Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


mercoledì 29 febbraio 2012

ITALIA: Scontro Vendola-Veltroni, leader Sel non si scusa e rilancia

Polemica investe anche Prodi: Non mi strumentalizzate


Roma, 29 feb. - Scontro Vendola-Veltroni parte seconda. Oggi è toccato al leader di Sel dire la sua e soprattutto senza scusarsi come ieri gli aveva chiesto l'ex sindaco di Roma offeso dall'accusa di essere "di destra".

Nella conferenza stampa convocata 'a sorpresa' a Montecitorio Veltroni aveva respinto al mittente le accuse e rivendicato la sua profonda identità di sinistra, auspicando qualche forma di scusa da parte del suo 'detrattore' ma il governatore pugliese oggi ha piuttosto rilanciato il suo punto di vista, ossia la critica sul tema del lavoro e dell'articolo 18 e poi liquidato così la vicenda: "Non ho interesse a occuparmi di Veltroni, non sono il suo biografo". Non solo Vendola ha chiamato in causa perfino l'ex premier Romano Prodi: "Non mi sento a mio agio quando leggo le cose che dice Veltroni, che Prodi ha definito agghiaccianti", ha detto riferendosi al commento che il professore avrebbe fatto dell'intervista di Veltroni. Quella sulla riforma del mercato del lavoro e sull'articolo 18 che ha dato il via alle polemiche intestine. Lo "scivolone" è stato immediatamente utilizzato dai veltroniani per replicare che quell'equivoco era già stato chiarito. "Il riferimento che aveva dato luogo all'equivoco - ha puntualizzato Walter Verini - riguardava la caduta del governo Prodi nel 1998, dovuta al voto di Vendola e del suo partito. Che egli tenti di strumentalizzare la figura di Romano Prodi è la conferma della sua malafede".

Per dire del clima che si respira nel centrosinistra, anche al professore questa 'tirata' per la giaccia non deve essere piaciuta perciò ha fatto diramare una nota dell'ufficio stampa: "Non è corretto che Nichi Vendola usi strumentalmente parole del presidente Prodi per attaccare Walter Veltroni. Non solo perché non è giusto tirare in ballo il presidente in una polemica politica che lo vede estraneo, ma soprattutto perché, come è noto, l'espressione 'agghiacciante' era frutto di un equivoco già ampiamente chiarito con lo stesso Veltroni nei giorni scorsi".

Il botta e risposta tra i due leader del centrosinistra celerebbe in realtà un certo fastidio che le posizioni espresse da alcuni esponenti del Pd hanno provocato tra i veltroniani. Ieri alcuni segnalavano infatti oltre all'insulto vendoliano l'intervista di qualche giorno fa del governatore toscano Enrico Rossi, secondo il quale il partito deve collocarsi più nettamente a sinistra anche se questo comportasse la scissione di "qualche blairiano". "Non so dire se Veltroni sia più a destra o più a sinistra. Di sicuro è più conservatore di me", ha detto Matteo Orfini, della segreteria del Pd, che ha invitato però a "non drammatizzare una discussione di linea politica che coinvolge tutti i partiti europei e che è di merito. Non condivido le parole di Rossi, non credo che chi non è d'accordo con la maggioranza se ne debba andare, c'è posto e c'è bisogno di tutti".

Ue-Bielorussia: L’escalation diplomatica di Lukashenko

"La guerra di Lukashenko", titola Gazeta Wyborcza dopo che le autorità bielorusse hanno ordinato agli ambasciatori di Polonia e Ue di lasciare Minsk, in risposta alle sanzioni imposte al paese da Bruxelles.

Nelle prossime ore ci si attende che altri ambasciatori degli stati Ue decidano di abbandonare la capitale bielorussa in segno di solidarietà.

Secondo il quotidiano di Varsavia accanendosi sugli ambasciatori Alexander Lukashenko sta cercando di paralizzare i servizi diplomatici di paesi fin troppo generosi nel concedere i visti ai cittadini bielorussi.

Rzeczpospolita ribadisce che "anche se Lukashenko ha definito la Polonia 'il nemico numero uno' ed è necessaria una ritorsione diplomatica", è consigliabile un approccio moderato:
non sappiamo se tra un anno o sei mesi Lukashenko chiederà ancora all'Ue fondi e assistenza. Se accadrà, non dobbiamo rinunciare alla richiesta di liberazione dei prigionieri politici, ma non bisogna esagerare chiedendo una completa democratizzazione del paese

Francia: Informazione e potere, un legame perverso

"La trasparenza, fino a che punto?", si chiede Libération, mentre la pubblicazione di "Sesso, bugie e media" – il libro del corrispondente da Bruxelles Jean Quatremer sulla vicenda di Dominique Strauss-Kahn – rilancia il dibattito sulll'atteggiamento dei media davanti alla vita privata dei politici.  

Dalla malattia e la doppia vita di François Mitterrand alla vicenda Dsk, il quotidiano ricorda i grandi casi di omertà della stampa. "Le bugie, il rifiuto di indagare, il gusto per la connivenza con i potenti":

Quatremer passa in rassegna le cattive abitudini dei giornali francesi. Nel 2007, quando Dsk era stato nominato alla guida dell'Fmi, il giornalista scriveva: "L'unico vero problema di Strauss-Kahn è il suo rapporto con le donne. Troppo pressante, assillante. Un difetto che i media conoscono benissimo, ma di cui non parlano (siamo in Francia)". Le parole di Quatremer sono passate inosservate fino a quando l'uomo che secondo i sondaggi sarebbe stato il candidato socialista alle presidenziali del 2012 non è stato arrestato a New York e accusato di tentato stupro.  

"Esiste un 'prima' e un 'dopo' Dsk", scrive il quotidiano:
Oggi guardiamo con occhi nuovi l'atteggiamento troppo timoroso dei nostri media. I giornalisti sono amici dei politici. Secondo un giornalista americano 'restare lontano dal potere' è il primo comandamento del mestiere. In Francia con il potere si va a cena, si va in vacanza, si ha una tresca, si frequentano le stesse scuole. Non abbiamo una tradizione d'inchiesta nel mondo privato della politica […] Le conseguenze pubbliche della vita privata del presidente restano nell'ombra. Perché preferiamo  commentare piuttosto che pubblicare l'informazione nuda e cruda. Perché manca l'indipendenza della televisione pubblica. Ricordiamo che il presidente della repubblica nomina i direttori delle emittenti e sceglie i giornalisti che avranno il privilegio di intervistare il monarca. 

