la beffa di un destino cinico e baro ha fatto approdare in Parlamento.

Se il segretario del Pd conservasse ancora un po’ di dignità e di amor proprio avrebbe dovuto mettere alla porta i suoi interlocutori, magari dopo aver preso a pedate, in diretta, i loro “magnanimi lombi”. Ma questi pellegrini chi si credono di essere? Che idee si sono fatti della politica, tanto da risalire indietro negli anni a rimarcare, come se fosse un tradimento (di chi? di che cosa?), ogni soluzione di compromesso, che non appartiene soltanto all’agire sul terreno politico, ma anche alla vita quotidiana delle persone in ogni ambiente in cui si trovino a trascorrere il loro tempo? Chi dà loro il diritto di giudicare, come se il web si fosse trasformato in un tribunale della Storia? Chi li autorizza – loro che non sanno nulla – a credere di sapere tutto? A voler rappresentare i “grillini” si potrebbe prendere quella celebre tela di Pieter Bruegel (‘la parabola dei ciechi’) in cui viene effigiata una processione di poveri non vedenti che avanza eseguendo una danza macabra, uno stretto all’altro, per non smarrirsi.
Roberta Lombardi, testa e braccia rubate ai lavori domestici (lo diciamo senza mancare di rispetto al ruolo delle casalinghe e al lavoro delle colf), ma capo gruppo del M5S a Montecitorio, ne ha detta un’altra delle sue: i “grillini” non hanno bisogno di consultare le parti sociali perché le parti sociali sono loro. Perché stupirsi per questa affermazione? In fondo sono coerenti nel loro delirio. A che cosa servono il pluralismo sociale, i corpi intermedi, la rappresentanza degli interessi quando c’è il web? Basta andare sulla rete a porre delle domande e raccogliere poi le risposte, dopo averle opportunamente sottoposte al vaglio degli ayatollah del movimento, perché sarà pur vero che uno vale uno, ma la linea la tracciano Grillo e Casaleggio i quali almeno una cosa la condividono con il Cavaliere: l’ossessione per la capigliatura.

Del resto, Roberta Lombardi è coerente anche con una sua precedente dichiarazione, ben presto archiviata in nome del supremo interesse di ottenere i voti del movimento al Senato. La signora capo gruppo non esitò ad esprimere su Benito Mussolini degli apprezzamenti favorevoli, tali da prendere in contropiede persino Ignazio La Russa. Analoghi apprezzamenti, inopportunamente usciti di bocca ad un Berlusconi poco attento, avevano procurato al Cav. l’ennesima gogna pubblica. Ma per la nostra cittadina deputata, al dunque, il conto torna. Ricordate le tiritere degli insegnanti di Filosofia e di Mistica fascista, nel film ‘Amarcord’, uno dei capolavori di Federico Fellini?

I due personaggi, rappresentati in modo caricaturale, provavano a cimentarsi in aula, ciascuno nell’ambito della sua materia, con la versione casareccia delle teorie hegeliane (di destra) sullo Stato come soggetto totalitario, al cui interno la società e le sue istanze (ecco il corporativismo) si ponevano a disposizione dell’interesse supremo dello Stato stesso, grazie all’opera di un demiurgo (nel caso del Fascismo, appunto, Benito Mussolini) che realizzava la sintesi del bene comune. Con Roberta Lombardi siamo sempre lì. Basta mettere la rete al posto dello Stato e Beppe Grillo nel ruolo del demiurgo. Quanto a Gianroberto Casaleggio, non vi ricorda qualcuno quel suo sguardo allucinato?
27 - 03 – 2013 Giuliano Cazzola 

UE - L’“Impero latino” contro l’egemonia tedesca


Nell'immediato dopoguerra il filosofo francese Alexandre Kojève aveva suggerito la creazione di un’unione dei paesi mediterranei accomunati da cultura e interessi. Alla luce della problematica ascesa della Germania come potenza continentale, questa idea potrebbe tornare attuale.

Giorgio Agamben 26 marzo 2013 LIBERATION Parigi

Nel 1947 un filosofo, che era anche un alto funzionario del governo francese, Alexandre Kojève, pubblicò un testo dal titolo L'impero latino, sulla cui attualità conviene oggi tornare a riflettere. Con singolare preveggenza, l'autore affermava che la Germania sarebbe diventata in pochi anni la principale potenza economica europea, riducendo la Francia al rango di una potenza secondaria all' interno dell' Europa continentale.