Germania: Merkel non può aggirare il parlamento


"Più poteri al Bundestag nel salvataggio dell'euro", titola la Süddeutsche Zeitung all'indomani di quella che appare come una nuova sconfitta per la cancelliera Angela Merkel. La Corte costituzionale ha decretato che il governo non potrà aggirare il parlamento ricorrendo al gruppo di nove deputati formato per affrontare le questioni urgenti sul salvataggio dell'euro senza un dibattito pubblico. I giudici di Karlsruhe hanno sottolineato che in questo caso verrebbe violato il diritto degli altri 600 parlamentari.   La stampa tedesca celebra il verdetto come una vittoria della democrazia. Il quotidiano di Monaco commenta che  la cancelliera e il suo ministro delle finanze hanno provato a limitare i poteri del parlamento. Per approvare la spesa di diversi miliardi di euro sarebbe bastato il consenso di nove uomini di fiducia. Il tribunale supremo non doveva né poteva accettarlo

Eurozona: Nei panni di un greco

Come sarebbe la vita di un tedesco medio se la Germania dovesse accettare le stesse misure di austerity che ha imposto alla Grecia? Una proiezione aiuta a capire gli effetti disastrosi del rigore.
Marie Amrhein 29 febbraio 2012 Cicero Berlino

Facciamo finta che si chiami Erich Hansen: è un educatore e lavora nel settore  pubblico, in una cittadina dell’Assia (nel cuore della Germania). Con i giovani che accoglie nella sua struttura effettua regolarmente trasferte a Marburgo – non molto lontano – per giocare a bowling.
In futuro, però, Erich dovrà chiedersi se non sarebbe meglio portare i ragazzi a passeggiare nei boschi, dato che il biglietto di ingresso al bowling potrebbe diventare troppo caro ed egli deve stringere la cinghia. Come il resto della Repubblica federale.
Per comprendere come sarebbe la Germania se fosse sottoposta al rigido piano di austerity da essa imposto alla Grecia, basiamoci sull’ipotesi formulata dalla fondazione Hans Böckler con la collaborazione dell’Istituto di macroeconomia e ricerche congiunturali (Imk).
Tanto per cominciare lo stipendio mensile di Erich passerebbe da 3.250 euro a 2.760. Al lo stesso tempo le sue trattenute previdenziali e per malattia aumenterebbero in un anno di 530 euro, mentre l’iva passerebbe dal 19 al 22 per cento. Il nostro educatore, che dopo il lavoro non disdegna una birretta fresca e una sigaretta, dovrebbe aspettarsi anche un aumento del 33 per cento delle imposte su alcol, carburante e sigarette.
L’atmosfera è molto tesa tra i colleghi di Erich: il governo ha annunciato un taglio di 460mila posti di lavoro nel settore pubblico. I pensionati, invece, dovranno fare i conti con una riduzione di mille euro delle loro entrate annuali. Una prospettiva inquietante, se si pensa alle manifestazioni scatenate in passato in tutta la Germania dal congelamento degli stipendi.
Il motivo per cui Erich e i suoi colleghi devono tirare la cinghia è che se si applicassero da quelle parti i requisiti imposti alla Grecia, la Repubblica federale dovrebbe riuscire a risparmiare oltre 500 miliardi di euro in cinque anni. Il calcolo è stato fatto da Henner Will dell’Imk, secondo cui la troïka Ue-Bce-Fmi ha sottovalutato le ripercussioni dell'austerity.
Le previsioni ufficiali parlavano di una riduzione del 2,6 per cento del pil greco nel 2011. Invece è stata del 5 per cento, e il bello deve ancora venire.
Le cifre sono spaventose e inequivocabili: l’austerity porterà i greci alla rovina. Più il coro sulla questione greca si arricchisce di nuove voci, più tutto ciò che riguarda il futuro dell’euro, della Grecia e di conseguenza dell’Europa diventa una questione di semplice speranza. Come andrà a finire? Nessuno lo sa.
Basterebbe osservare da vicino la Grecia per capire che la disfatta è completa. La Grecia sta diventando un paese del Terzo mondo, qualcosa che in Germania è ancora soltanto una vaga minaccia.
Nel frattempo, Erich Hansen ha perduto il suo posto di lavoro. Ha dovuto firmare i moduli dei sussidi di disoccupazione e lo stato adesso gli preleva 600 euro l’anno. Così anche Erich contribuisce a salvare l’euro. (Traduzione di Anna Bissanti )

IRLANDA: Di nuovo appesi a un referendum

Il 28 febbraio il governo irlandese ha annunciato la consultazione popolare sul trattato fiscale. Malgrado il clima di grave recessione, elevata disoccupazione e crescente risentimento verso Bruxelles, per la stampa irlandese non c'è alternativa al sì.
L’Irlanda sta per diventare il primo e per ora unico paese della zona euro a dare un verdetto democratico sul trattato fiscale europeo. Approvato nel gennaio scorso su pressione della Germania, il trattato prevede l'introduzione della regola del pareggio di bilancio nelle legislazioni nazionali e concede alla Corte di giustizia europea il diritto di imporre sanzioni agli stati che violassero tale intesa, e sarà firmato a Bruxelles dai rappresentanti di 25 stati dell’Ue venerdì 2 marzo (il Regno Unito e la Repubblica Ceca si asterranno).
In seguito al parere del procuratore generale irlandese, secondo il quale occorre un referendum sulle dieci pagine del testo, il primo ministro Enda Kenny ha annunciato al parlamento che “sarà chiesta al popolo irlandese l’autorizzazione a procedere”
Sono profondamente convinto che sia nell’interesse nazionale dell’Irlanda approvare questo trattato, perché così potrà proseguire quel progresso ininterrotto iniziato l’anno scorso.
Ricordando che l’Irlanda ha bocciato il trattato di Nizza nel 2001 e quello di Lisbona nel 2008, l’ Irish Times sostiene che nei referendum “la popolazione è abituata a rispondere no alla domanda che si trova davanti”, ma in ogni caso loda il premier per la sua “entusiastica convinzione che il popolo farà la cosa giusta”. Secondo il quotidiano filoeuropeo un rifiuto delineerebbe uno scenario spaventoso per questo paese. Dato che il trattato non prevede che tutti gli stati partecipanti lo ratifichino prima di diventare operativo, un ‘no’ dell’Irlanda lascerebbe il paese indietro rispetto alla  zona euro, che andrebbe avanti con una maggiore integrazione. L’Irlanda resterebbe un membro formale dell’Ue, ma si collocherebbe fuori dal nucleo centrale che di fatto è già diventato l’avanguardia dell’Ue. Cosa ancor più importante, il ‘no’ priverebbe il nostro paese dell'accessi ai meccanismi di salvataggio e finanziamento, uno scudo di vitale importanza per la nostra posizione sui mercati e la nostra ripresa. 
Per l’Irish Examiner tutti devono capire "le conseguenze del proprio per noi e per i nostri figli
Chi si oppone al referendum, invece di limitarsi a dire ‘no’ perché legittimamente arrabbiato a causa delle molte, spiacevoli e ingiuste conseguenze della perdita dell’indipendenza economica, deve offrire un’alternativa praticabile per finanziare il nostro stato in bancarotta. Il referendum comporta di scegliere tra due assoluti: saremo dentro o fuori. È difficile immaginare che i nostri colleghi europei – assediati su più fronti – vogliano sollevare obiezioni e predisporre soluzioni speciali per un unico piccolo stato così fortemente dipendente dai finanziamenti dell’Ue, a prescindere dalle misure draconiane che quei prestiti comportano.
Prevedendo che il governo sosterrà che un ‘no’ porterà ‘conseguenze terribili’, l’Irish Independent osserva che è una magra consolazione che la faccenda sia più semplice da comprendere rispetto alle implicazioni dei trattati di Maastrich e di Lisbona. In modo disonesto, i governi di allora affermarono che quei trattati non avevano grande importanza. La sensazione che qualcuno avesse gettato fumo negli occhi degli elettori deve aver contribuito alla loro sconfitta. Per comprendere il trattato fiscale basta poco. E ci si può fare una chiara idea di quello che potrebbe accadere se fosse respinto. […] L’ultimo grande paradosso è che in esso non c'è molto che non sia stato introdotto nella legge irlandese dopo l'aggiustamento delle regole dell'eurozona del 2011, a parte le modifiche costituzionali.

GERMANIA: Il referendum irlandese irrita Berlino


In Germania, il paese che più di tutti è chiamato a contribuire alla soluzione della crisi del debito, il progetto di referendum in Irlanda suscita numerosi commenti. "Ancora gli irlandesi", titola Der Spiegel immaginando la reazione di Berlino, dove Angela Merkel teme le conseguenze del voto irlandese sulle decisioni di Bruxelles.
La nuova architettura dell'euro è minacciata da una malformazione congenita: è possibile che alla fine soltanto 16 stati aderiscano al piano d'austerity della Germania.  
Secondo la Süddeutsche Zeitung, Berlino avrebbe preferito evitare una consultazione popolare in Irlanda sull'Europa,
ma stavolta il risultato avrà un impatto maggiore sull'Irlanda che sull'eurozona […]. È nell'interesse degli irlandesi accettare il patto [fiscale]. Se non lo faranno, non potremo aiutarli.
Per questo più che la regola aurea è in gioco l'identità degli irlandesi, commenta Die Zeit:
Secondo Eurobarometro gli irlandesi sono i più eurofili dell'Unione. Tuttavia l'amore per l'Ue impallidisce davanti all'astio verso il Regno Unito: più di ogni altra cosa gli irlandesi voglio affermare la loro diversità rispetto ai britannici. Il paese dovrà convivere con una decisione che segnerà l'identità di un'intera generazione. Gli irlandesi devono decidere se essere completamente europei e rinunciare alla loro peculiarità o restare sospesi, metà dentro e metà fuori come i loro vicini del Regno Unito, assimilandosi ulteriormente a inglesi, scozzesi e gallesi. 

PSI: Marco Riva Cambrino nuovo commissario PSI chivassese

E’ Marco Riva Cambrino il nuovo commissario politico del PSI per la zona del chivassese. La sua nomina è avvenuta nell’ambito dell’ultimo incontro del direttivo provinciale  del PSI che è stato ospitato presso la sezione PSI di Settimo Torinese e ha visto una nutrita partecipazione da parte degli esponenti del partito.

Al tavolo della presidenza, Sen. Eugenio Bozzello e l’On. Enrico Buemi, rispettivamente presidente e commissario provinciale del PSI, Sergio Ricca (ex assessore regionale e attualmente Sindaco di Bollengo).

Obiettivo dell’assise è stato, si, quello di definire parte della nuova riorganizzazione territoriale e dei suoi organici, ma anche quello di stabilire le “priorità del partito” ed i punti e le criticità su cui ha intenzione di concentrarsi , limitatamente all’eporediese, canavese,settimese e il chivassese, zona da cui è organizzativamente assente da circa due lustri.

Esaustiva, su quest’ultimo  punto, la relazione presentata proprio dal commissario fresco di nomina Marco Riva Cambrino, che ha delineato in apertura dei lavori i cinque punti salienti su cui “rendersi operativi”.

I cinque punti proposti all’assemblea del PSI. Si parte da Welfare, famiglia e Politiche sociali, cogliendo le necessità del territorio, tenendo conto soprattutto della situazione degli anziani e prevedendo la realizzazione di un programma.

Il secondo, a detta di Riva Cambrino “imprescindibile” punto, riguarda poi l’ambiente e il territorio, dato che, attualmente, il chivassese ha nella città capofila una situazione di grave compromissione del territorio tra l’urbanizzazione selvaggia, la più grossa discarica della provincia con gran parte dello stesso territorio utilizzato per servizi e la mancanza di un serio nuovo studio idrogeologico “la città sta correndo il rischio di non poter più offrire un’immagine decorosa di sé”, va da sé che per tutto il territorio del chivassese è ineludibile il massimo dello sforzo verso tutto ciò che concerne lo sviluppo sostenibile.

Ancora, il lavoro, che riassunto  vuol dire per il PSI  la valorizzazione delle nostre risorse umane, culturali, ambientali in termini energetici, produttivi e sociali per un progetto che nei prossimi anni di TRANSIZIONE sia al centro delle risposte che i territori dovranno dare ai propri cittadini.

Quarto e quinto punto, la cultura ed il tempo libero. Cultura è per il PSI il patrimonio di tutti gli elementi che costituiscono la memoria storica del nostro territorio e la nostra identità attuale. Per sostenere il “farsi della cultura” bisogna raccogliere gli stimoli dal basso, valorizzando, sostenendo e sviluppando tutte le energie che già si esprimono nella comunità. Vediamo come priorità censire queste risorse e metter mano ad un progetto condiviso di creazione di un polo culturale laico fisico e virtuale che sia occasione di incontro, confronto e socialità dei cittadini.

L’intervento conclusivo, è stato affidato al commissario provinciale on. Enrico Buemi, per il quale  “E’ prioritario riattivare ogni possibile occasione di partecipazione alle scelte importanti per la comunità creando le condizioni per esercitare la competenza di ciascun cittadino, perseguendo Il modello tradizionale del partito di iscritti a cui noi del Psi rimaniamo tenacemente legati, in quanto rimane l'unico democratico e credibile, contro i partiti virtuali o aziendalizzati. Entro il mese di marzo, inoltre, sarà aperta una nuova fase programmatica in cui – ha concluso – verranno ulteriormente definite le priorità del partito”.

martedì 28 febbraio 2012

NO TAV: Abbassare i toni, sta diventando una guerra civile

Cantore (Pdl): Ragazzo caduto per un gesto disperato.