Kojève vedeva con chiarezza la fine degli stati-nazione che avevano segnato la storia dell' Europa: come l' età moderna aveva significato il tramonto delle formazioni politiche feudali a vantaggio degli stati nazionali, così ora gli stati-nazione dovevano cedere il passoa formazioni politiche che superavano i confini delle nazioni e che egli designava col nome di "imperi".

Alla base di questi imperi non poteva essere, però, secondo Kojève, un' unità astratta, che prescindesse dalla parentela reale di cultura, di lingua, di modi di vita e di religione: gli imperi – come quelli che egli vedeva già formati davanti ai suoi occhi, l' impero anglosassone (Stati Uniti e Inghilterra) e quello sovietico dovevano essere «unità politiche transnazionali, ma formate da nazioni apparentate». Per questo, egli proponeva alla Francia di porsi alla testa di un "impero latino", che avrebbe unito economicamente e politicamente le tre grandi nazioni latine (insieme alla Francia, la Spagna e l' Italia), in accordo con la Chiesa cattolica, di cui avrebbe raccolto la tradizione e, insieme, aprendosi al mediterraneo.

La Germania protestante, egli argomentava, che sarebbe presto diventata, come di fatto è diventata, la nazione più ricca e potente in Europa, sarebbe stata attratta inesorabilmente dalla sua vocazione extraeuropea verso le forme dell' impero anglosassone. Ma la Francia e le nazioni latine sarebbero rimaste in questa prospettiva un corpo più o meno estraneo, ridotto necessariamente al ruolo periferico di un satellite.

Proprio oggi che l' Unione europea si è formata ignorando le concrete parentele culturali può essere utile e urgente riflettere alla proposta di Kojève. Ciò che egli aveva previsto si è puntualmente verificato. Un' Europa che pretende di esistere su una base esclusivamente economica, lasciando da parte le parentele reali di forma di vita, di cultura e di religione, mostra oggi tutta la sua fragilità, proprio e innanzitutto sul piano economico.

Qui la pretesa unità ha accentuato invece le differenze e ognuno può vedere a che cosa essa oggi si riduce: a imporre a una maggioranza più povera gli interessi di una minoranza più ricca, che coincidono spesso con quelli di una sola nazione, che sul piano della sua storia recente nulla suggerisce di considerare esemplare. Non solo non ha senso pretendere che un greco o un italiano vivano come un tedesco; ma quand' anche ciò fosse possibile, ciò significherebbe la perdita di quel patrimonio culturale che è fatto innanzitutto di forme di vita. E una politica che pretende di ignorare le forme di vita non solo non è destinata a durare, ma, come l' Europa mostra eloquentemente, non riesce nemmeno a costituirsi come tale.

Se non si vuole che l' Europa si disgreghi, come molti segni lasciano prevedere, è consigliabile pensare a come la costituzione europea (che, dal punto di vista del diritto pubblico, è un accordo fra stati, che, come tale, non è stato sottoposto al voto popolare e, dove loè stato, come in Francia,è stato clamorosamente rifiutato) potrebbe essere riarticolata, provando a restituire una realtà politica a qualcosa di simile a quello che Kojève chiamava l'“Impero latino”.

 