La tav è l’argomento che in questi giorni sta riempiendo le pagine di cronaca, soprattutto per l’attesa che si è creata attorno alle sorti del leader No Tav Luca Abbà, 37 anni, precipitato da un traliccio dell’alta tensione sul quale era salito per urlare le ragioni della protesta. Dal punto di vista delle parti, la situazione è, apparentemente, molto semplice: i comitati non vogliono che si costruisca una linea ferroviaria ad alta velocità nella Val di Susa, in gioco le bellezze del paesaggio e l’intero ecosistema ambientale. Il mondo politico, a parte la sinistra estrema, è per ultimare la tratta Torino-Lione (anche l’ex premier Romano Prodi, da leader del centrosinistra, era d’accordo). I motivi, anche qui, sono semplici: l’Italia ha bisogno di un collegamento veloce con il resto d’Europa e questo è l’unico modo per permettere scambi commerciali più frequenti e rapidi. A tal proposito abbiamo ascoltato Daniele Cantore, dal 2010 nel Consiglio della regione Piemonte, già in commissione “Ambiente”.
Partiamo dal tragico evento di ieri, salire su un traliccio è un gesto da cretini, come titolano oggi i giornali di destra o è giustificabile nell’ambito della protesta?
Un gesto sicuramente esasperato quello del sostenitore No tav, ma anche un gesto molto pericoloso. Lo sappiamo, salire sul traliccio è un rischio, ma proprio perché gesto estremo, viene ad essere dettato da uno stato d’animo disperato. Poi è avvenuto ciò che non doveva avvenire e mi auguro che questo ragazzo in coma, riesca a riprendersi.
E’ stata affrontata male la situazione dalla polizia?
La polizia ha fatto il proprio dovere. Bisogna immedesimarsi nelle Forze dell’ordine, se vengono provocate, tendono a reagire, ma non sono state effettuate violenze nonostante tutto. Io penso che ci sia diritto di esprimere la propria posizione, si può essere dubbiosi su alcune posizioni, ma non ci si può chiudere al dialogo. Riguardo le proteste di questi anni i partiti, sia a livello locale che centrale, dovrebbero fare autocritica per non essere stati capaci di comunicare con queste popolazioni e di informare. Il problema sorge quando tra i No tav spuntano i centri sociali, che non hanno alcun interesse perla Valdi Susa: l’unico loro interesse è imbrattare e distruggere, sono venuti da tutt’Italia per far questo. Il movimento No tav si dovrebbe apertamente dissociare da queste frange violente. E’ notizia della scorsa settimana: la marcia pacifica dei No tav è stata trasformata in un vero e proprio assalto di violenti nella stazione Porta Nuova di Torino. Troppo spesso si evidenzia un filo diretto No tav-centri sociali. Quest’ultimi vogliono creare un clima di terrore pericoloso per il Paese.
Non c’è il rischio che dei No tav rimanga solo la violenza e non le ragioni?
I No tav non se ne accorgono o non vogliono accorgersene, il che sarebbe più grave: bisogna abbassare i toni, sta diventando una guerra civile. Mi auguro che il movimento no-tav lasci libera la valle e trovi momenti di dialogo con le istituzioni. Questa occupazione sta provocando solo danni al turismo e alla visibilità della zona. Fino a esso il bilancio delle proteste è negativo, bisogna partire con il dialogo.
L’impatto ambientale devastante che avrebbe l’opera denunciato dai No tav è reale?
Questa è una vicenda di cui si parla da vent’anni. C’è un problema nella struttura montana caratterizzata da amianto. A oggi è in progetto un trattamento particolare per cui l’amianto non sarà dannoso per la salute. Certo la zona, ventosa per sua natura, non aiuta, ma nel nuovo progetto è stato garantito uno smaltimento adeguato. Purtroppo questo i cittadini non lo sanno, c’è stata poca comunicazione da parte delle istituzioni. Poi ovviamente non si può imporre niente a nessuno. Ognuno è libero di manifestare la propria opposizione, ma bisogna abbandonare la via della violenza e credere. Credere che la violenza sia dovuta alle forze dell’ordine è pretestuoso, i No tav si devono distaccare dalle frange violente.
L‘alta velocità rischia di essere una delle grandi opere fantasma con stanziamento di soldi pubblici anch’essi destinati a sparire oppure diverrà davvero il grande snodo verso il centro Europa?
Se non parte il progetto rischia di diventare fantasma. Ci vorranno venti anni per essere portata a termine, rallentando anche le connessioni importanti con il centro   Europa. Adesso che il progetto ha cambiato obiettivo, rivolendosi a quella parte della montagna con minor tasso di amianto non ci dovrebbero essere problemi, ammesso che la popolazione la accetti.
Molte famiglie della Val di Susa si sono ritrovate senza casa, non è arrivato loro l’avviso d’esproprio, lei che lavora sul territorio ne sa niente?
No, l’esproprio attualmente, in questa prima fase, riguarda zone non abitate, che sono state sgomberate per iniziare i carotaggi per la costruzione del tunnel. Nella seconda fase verrà ad essere utilizzato territorio a oggi abitato, ma questo avverrà tra 10 anni.
Buemi, segretario Psi regione Piemonte ieri ha ipotizzato infiltrazioni mafiose tra i No tav, lei ne è a conoscenza?
Non lo so, sono certo della violenza dei centri sociali, per il resto non so niente.
Vattimo invece ha detto che il Pd è a favore del’alta velocità perché i lavori sarebbe stati appaltati ad una cooperativa vicina ai democratici, che ne pensa lei?
Se cominciamo a ragionare pensando che dietro a ogni opera ci sia un partito non approdiamo a nessun risultato, sono contrario a questo modo di ragionare.
Come finirà?
Non lo so, la situazione è difficile, bisogna tenere i nervi saldi cercando un dialogo assolutamente necessario e fattibile solo dicendo basta a questo braccio di ferro. (Diletta Liberati)

ORSINI: “Abbiamo bisogno di un partito socialista, oggi più che mai ”

Riformismo ed estremismo scandiscono da sempre tempi e mutamenti interni alla Sinistra, in particolar modo quella italiana. Dettano il respiro delle riforme, operano cesure nel dibattito politico, spostano correnti partitiche. E a volte, purtroppo, generano anche mostri. Questi e molti altri temi sono stati affrontati nel saggio “Gramsci e Turati, Le due sinistre” da Alessandro Orsini, professore aggregato di Sociologia politica e di Sociologia dell’educazione all’Università di Roma “Tor Vergata” e all’Università LUISS “Guido Carli”. Un libro che recentemente Roberto Saviano ha consigliato a chiunque “si senta smarrito a sinistra”, definendolo “la più bella riflessione sulla Sinistra degli ultimi anni”. Orsini, che ha raggiunto fama internazionale grazie anche alla pubblicazione negli Stati Uniti del suo “Anatomia delle Brigate rosse”, ha commentato con l’Avanti!online gli snodi più interessanti della sua analisi.
Perché il riformismo spaventa tanto gli estremisti?
Il riformismo spaventa l’estremismo di sinistra perché le riforme, quando sono ben fatte, privano i rivoluzionari delle condizioni che favoriscono la diffusione della violenza. I riformisti hanno questa ambizione: migliorare le condizioni di vita dei lavoratori fin da subito. I rivoluzionari pensano che il progetto politico dei riformisti sia una forma di accanimento terapeutico. Contro il capitalismo, secondo loro, si può soltanto staccare la spina. I riformisti pensano che il capitalismo sia una pecora che deve essere ben tosata, ma sono anche fermamente contrari al mercato autoregolato. I rivoluzionari pensano che i riformisti siano soltanto dei traditori prezzolati dalla borghesia.
La vera rivoluzione deve necessariamente passare attraverso una rottura netta con il passato o si possono “cambiare le cose” in maniera graduale?
Turati rifiutava di credere che il mondo sarebbe cambiato con un colpo di spugna. Mi sembra che la storia gli abbia dato ragione. Dove ha prevalso la ricetta leninista, la libertà è svanita e la povertà è aumentata. Dove ha prevalso la ricetta turatiana, sono cresciute la libertà e la ricchezza. Viviamo in un mondo pieno di cose brutte, ed è giusto denunciarle e combatterle come faceva Turati. Ma occorrono anche buone idee. Come tutti gli uomini, Turati ha commesso i suoi errori e aveva i suoi limiti, ma aveva anche un grande serbatoio di idee intelligenti. Purtroppo, Palmiro Togliatti lo ricoprì di disprezzo nel giorno della sua morte. Disse che Turati era stato tra i più spregevoli e corrotti tra gli uomini della sinistra. Un uomo di cui bisognava avere vergogna. Purtroppo, moltissimi hanno creduto a Togliatti. E hanno creduto anche a Gramsci, che definì Turati un “semifascista”.
Secondo lei oggi la sinistra è smarrita?
Secondo me, lo è. Roberto Saviano ha ragione su questo punto ed è stato coraggioso a dirlo così chiaramente nel suo articolo su Repubblica. È stato creato un partito, il PD, senza indicare i riferimenti ideali e culturali che fondano la sua azione politica. Ma la responsabilità di questo vuoto non è del PD. I politici fanno il loro mestiere. Cercano i consensi, non hanno il tempo di rinchiudersi negli archivi storici. Direi, piuttosto, che molti intellettuali e alcune case editrici, abbagliate dal mito di Gramsci, non sempre sono state capaci di fornire gli stimoli adeguati. Alcuni di loro, penso a Massimo Salvadori e a Luciano Pellicani, hanno cercato di sottolineare l’importanza del riformismo, senza incontrare troppi consensi. Tuttavia, la sinistra, sotto il profilo dell’identità politica, appare eccessivamente smarrita. A mio giudizio, anche per un fattore “G” (Gramsci) che ha frenato molte riflessioni. Rifondazione Comunista ha una robusta identità politica, ma non riceve più consensi; mentre il PD riceve milioni di voti, ma è privo di riferimenti culturali adeguati. Il PD dovrebbe dire quali sono i valori e gli ideali in cui crede. Turati ha lasciato un’eredità importante. C’è però un problema sotto il profilo pedagogico: Gramsci e Turati non possono stare nello stesso partito. Occorre avere il coraggio di prenderne atto e di scegliere. Piero Fassino li mise insieme nel congresso dei Democratici di Sinistra a Roma, il 5 febbraio 2005. Per me Fassino è un riformista che ha alcuni meriti importanti, ma la pedagogia dell’intolleranza non può coesistere con la pedagogia della tolleranza. Gramsci è l’eroe di Rifondazione Comunista ed è giusto che sia così. Il PD si interessi di più a Turati.
In che condizioni versa oggi il socialismo in Italia?
Il problema enorme a sinistra è che il termine “socialismo” è diventato quasi inservibile. Alcuni fattori, tra i quali anche l’accanimento ideologico del PDS, hanno distrutto questa parola. I socialisti sono stati ricoperti di disprezzo. Tutto è stato travolto, senza fare distinzioni. Con quali conseguenze? Quando Berlusconi ha iniziato a inanellare un successo dopo l’altro, la parola comunismo non poteva essere pronunciata, a causa dei disastri sovietici. Bisognava richiamarsi al socialismo, ma l’opinione pubblica non avrebbe accolto un simile riferimento perché “socialismo” era diventata una parola sconcia. Insomma, la parola comunismo era stata spazzata via dalla storia, ma la parola socialismo non era utilizzabile, almeno nel breve periodo. Ha avuto così inizio la storia dei simboli politicamente deboli, come la quercia, e una proliferazione di sigle senza contenuti culturali apprezzabili.
Perché tutto questo accanimento da parte dei comunisti contro il partito socialista?
Sotto il profilo culturale, ho ricercato le radici di questo accanimento nel mio libro “Gramsci e Turati. Le due sinistre” e prima ancora in “Anatomia delle Brigate rosse” (Rubbettino). Qui mi limito a fare una considerazione sulla storia più recente e dico che i comunisti avevano le loro “buone ragioni” a odiare Craxi, il quale aveva lavorato per rendersi autonomo, ingaggiando una dura battaglia culturale contro il PCI, contro il leninismo, contro gli aspetti totalitari della cultura di Gramsci e molto altro. Il Psi si smarcò dal PCI per molte ragioni. Una delle principali fu che i socialisti di Craxi pensavano che il PCI fosse un fattore di freno per lo sviluppo economico e culturale del Paese. Il PSI ha colpe gravi nel processo di disfacimento della sinistra, ma bisogna riconoscere che il PSI è stato l’unico vero partito riformista italiano.
Chi sono adesso i nemici del dialogo?
Per deformazione professionale cerco di guardarli sempre dentro di me. Diventerei un nemico del dialogo se io, per primo, ne additassi uno senza dargli la possibilità di replicare. Essendo un’intervista, e non un dibattito pubblico, mi perdoni se la lascio senza risposta.
Raffaele d’Ettorre - Avanti! On Line - 28 febbraio 2012 

SIRIA: Perché nessuno ferma Assad

Nonostante l'indignazione dell'opinione pubblica mondiale, la comunità internazionale non riesce ad andare oltre le sanzioni e gli appelli. Gli interessi della Russia paralizzano l'Onu, le potenze europee sono indebolite dalla crisi e gli Stati Uniti temono un nuovo Iraq.

Otto febbraio 2012. Nella sala operatoria di un ospedale di Homs, assediato dall'esercito, giace un bambino di 2 anni, morto. La casa dove viveva con i genitori è stata colpita da una granata. "Cosa aspetta ancora l'Onu? Che tutti i bambini e le donne della città siano morti?". In un video diffuso su Youtube, il britannico di origini siriane Danny Abdul Dayem commenta immagini sconvolgenti.
"Cadaveri sull'asfalto, brandelli di carne sparsi dappertutto. Perché nessuno ci aiuta? Dov'è l'umanità  del mondo? Dove diavolo è finita l'Onu?", chiede disperatamente Dayem. Da 11 mesi le forze di Bashar El Assad attuano una repressione spietata delle manifestazioni di protesta. Il numero delle vittime civili ha superato quota cinquemila.
Russia e Cina hanno bloccato una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che chiedeva la fine immediata delle violenze. L'opinione pubblica internazionale appare sempre più divisa in due schieramenti. Da un lato ci sono i sostenitori di un intervento sulla base della dottrina della "responsabilità di proteggere" (adottata nel 2005 dall'Assemblea generale delle Nazioni unite) che concede alla comunità internazionale il diritto di intervenire con mezzi militari quando il governo di uno stato commette crimini contro l'umanità. Nel caso della Siria si parla della creazione da parte della Lega araba e della Turchia (con il sostegno dell'Onu) di una zona cuscinetto liberata dalla presenza dell'esercito siriano per proteggere i ribelli.
Dall'altro lato c'è invece  il gruppo dei prudenti, secondo cui la Siria non è la Libia, e sul campo non ci sono le condizioni che hanno reso possibile il successo della Nato contro il regime di Geddafi. L'opposizione siriana è infatti molto più debole e frammentata di quanto lo fosse quella libica, e tra i due schieramenti in conflitto non c'è un fronte netto da difendere con un intervento aereo, come accaduto a Benghazi. Il fatto che le violenze avvengano in zone urbane densamente popolate complica ulteriormente le cose.
Oggi in occidente non sono in molti a volere un altro intervento nel mondo arabo. Ai tempi della guerra in Libia l'ipotesi della fine dell'euro sembrava ancora fantascientifica, mentre oggi è fin troppo reale. Inoltre, in un anno elettorale e con diverse economie nazionali in grande crisi, è poco probabile che i governi di Stati Uniti e Francia mostrino lo stesso entusiasmo di allora.
Quanto all'intesa franco-britannica, sembra essersi volatilizzata dopo l'apocalittico vertice europeo di dicembre, quando anche a causa delle pressioni di Parigi la City di Londra ha dovuto scendere dal treno dell'integrazione. E la Germania? Se Berlino riscoprisse una vocazione interventista sarebbe la notizia dell'anno.  
Il ruolo di Mosca
Negli ultimi mesi la Russia è stata il principale difensore di Assad. "Uno dei motivi è che la Siria ospita l'unica base navale russa fuori dallo spazio sovietico", spiega Dmitry Gorenburg del Davis Center di Harvard. La base di Tartus è la testa di ponte di Mosca in Medio Oriente, essenziale per il rifornimento delle navi russe in transito nel Mediterraneo.
Le orribili violazioni dei diritti umani non hanno impedito a Mosca di rifornire di armi Damasco, e nel 2010 il governo siriano ha assorbito quasi il 6 per cento delle esportazioni militari russe. Senza contare gli investimenti russi nei giacimenti di gas in Siria, che attualmente ammontano a quasi 20 miliardi di dollari.
Infine non bisogna dimenticare che una scintilla in Siria potrebbe infiammare la polveriera mediorientale, scatenando una guerra civile in Libano, Giordania e Iraq. E l'incubo di Baghdad è un ricordo abbastanza vivo da distogliere gli americani da una nuova avventura militare.(Traduzione di Andrea Sparacino)
Diplomazia europea: Ashton ha toccato il fondo