INDIA – Parigi/Nuova Delhi, il caso degli altri marò


A Bangui due indiani sono morti. Uccisi dai francesi. Ma Hollande ha saputo gestire scuse e dossier.
di Giovanna Faggionato
Ci sono incidenti simili che producono reazioni diverse.
Il 25 marzo, mentre i marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone rivolgevano dall'India un appello al parlamento italiano chiedendo di risolvere la loro “tragedia”, ad altre latitudini il destino confezionava una tragedia parallela.
LA TRAGEDIA DI BANGUI. All'aeroporto di Bangui, capitale della Repubblica centrafricana, le truppe francesi hanno ucciso per errore due cittadini indiani.
Il Paese era nel caos dal giorno precedente, domenica 24 marzo, quando i ribelli del gruppo Seleka hanno espugnato la capitale, occupando il palazzo presidenziale con la forza e trasformando la città in una terra di saccheggio.
La Francia, assieme al Ciad, tradizionale protettore della Repubblica centrafricana, ha condannato il golpe e inviato rapidamente le truppe per mettere in sicurezza l'aeroporto. Ma, nella confusione, i soldati francesi hanno sparato contro due cittadini indiani innocenti e ne hanno feriti altri sei, subito ricoverati in ospedale e assistiti da medici francesi.
I due indiani caduti sono lavoratori immigrati, impiegati in una società del posto. Indiani alla ricerca di fortuna. Presumibilmente, non tanto diversi da due pescatori intenti a guadagnarsi da vivere al largo delle coste del Kerala, uccisi nel febbraio 2012 dai fucilieri italiani perché scambiati per pirati.
GUERRA CIVILE. Il contesto dei due episodi, certo, è diverso. Nella Repubblica Centrafricana c'è una guerra civile in corso. Secondo la versione degli europei, quando la vettura su cui viaggiavano le vittime è arrivata vicino alla postazione dei soldati di Parigi, i militari hanno sparato alcuni colpi di avvertimento. Ma l'auto non si è fermata. Anzi, secondo i francesi, avrebbe proseguito la corsa «ad alta velocità».
A questo punto, l'esercito ha deciso di aprire il fuoco. Eppure, almeno finora, dal Subcontinente non si è levata la rabbia che accompagna ormai da mesi la questione dei marò italiani.
Forse perché i francesi sono stati accorti nella gestione della pratica.

Scuse immediate, inchiesta aperta e interessi protetti

Il presidente francese François Hollande ha subito chiamato il primo ministro indiano Manmohan Singh per porgere le proprie scuse e condoglianze. E gli ha anche inviato una lettera. Hollande ha dichiarato la ferma volontà di fare chiarezza sull'episodio, mentre Singh ha replicato chiedendo garanzie di sicurezza per i 100 connazionali ancora nel Paese africano.
INCHIESTA AD ALTI LIVELLI. A meno di 24 ore di distanza, il 26 marzo, mentre il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi dava le dimissioni, la Francia assicurava all'India l'apertura di un'inchiesta ad alti livelli.
Parallelamente il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, intratteneva un colloquio con il collega indiano A.K Antony per esprimergli le condoglianze e il rammarico per il fatale errore. E, sussurrano le malelingue, anche per proteggere gli accordi commerciali stretti tra i due Stati in materia di armamenti.
IL BUSINESS DEI RAFALE. A febbraio 2012, il Subcontinente ha infatti ipotecato 10 miliardi di euro per l'acquisto di 126 caccia Rafale made in France, voltando le spalle ai Typhoon fabbricati dalla britannica Bae Systems e dall'italiana Finmeccanica.
Nicolas Sarkozy riuscì insomma a far impegnare gli indiani ufficialmente.
COPIONE CHE SI RIPETE. Un anno dopo, con Hollande, il copione si è ripetuto. Mentre Finmeccanica si è vista bloccare l’acquisto di 12 elicotteri per un giro di presunte tangenti all'ex capo dell'aeronautica indiana, Parigi stringeva nuovi patti.
Il gruppo Eurocopter ha piazzato sette elicotteri Ec135 (spera di venderne fino a 50), mentre il presidente socialista ha proseguito il lavoro del suo predecessore, lavorando per chiudere l'affare Rafale.
Insomma, la Francia al pari dell'Italia con l'India si gioca miliardi di commesse. Ed è quindi cruciale per Parigi che la vicenda dei due cittadini indiani caduti sotto il fuoco amico sia gestita nel modo più delicato e cauto possibile.
LA SOBRIA REAZIONE INDIANA. Finora, la strategia sembra aver dato i suoi risultati. La reazione degli indiani è stata, infatti, assai pacata.
La notizia dei due concittadini morti non ha fatto scalpore. Su uno dei maggiori quotidiani del Subcontinente, The Hindu, qualche commentatore ha mostrato rabbia: «Dobbiamo processare le loro truppe». Ma altri hanno risposto: «Finiamola di essere così, impariamo a comportarci sul piano internazionale».
Insomma, almeno per il momento c'è stato poco spazio a strumentalizzazioni. Tra Francia e India sembrano prevalere chiarezza nelle catene di comando e rispetto reciproco. Una trasparenza che certamente è mancata nel caso dei marò. E il loro esilio forzato a Delhi ne è la conseguenza.

ITALIA - Governo/ Maroni: Ok sostegno a Bersani ma a nostre condizioni


Se accetta faremo la nostra parte

Milano, 27 mar. - Un appoggio a un governo Bersani "è possibile, non so quanto probabile ma è possibile a certe condizioni che lui conosce". Così il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, al termine della prima seduta del Consiglio regionale ha commentato l'ipotesi di un sostegno Pdl-Lega a un esecutivo guidato da Pier Luigi Bersani.