Ottenebrata dalla crisi dell'euro, l'Europa è incapace di agire davanti agli eventi in Siria. È l'ultima prova del "fallimento della politica estera europea, teoricamente rinforzata dal trattato di Lisbona", scrive sul quotidiano spagnolo Abc l'analista José María de Areilza, secondo cui
la primavera araba offre diversi esempi dell'inefficacia crescente dell'azione europea, che si basa su un potere d'attrazione (o soft power) che è del tutto inutile davanti agli orrori in Libia o alla guerra civile in Siria.
Areliza critica in particolare Catherine Ashton. L'Alta rappresentante per gli affari esteri dell'Unione europea   
ha toccato il fondo, cosa che sembrava difficile. Ha accettato un accordo in base al quale le azioni del suo servizio esterno sono subordinate all'autorizzazione burocratica di tre commissari che le fanno apertamente concorrenza in seno all'esecutivo europeo.

GRECIA: Il bailout salva solo le banche

febbraio 2012  Die Tageszeitung  - "I greci salvano le banche europee", titola la Tageszeitung. Secondo il quotidiano tedesco il piano di aiuti europeo non gioverà affatto ai greci, che "in futuro dovranno vivere con stipendi ancora più bassi, una protezione dai licenziamenti limitata, un'assicurazione medica scadente e una liquidazione massiccia del loro stato". Nonostante tutto ciò, nel 2020 il debito greco potrebbe ritrovarsi agli stessi livelli di oggi.  
Secondo il commento di Eric Bonse, il piano d'aiuti è un "diktat spietato" e avvantaggia esclusivamente il sistema bancario, che grazie agli interessi generati dal debito greco si salverà dal collasso:
Schäuble e compagnia hanno salvato i creditori, non il popolo greco. Ad approfittare del piano saranno le banche, le assicurazioni e i fondi pensione tedeschi, francesi e britannici, che in caso di fallimento [della Grecia] avrebbero perso tutto […]. I creditori privati, che secondo Schäuble avrebbero dovuto fare da garanti, sono in realtà enormemente favoriti. È un ottimo affare per i creditori, ma pessimo per l'Europa. 

Neanche la troika crede al bailout

Financial Times, 21 febbraio 2012 - "Svelato l'incubo del debito greco", titola il Financial Times, entrato in possesso di un rapporto "strettamente confidenziale" preparato dagli analisti della troika Ue-Fmi-Bce e distribuito la settimana scorsa ai leader dell'eurozona. Le dieci pagine di "analisi della sostenibilità del debito" sottolineano che  
anche nello scenario più ottimistico le misure di austerity imposte ad Atene potrebbero innescare una recessione talmente profonda da impedire alla Grecia di tirarsi fuori dalla voragine del debito durante l'erogazione del nuovo bailout triennale da 170 miliardi di euro [136 dell'ultimo piano di salvataggio più i restanti 34 di quello del maggio 2010].
Il rapporto evidenzia inoltre che due dei principi basilari del nuovo intervento potrebbero essere controproducenti: 
Imporre l'austerity alla Grecia potrebbe danneggiare profondamente l'economia di Atene e causare un'impennata nel livello del debito, mentre la ristrutturazione del debito da 200 miliardi di euro potrebbe spaventare i futuri investitori e impedire alla Grecia di tornare sui mercati finanziari.  
Gli analisti della troika suggeriscono inoltre che il debito potrebbe calare più lentamente di quanto auspicato, 
non oltre il 160 per cento nel 2020, ben lontano dal 120 per cento previsto dal Fondo monetario internazionale. In uno scenario simile, la Grecia avrebbe bisogno di un bailout da circa 245 miliardi di euro, ovvero molto più dei 170 miliardi di cui hanno parlato i ministri dell'eurozona durante il negoziati di lunedì a Bruxelles.

Serbia: Un altro passo verso l’Ue

Il 28 febbraio i ministri degli esteri Ue si sono espressi in favore della concessione dello status di candidato all'adesione alla Serbia. Una decisione che fa seguito all'accordo di cooperazione regionale firmato il 24 febbraio a Bruxelles tra i rappresentanti di Pristina e Berlgrado. Le parti hanno deciso che nelle relazioni tra le due entità la denominazione "Kosovo" sarà seguita da un asterisco per precisare che l'indipendenza della provincia non è ancora riconosciuta. Sul quotidiano di Pristina Koha Ditore, l'analista Veton Surroi scrive che 
la qualità delle relazioni serbo-kosovare dopo un anno di negoziati non cambierà molto con la firma dell'accordo. I due paesi non si riconoscono ancora legittimità giuridica. Ne deriva la necessità di proseguire sulla strada del dialogo fino a quando non si arriverà ad avere una relazione stabile.
Pristina punta a ottenere il riconoscimento da parte dei cinque stati europei che ancora non hanno avallato la sua indipendenza (Cipro, Spagna, Romania, Slovacchia e Grecia), e l'instaurazione di un nuovo quadro giuridico. Tuttavia la mancata definizione dello status del Kosovo rende necessaria una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu con l'avallo della Serbia.
L'Ue offrirà ancora al Kosovo la prospettiva europea e prometterà uno studio della fattibilità dell'integrazione (senza però spingersi fino all'apertura del processi di stabilizzazione e associazione). La Serbia, di contro, potrà ottenere lo status di candidato all'adesione.
Bruxelles voleva innanzitutto sbloccare la situazione e attirare la Serbia verso l'Unione europea. Belgrado desiderava ottenere lo status di candidato e contemporaneamente continuare a contestare l'indipendenza, la sovranità e la funzionalità  del Kosovo, e l'obiettivo è stato sostanzialmente raggiunto. Il Kosovo invece ha perso la sua occasione di normalizzare la situazione.
Presto i paesi coinvolti entreranno in campagna elettorale, una fase "instabile" per definizione. I negoziati per l'adesione della Serbia all'Unione europea non potranno cominciare fino a quanto la situazione politica serba e kosovara non sarà chiara e stabile. Sarà Bruxelles a decidere quando i due governi dovranno sedersi nuovamente attorno a un tavolo.

IL SAGGIO: Elogio dei riformisti di Roberto Saviano

La tolleranza di Turati, quella piccola lezione per una sinistra smarrita. Un saggio ripercorre la figura del leader socialista e una tradizione da sempre minoritaria in Italia
di ROBERTO SAVIANO
La Repubblica - Divisione Stampa Nazionale Gruppo Editoriale L’Espresso Spa

28 febbraio 2012. - Che cosa significa essere di sinistra? È possibile ancora esserlo? Sentire nel profondo di appartenere a una storia di libertà, a una tradizione di critica sociale e di sogno, a un percorso che sembra essersi lacerato, reciso. Con un immenso passato e un futuro incerto? E soprattutto di quale sinistra parliamo e di quale tradizione? E come si coniugano le due anime della sinistra, quella riformista e quella rivoluzionaria? Che genere di dialogo c'è stato tra loro?

Domande che affliggono militanti, intellettuali e uomini di partito. Domande che affliggono me da sempre. Alessandro Orsini giovane professore napoletano di Sociologia Politica all'Università di Roma Tor Vergata ha provato a dare delle risposte. Ha scritto un libro intitolato Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino). Il titolo sembra presentare un saggio, di quelli accademici, lunghi e tortuosi. E invece credo sia la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni. Che non ha paura di maneggiare materia delicata. Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull'altra. L'idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: "La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato". Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all'insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: "Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio". Arrivò persino a tessere l'elogio del "cazzotto in faccia" contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un "programma politico" e non un episodio isolato. Certo, il pensiero di Gramsci non può essere confinato in questo tratto violento, e d'altronde le sue parole risentivano l'influenza della retorica politica dell'epoca, che era (non solo a sinistra) accesa, virulenta, pirotecnica. Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: "Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l'insulto e l'intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all'eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà".

Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d'origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l'eredità peggiore della pedagogia dell'intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora. Naturalmente, oggi, nel Pd erede del Pci, non c'è più traccia di quel massimalismo verboso e violento, e anche il linguaggio della Sel di Vendola è molto meno acceso.
Ma c'è invece, fuori dal Parlamento, una certa sinistra che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani. Loro sono i seguaci dell'unica idea possibile di libertà, tutto quello che dicono e pensano non può che essere il giusto. Amano Cuba e non rispondono dei crimini della dittatura castrista  -  mi è capitato di parlare con persone diffidenti verso Yoani Sánchez solo perché in questo momento rappresenta una voce critica da Cuba  - , non rispondono dei crimini di Hamas o Hezbollah, hanno in simpatia regimi ferocissimi solo perché antiamericani, tollerano le peggiori barbarie e si indignano per le contraddizioni delle democrazie. Per loro tutti gli altri sono venduti. Mai che li sfiori l'idea che essere marginali e inascoltati nel loro caso non è sinonimo di purezza, ma spesso semplicemente mancanza di merito.
Turati a tutto questo avrebbe pacificamente opposto il diritto a essere eretici, che Orsini ritiene essere il suo più importante lascito pedagogico. Questo fondamentale diritto ha trovato la formulazione più alta nell'elogio di Satana, metafora estrema dell'amore per l'eresia e dell'odio per i roghi. Satana, provoca Turati, è il padre dei riformisti: "Non siamo asceti che temono i contatti della carne, siamo figli di Satana (...). Se domani viene da me il Re, il Papa, lo Scià di Persia, il Gran Khan della Tartaria, il presidente di una repubblica americana, non per questo rinuncio alle mie idee. Non per questo transigo o faccio atto d'omaggio, ma resto quello che sono, e ciascuno di noi rimane quello che è".

Ma l'odio per i riformisti,  -  spiega Orsini  -  è il pilastro della pedagogia dell'intolleranza. Dal momento che i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori qui e ora, sono percepiti da certi rivoluzionari come alleati dei capitalisti. Questo libro dimostra come, nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori sia un bene (come diceva Labriola) perché accresce l'odio contro il sistema e rilancia l'iniziativa rivoluzionaria: è il famigerato tanto peggio tanto meglio. I riformisti, invece, non credono nella società perfetta, ma in una società migliore che innalzi progressivamente il livello culturale dei lavoratori e migliori le loro condizioni di vita anche attraverso la partecipazione attiva alla gestione della cosa pubblica. I riformisti  -  spiegava Turati  -  sono realisti e tolleranti. Realisti perché credono che non sia possibile costruire una società in cui siano banditi per sempre i conflitti. Tolleranti perché, rifiutando il perfettismo, si pongono al riparo dalla convinzione di avere avuto accesso alla verità ultima sul significato della storia. Turati pagò a caro prezzo la sua durissima battaglia contro la pedagogia dell'intolleranza. Quando morì in esilio, in condizioni di povertà, Palmiro Togliatti scrisse un articolo su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato "il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra".

Consiglio questo libro a chi si sente smarrito a sinistra. Potrebbe essere uno strumento di comprensione e soprattutto, credo, di difesa. Difenderebbe il giovane lettore dai nemici del dialogo, dai fautori del litigio, dagli attaccabrighe pronti a parlare in nome della classe operaia, degli emarginati, degli "invisibili", dai pacifisti talmente violenti da usare la pace come strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente. Turati aiuta a comprendere quanta potenza ci sia nel riformismo, che molti considerano pensiero debole, pavido, direbbero persino sfigato. Il riformismo di cui parla Turati fa paura ai poteri, alle corporazioni, alle caste, perché prova, cercando consenso, ponendosi dubbi, ragionando e confrontandosi, di risolvere le contraddizioni qui e ora. Coinvolgendo persone, non spaventandole o estromettendole perché "contaminate". Non è un caso che i fascisti prima e brigatisti poi avessero in odio soprattutto i riformisti. Non è un caso che i fascisti temessero Matteotti che aveva denunciato brogli elettorali. Non è un caso che i brigatisti temessero i giudici riformisti, i funzionari di Stato efficienti. Perché per loro i corrotti e i reazionari erano alleati che confermavano la loro idea di Stato da abbattere e non da migliorare.

Per Turati il marxismo non può essere considerato un "ricettario perpetuo" in cui trovare la soluzione a tutti i problemi perché uno stesso problema, come l'emancipazione dei lavoratori, può richiedere soluzioni differenti in base ai contesti, ai periodi storici e alle risorse disponibili in un dato momento. Meglio diffidare da coloro che affermano di sapere tutto in anticipo; meglio "confessarci ignoranti"". Turati era convinto che la prospettiva culturale da cui guardiamo il mondo fosse decisiva per lo sviluppo delle nostre azioni. Questa è la ragione per cui attribuiva la massima importanza al ruolo dell'educazione politica: prima di trasformare il mondo, occorre aprire la mente e confrontarsi con i propri pregiudizi. Le certezze assolute fiaccano anche le intelligenze più acute: la pedagogia della tolleranza è il primo passo per la costruzione di una società migliore.