"Se decide di accettare le nostre condizioni, noi faremo la nostra parte. Altrimenti andrà al Quirinale dicendo che non ha la maggioranza e succederà quel che deve succedere", ha aggiunto Maroni. Il governatore ha poi ricordato di aver presentato già ieri al leader del Pd le richieste i Lega e Pdl che "mi paiono molto ragionevoli: cioè che nasca un governo, non poniamo condizioni né sulla guida Bersani né sulla composizione purché ci sia un programma condivisibile e una rappresentanza nelle istituzioni che non sia monocolore", aggiungendo che "questo è un tema che sta molto a cuore al Pdl: il presidente della Repubblica".

"Bersani - ha concluso Maroni - non ha detto no, si è preso 48 ore di tempo e vediamo se in queste 48 ore la saggezza consentirà di concludere".

TURCHIA - Da città sudest via targa su felicità di essere turchi


In area a maggioranza curda, cancellata celebre frase di Ataturk

Istanbul, 27 mar.  - A Batman, nel sud-est della Turchia, non sono più felici di essere turchi. Una targa che recava la celebre frase di Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della repubblica turca, "Felice chi può dire di essere turco" è stato infatti rimossa dal monumento con la statua dello statista nella piazza centrale della città, che sorge in un'area a maggioranza curda. La frase è presente su tutti i monumenti dedicati alla Repubblica nelle città della Mezzaluna. Al suo posto è stata messa una targa che reca un'altra massima di Ataurk: "pace nel Paese, pace nel mondo".

Chi abbia deciso la rimozione non è dato di saperlo: il sindaco sostiene che la competenza è del prefetto, il quale invece afferma che la responsabilità e del sindaco. Di fatto però la vicenda avviene in un momento particolare, a pochi giorni dalla richiesta del capo dei ribelli curdi Abdullah Ocalan ai suoi uomini di deporre le armi, nell'ambito di una trattativa con il governo che dovrebbe portare alla fine delle ostilità in cambio di un riconoscimento costituzionale della minoranza curda. La Costituzione turca, fedele ai principi di Ataturk, recita oggi che chiunque abbia cittadinanza turca, è un turco.

ITALIA – Grillo l’urlatore sboccato: Bersani e gli altri "padri puttanieri" vi manderemo a casa


Per il comico urlatore e leader padrone del M5S. "Pdl e pdmenoelle sono vent'anni che ci prendono per il culo"

Roma, 27 mar. - "Padri puttanieri". Così Beppe Grillo definisce "i Bersani, i D'Alema, i Berlusconi, i Cicchitto, i Monti che ci prendono allegramente per il culo ogni giorno con i loro appelli quotidiani per la governabilità".

Nell'ultimo post pubblicato sul suo blog dal titolo i figli di NN, il leader del Movimento 5 Stelle scrive: "Hanno governato a turno per vent'anni, hanno curato i loro interessi, smembrato il tessuto industriale, tagliato lo Stato sociale, distrutto l'innovazione e la ricerca. Pdl e pdmenoelle sono vent'anni che ci prendono per il culo e non hanno ancora il pudore di togliersi in modo spontaneo dai coglioni dopo Penati, Tedesco, Dell'Utri, Cuffaro, Monte Paschi di Siena, dopo il Lodo Alfano, lo Scudo Fiscale e cento leggi abominio".

"Vent'anni - insiste - senza riuscire a produrre una legge contro la corruzione e contro il conflitto di interessi, vent'anni per trasformare la legge elettorale in una caricatura anticostituzionale, senza mai trovare il tempo (ah, il tempo...) per cambiarla. I figli di NN vi manderanno a casa, in un modo o nell'altro, il tempo è dalla loro parte. Hanno ricevuto da voi solo promesse e sberleffi, non hanno nulla da perdere, non hanno un lavoro, né una casa, non avranno mai una pensione e non possono neppure immaginare di farsi una famiglia. Vi restituiranno tutto con gli interessi".

RUSSIA - Doku Umarov è il solo avversario di Vladimir Putin


Con il suicidio di Berezovsky, lo zar perde il suo principale nemico. E ora l'unico da temere è l'emiro del Caucaso.

di Stefano Grazioli

Mercoledì, 27 Marzo 2013 - Per la morte di Boris Berezovsky, avvenuta pare per impiccagione, Vladimir Putin non ha versato certamente una lacrima. Anche se era stato proprio il miliardario, già membro permanente della corte di Boris Eltsin, ad aiutare l’approdo dell’allora sconosciuto ex agente segreto nelle stanze del Cremlino.
GIOCO DI RUOLI. Tra Putin e Berezovsky, il buon sangue è corso per breve tempo. Poi, il rapporto si è trasformato in un gioco di ruoli che ha fatto la fortuna di entrambi. L’oligarca suicida, buttato fuori a calci dal cerchio magico moscovita, dal suo esilio dorato di Londra, è stato infatti per oltre 10 anni l’alfiere della più dura crociata antiputiniana, il nemico pubblico numero uno dello zar.
Berezovsky è riuscito così a darsi una bella ripulita all’immagine, passando da ingordo oligarca dal passato non proprio limpido al ruolo ben più accettato di dissidente, con ragioni da vendere persino a Sua Maestà.
Per contro, Putin ha trovato il capro espiatorio per quasi ogni nefandezza di casa propria, ben sapendo che i russi, conoscendo la carriera poco edificante dell’esule miliardario, non avrebbero dato credito alle accuse. E ora che il Cremlino è improvvisamente senza il suo peggior nemico (mediatico, più che concreto) dovrà trovarsene un altro.
LISTA DI CANDIDATI. La lista dei candidati, fittizi o reali, è discretamente lunga e spazia da Mosca a Washington, dalla Gran Bretagna al Caucaso. I corridoi del potere sono tutto sommato sicuri per Putin, che non deve aspettarsi pugnalate alle spalle: persino il delfino Dmitri Medvedev, che molti analisti occidentali avevano investito del ruolo di ribelle, si è sempre dimostrato un fedele esecutore degli ordini del superiore.
Alla Duma, il parlamento, l’opposizione al partito del capo dello Stato, Russia Unita, è all’acqua di rose: nemmeno l’eterno leader comunista Gennady Zyuganov può essere annoverato tra le spine nel fianco, presenti e future, per Vladimir Vladimirovich.
Fuori dal parlamento le cose cambiano un po’, ma gli avversari di Putin non brillano di luce propria e all’orizzonte nessuno sembra poter e voler prendere il posto di Berezovsky. I nomi della vecchia guardia, da Mikhail Kasyanov a Boris Nemtsov, sono ormai usurati: in 10 anni non sono riusciti a costruire un partito credibile, e sono talmente innocui che non sono stati nemmeno obbligati a prendere la strada dell’estero sulle orme di altri colleghi magari dal portafoglio più gonfio.

Umarov, il solo avversario che potrebbe creare qualche grattacapo allo zar


Mikhail Prokhorov, l’oligarca che ben si muove all’estero e che lo scorso anno è sceso addirittura in piazza e ha corso per le presidenziali, non sembra intenzionato a entrare davvero in rotta di collisione con il Cremlino. La sua è comunque una faccia nuova, come quella di Alexei Navalny, il blogger re delle proteste tra il 2011 e il 2012 che è molto legato al miliardario Alexander Lebedev.
Quest’ultimo è potenzialmente la figura più simile a Berezovsky: prima alleato del potere, ora inviso e già sulla strada di un esilio verso Londongrad, la Londra tanto amata dai transfughi russi di ogni genere. Proprietario del quotidiano britannico Independent, Lebedev avrebbe come ideale alleato un signore inglese che negli ultimi tempi ha dedicato tempo e danaro per colpire il Cremlino da lontano, William Browder.
Quest'ultimo, al vertice del fondo di investimenti britannico Hermitage capital management, ha fatto del caso Magnitsky (dal nome dell’avvocato morto in una prigione moscovita, al servizio proprio del fondo inglese) una questione internazionale, che ha dato più di qualche grattacapo a Mosca. Per esempio, contribuendo a stilare la lista di funzionari russi legati alla morte sospetta, emanata dal Congresso americano, ai quali è vietato recarsi negli Usa.
IL NEMICO USA. A Washington ormai da anni è il senatore repubblicano John McCain a cercare un nuovo clima da Guerra Fredda, conducendo una personale battaglia contro la Russia.
Ma anche McCain e la sua anacronistica lotta fa meno paura a Putin di quanta non ne suscitasse Berezovsky in depressione.
Resta, nel quadro, un solo vero avversario (vecchio e nuovo) dello zar, che nel prossimo futuro potrebbe creargli davvero qualche grattacapo: Doku Umarov, leader della guerriglia indipendentista caucasica legata ad Al Qaeda.
L'EMIRO DEL CAUCASO. Autoproclamatosi emiro del califfato del Caucaso nel 2007 Umarov, che è il coordinatore delle azioni terroristiche nelle repubbliche della regione, ha rivendicato i più recenti attentati di Mosca (una quarantina di morti nella capitale russa nel 2011) e promesso fuoco e fiamme anche in vista delle prossime Olimpiadi del 2014 che si terranno a Soci.
Se il Berezovsky degli ultimi tempi faceva il solletico a Putin, e lo scorso anno aveva chiesto pure scusa ai russi per la sua avidità, Doku Umarov è invece il nemico pubblico numero uno. Reale.