LEGGE ELETTORALE: Elogio controcorrente del voto di preferenza

Alberto Benzoni da "Il Riformista" del 25 febbraio 2012

Il sistema elettorale vigente – il cosiddetto “porcellum”- è, a detta di tutti, in assoluto il peggiore. E tra le sue varie magagne, sempre a detta di tutti, c’è quella di dar luogo ad un “Parlamento di nominati”.
Sarebbe stato dunque lecito attendersi che al centro di qualsiasi progetto di riforma elettorale ci fosse la restituzione ai cittadini di un diritto di scelta loro arbitrariamente sottratto; e questo nel modo più semplice possibile, ripristinando quel voto di preferenza, presente nel nostro paese lungo tutto il corso della prima repubblica.
Si dà il caso, però, che almeno nei circoli politici, l’argomento “voto di preferenza” sia automaticamente accompagnato dal gelo cortese quanto imbarazzato che accompagnava chi parlava di cibo e soprattutto di sesso in un salotto vittoriano. Temi che, insomma, era meglio evitare, senza che però fosse necessario, o anche solo opportuno, spiegare le ragioni del tabù.
Nello specifico, chi si oppone al ritorno delle preferenze avrebbe un’estrema difficoltà nel motivare sino in fondo il suo no. Perché si tratta delle stesse persone che invocano ad ogni piè sospinto i diritti, anzi la superiore moralità dei “cittadini” (alias “gente, popolo, società civile”) di fronte alla miserabile protervia dei partiti e della classe politica. E che sono, invece, convinte nel profondo che il “cittadino reale” sia, per ragioni diverse, un soggetto passivo in balia di condizionamenti esterni, per definizione negativi; a cui è bene allora non affidare responsabilità che non è in grado di esercitare. A ben vedere, siamo di fronte ad una specie di giuoco al massacro che coinvolge, in una condanna senza appello rappresentanti e rappresentati, senza misurarsi però con le sue logiche conclusioni: l’appello ai “tecnici” (in questo caso della morale) per assicurare, assieme a quelli della economia e della finanza, la salvezza del paese…
Il discorso dei sostenitori del voto di preferenza potrebbe essere, invece, molto più realistico e sobrio. Nessuna sopravvalutazione degli effetti positivi della reintroduzione del sistema; dopo tutto, le vicende della seconda repubblica dovrebbero avere insegnato a tutti che è illusorio pensare di risolvere i problemi politici con questo o quel marchingegno istituzionale.
E, ancora e soprattutto, nessuna sottovalutazione dei rischi e delle controindicazioni comportati dal ritorno della preferenza; rischi e controindicazioni presenti a tutti e obbiettivamente aggravati dalla scellerata introduzione della preferenza unica. Con il duplice effetto di trasformare la competizione in una sorta di guerra di tutti contro tutti e di accentuare oltre misura il ruolo del danaro nel determinare l’esito della gara (e nel condizionare i comportamenti successivi dell’eletto…).
Ma ciò non contrasterebbe affatto con il loro ragionamento conclusivo: l’essere il voto di preferenza, assieme al sistema proporzionale, parte integrante di un assetto complessivo tendente alla massima inclusività possibile; nel senso di attribuire al più ampio arco di persone e di gruppi un insieme sempre più ampio di diritti. Dando, in qualche modo, per scontato che questo processo di inclusione comportasse dei rischi; ma, nel contempo, essendo comunque convinti che il suo effetto netto per il paese sarebbe stato complessivamente positivo; o, detto in altro modo, che i benefici avrebbero superato i costi.
Punto debole di questo schema la crescente disattenzione di fronte al problema dei costi (nel caso che qui ci interessa, dei costi della politica); con il risultato di vederli progressivamente crescere sino a superare il livello di guardia. Si poteva, a quel punto, affrontare la crisi in modo puntuale eliminando sprechi, distorsioni e pratiche improprie e illecite, all’insegna della riforma della politica; si è invece deciso di ridurne gli spazi e i diritti. Così, sempre nel nostro tema specifico, un cittadino italiano che, sino alla fine degli anni Ottanta, aveva il diritto di scegliere il partito e i candidati a lui più vicini, si troverà, verso la metà degli anni Novanta, sostanzialmente costretto a scegliere tra due candidati di due opposti schieramenti, indicati da un ristrettissimo numero di persone e, quasi sempre, paracadutati da chissà dove.
Un sistema che Berlusconi avrebbe parzialmente modificato; ma in nome degli interessi del proprio schieramento politico e non certo dei diritti di scelta dei cittadini. Nell’insieme, rimarrà riservata a pochissimi (e nella totale assenza di regole) la scelta dei candidati da eleggere. Mentre, con singolare corrispondenza, sarà ancora affidata alla decisione del leader (attraverso la concessione, o meno, dell’apparentamento) la scelta dei partiti cui concedere una rappresentanza parlamentare (metodo che, per inciso, i socialisti hanno sperimentato sulla loro pelle nel 2008).
In sintesi, i rivoluzionari degli anni Novanta potevano correggere le distorsioni anche gravi nel funzionamento della politica introducendo nuove regole; hanno preferito invece ridurre se non eliminare i diritti con il risultato di non avere oggi né regole né diritti.
In questa chiave, tra l’altro, si può capire perché chi si oppone alla reintroduzione del voto di preferenza su scala nazionale (a livello locale si è molto più liberali: qui il cittadino non solo partecipa alle primarie; ma successivamente può votare non solo per il sindaco e/o presidente della provincia e della regione ma anche esprimere voti di lista e di preferenza e senza sbarramenti), si guardi bene dall’usare l’argomento principe a sua disposizione. Che non può essere quello dell’incapacità dell’elettore nel farne buon uso; ma potrebbe benissimo essere quello della totale assenza di questa facoltà in tutti i sistemi elettorali europei.
Qui, che si tratti di sistema proporzionale, modello tedesco o spagnolo oppure senza alcun sbarramento, di uninominale a uno oppure a due turni o di varie combinazioni tra questi modelli, il principio è sempre quello. Sono i partiti a predisporre le liste così come l’ordine delle candidature all’interno delle medesime; così come sono ancora i partiti a scegliere i candidati nei collegi uninominali. E, cosa ancora più importante, nessuno contesta loro l’esercizio di tale diritto e nessuno perciò si straccia le vesti per lo scandalo del “Parlamento di nominati” e dei diritti democratici conculcati.
Si potrebbe ritenere che questa accettazione tacita sia dovuta al fatto che il meccanismo di scelta è governato da regole precise e formali.
L’analisi è corretta. Ma non spiega tutto. Ed ha anzi il rischio, se eccessivamente enfatizzata, di farci vedere una realtà in bianco e nero. Come sicuramente non è.
Certo, le regole ci sono. Formali (ma, in questo senso, non dissimili da quelle esistenti nel nostro paese) per l’elezione degli organismi dirigenti dei partiti; del tutto informali, invece, e affidate alla consuetudine, alla ricerca del massimo consenso e a ragioni di opportunità di vario tipo, per quanto riguarda la scelta delle candidature. In un contesto in cui peseranno, in vario modo, gli umori della periferia, gli equilibri tra le varie correnti organizzate, la necessità di lanciare, attraverso le candidature, nuove aperture verso l’esterno e la costruzione di nuovi gruppi dirigenti. E in cui, come risultante di queste diverse esigenze, il margine di manovra del centro tende oggettivamente a crescere.
Come si vede, non stiamo parlando di Shangri La o del paese dell’Utopia. Stiamo descrivendo una realtà fatta di consuetudini e di imperfezioni. Di una realtà in cui, per inciso, è presente il disprezzo per i partiti e la politica- come in Italia- ma in cui- a differenza dall’Italia- nessuno si sogna però di contestare le loro prerogative, insomma i loro diritti e i loro doveri. Questi, purchè correttamente esercitati, non sono soggetti a prescrizioni di sorta; e giudice di questa correttezza può essere solo il corpo elettorale; e non certo procuratori autocertificati. Con il risultato che nessuno mette in discussione il Parlamento, il suo ruolo e la sua rappresentatività.
Da noi, questi procuratori invece abbondano. E, nel caso specifico, utilizzano del tutto strumentalmente il richiamo ai diritti dei cittadini. Ciò che a loro interessa è di denunciare l’indegnità dei partiti; e non per richiamarli ai loro diritti e ai loro doveri, o per contestarne la, del tutto immaginaria, onnipotenza; ma piuttosto per certificare ulteriormente la loro disgregazione e la loro debolezza. Il tutto in una logica di confronto tra cittadini e partiti comunque a somma zero.
Attendiamo allora con fiducia che l’Europa- o un suo portavoce autorizzato e credibile- inviti i partiti italiani a fare ordine in casa propria. E in tutte le direzioni possibili. E non c’è bisogno di tabelle o di pagine specializzate per spiegare cosa ciò significhi. In questo quadro potremmo tranquillamente esercitare il nostro diritto di cittadini; quello di votare, insieme, per il partito e il candidato a noi più vicino.