ITALIA - Bersani, incontra il M5s per cercare la fiducia. Roberta Lombardi contestata dai grillini


Il leader Pd ai grillini: «Non impediteci di governare». I capigruppo: «Nessun appoggio».

Mercoledì, 27 Marzo 2013 - Per Pier Luigi Bersani è arrivato il giorno più duro. Il segretario del Partito democratico ha incontrato i rappresentanti del Movimento 5 stelle, nel tentativo di convincere i gruppi alla Camera e al Senato a votare la fiducia al suo governo.
Una missione impossibile che, come era largamente previsto, è fallita. Già il 26 marzo i grillini hanno deciso in una riunione privata di confermare la linea indicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, fortemente contrari ad alleanze con qualsiasi forza politica.
Bersani ha chiesto ai grillini di non impedire la formazione del governo, ma da loro ha ottenuto una sola certezza: no alla fiducia. L'unica opzione per loro è la formazione di un governo 5 stelle.
E a chi chiedeva se potesse esserci un appoggio esterno, Roberta Lombardi, capogruppo alla Camera, ha detto: «Se appoggio esterno significa votare la fiducia senza entrare nel governo la risposta è no».
Lombardi, nell'incontro con Bersani, ha anche detto: «Sento le stesse promese da 20 anni, sembra di stare a Ballarò».
Una frase che ha infastidito Bersani che ha replicato: «Non è Ballarò, il governo è una cosa seria».

10.43 - «NON USCIREMO DALL'AULA». «Escludiamo l'ipotesi di uscire dall'aula del Senato». Così Vito Crimi, capogruppo a Palazzo Madama del M5s, ha risposto a chi chiedeva se il gruppo potesse lasciare i propri posti durante il voto di fiducia.

10.32 BERSANI: «O SI VA A MESSA O SI STA A CASA». «Stavolta o si va a messa o si sta a casa». Così Pier Luigi Bersani ha replicato ai capigruppo del M5s. «Mi creda», ha detto rivolto a Crimi, «piacerebbe anche a me dire questo lo prendo, quest'altro no».

10.30 - BERSANI: «NON SIAMO A BALLARÒ». «Purtroppo non siamo a Ballarò; il governo è una roba seria», ha detto Pier Luigi Bersani rispondendo agli esponenti di M5s che avevano rilanciato la richiesta di un governo guidato dal loro Movimento.

10.24 - «GLI ELETTORI CI DICONO DI NO». «Nonostante quello che si dice sul nostro dibattito, il messaggio che riceviamo unanime da nostri elettori non è quello della 'responsabilità', ma di non dare fiducia in bianco». Così il capogruppo M5S Vito Crimi a Pier Luigi Bersani.

10.23 - «NOI VOGLIAMO GOVERNARE». «Lei diceva che solo un insano di mente può avere la fregola di voler governare il Paese; ebbene, noi siamo quegli insani di mente perché abbiamo un progetto per il Paese. Noi siamo disposti a prenderci la responsbilità, a riprenderci la sovranità, a riprenderci il nostro Paese», ha detto Roberta Lombardi, rispondendo a Bersani.

10.20 - «SEMBRA BALLARÒ». «Sono 20 anni che sentiamo queste parole. Mentre parlava mi sembrava di sentire una puntata di Ballarò. Sono 20 anni che voto e che sento parlare delle stesse cose e non vengono mai realizzate». Così Roberta Lombardi, capogruppo alla Camera del M5S, ha replicato al programma esposto da Pier Luigi Bersani alla sua delegazione.

10.17 - «SOLO UN INSANO DI MENTE VORREBBE GOVERNARE». «Solo un insano di mente potrebbe avere la fregola di governare in questo momento. Sia chiaro: io sono pronto a prendermi una responsabilità enorme. Chiedo a ciascuno di prendersene un pezzettino». Così Pier Luigi Bersani alla delegazione M5S.

10.15 - «NON IMPEDITE IL GOVERNO». «A chi è più vicino chiedo responsabilità. Alle forze che vogliono avere più autonomia chiedo di non impedire questo percorso». Lo ha detto Pier Luigi Bersani durante l'incontro con M5s.

10.14 - «NON SOLO I FINANZIAMENTI AI PARTITI». Il Pd propone una «legge sui partiti che riveda sì il finanziamento pubblico, ma non solo quello», ha detto Pier Luigi Bersani alla delegazione M5s.
«C'è da dare un governo a questo Paese. Questa è un'esigenza conclamata. Il presidente della Repubblica ha fatto la sua parte in modo correttissimo sul profilo costituzionale e ha detto di provare a formare il governo senza dimenticare il quadro delle difficoltà, che si concretizzano in termini numerici».

10.13 - «NIENTE GOVERNISSIMO». «C'è un'aspettativa di governassimo, ma io dico 'non esiste'». Lo ha detto Bersani al M5S. Un no «non per preclusione verso la destra, che la pensa diversamente da me ma è in tutta Europa, ma perché metteremmo un coperchio politicista su una pentola che chiede cambiamento: finiremmo per bloccarci reciprocamente. Questo non si farà».

10.08 - «SERVE UN CAMBIAMENTO». «Parto dal presupposto: governo sì, governabilità ok, ma senza cambiamento non ci può essere governo. Voi di questo cambiamento siete protagonisti, ma non siete esclusivi protagonisti.La mia forza sente questa esigenza. Io non farò governi che abbiano davanti l'impossibilità di cambiamento». Così Bersani parlando al M5S.

Movimento 5 stelle: Lombardi contestata

Le accuse dei colleghi alla capogruppo: «Impreparata» e «incapace di lavorare in squadra».

Ancora bufera sulla capogruppo grillina alla Camera Roberta Lombardi reduce insieme con il collega Vito Crimi dall’incontro con Pier Luigi Bersani.

Mercoledì, 27 Marzo 2013 - Lombardi è stata infatti contestata dai suoi durante la riunione a Montecitorio. A scatenare la rivolta, secondo la ricostruzione di Repubblica, sarebbe stata la decisione della capogruppo di presentarsi con un intervento da «maestrina». La rappresentante dei deputati, infatti, non ha parlato per nulla dei temi discussi e concordati in Rete preferendo un discorso scritto presumibilmente dal suo staff.
LA RIUNIONE DEI CONTESTATORI. Uno sgarro che i grillini infuriati non le hanno perdonato, indicendo una riunione urgente dopo l'assemblea. Fino alle 10 e mezza di sera le acque non si sono calmate.
«Dovevamo parlare di Cipro, della crisi economica», ha sbottato un 'cittadino' pentastellato, «e lei si è presentata con una brutta di tesi di laurea. Scritta forse dai suoi aiutanti. E noi dovremmo fidarci di qualcuno che nemmeno conosciamo?».
L'interessata dal canto suo ha cercato di difendersi dicendo che non le era chiaro che «dovesse cambiare tutto il suo discorso». Aggiungendo che con tutto il lavoro da fare, limare l'intervento non rappresentava certo una «priorità».
DAL SENATO ACCUSE DI INCOMPETENZA. Uno smacco per Lombardi, soprattutto dopo il successo ottenuto dal grillino Alessandro Di Battista che in Aula ha incassato persino i complimenti della presidente Laura Boldrini. Per la capogruppo le cose sono andate diversamente, tanto che c'è chi addirittura ha chiesto le sue dimissioni, come Adriano Zaccagnini. L'accusa è pesante. Non sa lavorare in gruppo Né gestire le persone.
Come se non bastasse, anche da Palazzo Madama è partito il fuoco amico. Secondo i senatori Lombardi non sarebbe abbastanza preparata. A dimostrarlo il suo intervento circa i debiti della pubblica amministrazione definiti senza mezzi termini una «porcata di fine legislatura». Una leggerezza che neppure la Rete le ha perdonato.