Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


martedì 31 luglio 2012

PRESIDENZIALI USA - Romney, presidente di gaffe

Scivoloni a ripetizione per il repubblicano.
di Guido Mariani

Martedì, 31 Luglio 2012 - Aveva sperato che il viaggio elettorale all’estero lo avrebbe aiutato a guadagnare la fiducia di alleati e amici, nonché un po’ di prestigio in patria. Ma, almeno stando alle stilettate della stampa internazionale, il candidato repubblicano Mitt Romney probabilmente ha sbagliato.
La sua breve trasferta al di qua dell’Oceano Atlantico lo ha portato prima in Gran Bretagna, poi in Israele e infine in Polonia. E l’avventura è stata a dir poco disastrosa.
ROMNEY, IL BIANCO VICINO ALL'EUROPA. Il primo passo falso l’ha compiuto un responsabile della campagna elettorale, non appena toccato il suolo britannico. Lo staff ha esordito dicendo che, visto la sua origine anglosassone, Romney sia in grado di capire quanto sia speciale la relazione con il Regno Unito. Una cosa che la Casa Bianca non può comprendere poiché «non apprezza la storia comune che noi abbiamo».
Una frase improvvida che spogliata di sottintesi suona anche peggio: il repubblicano è un bianco e quindi può relazionarsi meglio con gli europei rispetto a un afro-americano come il presidente Berack-Obama ri.
CRITICHE ALL'ORGANIZZAZIONE DEI GIOCHI. In terra d’Albione le cose sono poi rapidamente precipitate. Alla vigilia dell’Olimpiade, Romney, che nel 2002 è stato capo dell'organizzazione dell'Olimpiade invernale di Salt Lake City, si è chiesto se il Paese fosse pronto per gestire l’evento e ha poi messo in dubbio lo spirito di comunità di una città come Londra.
A seguire, violando regole consolidate di riservatezza, ha parlato di un incontro con il capo dei servizi segreti del Mi6 e ha organizzato una cena per raccogliere fondi sponsorizzata dalla banca Barclays, al centro di uno scandalo finanziario. Non male per una gita di pochi giorni.
La stampa britannica, notoriamente poco affine alle mezze misure, non ha avuto pietà e persino il sindaco di Londra Boris Johnson si è preso gioco del repubblicano pubblicamente.

A Gerusalemme ha fatto irritare israeliani e palestinesi


Ma il peggio doveva ancora arrivare. Nella tappa in Israele il candidato repubblicano ha vestito i panni del falco contro l’Iran, promettendo il sostegno Usa a un’eventuale guerra: una frase che tutti gli analisti hanno bollato quantomeno come incauta.
Non solo. Intimo amico del premier Bibi Netanyahu, Romney ha anche decantato: «Gerusalemme capitale di Israele», calpestando ogni accortezza diplomatica nei confronti dei palestinesi e quattro decenni di negoziati internazionali.
Infine, il repubblicano ha avuto l’idea di vistare il Muro del pianto circondato da fotografi e stampa, per poi organizzare una cena per la raccolta fondi (bottino raggranellato: 1 milione di dollari) nella ricorrenza di Tisha b'Av, il giorno di lutto e digiuno in cui gli ebrei rievocano le due distruzioni del Tempio.
Una concomitanza forse studiata per esprimere vicinanza al popolo ebraico, ma giudicata da molti come sconveniente, se non profana.
JINDAL PROVA A SPEGNERE LE POLEMICHE. Negli Usa i repubblicani hanno tentato di gettare acqua sul fuoco, riconoscendo di fatto la débâcle del loro uomo.
«La realtà è che non ci preoccupano i titoli dei giornali all’estero. Ciò che importa agli elettori è quello che succede qui da noi», ha commentato Bobby Jindal, stimato esponente del Grand old party nel tentativo di difendere il collega di partito e tener vive le sue chance contro Obama.

I primi errori durante il mandato di governatore del Massachusetts




Il problema è che Romney di gaffe ne ha ormai collezionate numerosissime anche in patria, e alcune sono piccoli capolavori di miopia politica e di comicità involontaria.
I suoi scivoloni più coloriti ormai risalgono al suo debutto sulla scena politica nazionale e sono diventati quasi dei classici.
Nel 2006 da governatore del Massachusetts si rifiutò di dare un’opinione sulla guerra in Iraq perché non era «materia che interessasse il suo mandato».
Nel marzo 2007, nel corso della sua prima avventura nelle primarie repubblicane, tentò di scaldare la platea di un banchetto di immigrati cubani anti-castristi con lo slogan «Patria o muerte, venceremos», dimenticandosi che fosse proprio il motto della rivoluzione cubana.
APPREZZAMENTO PER L'ENERGIA NAZISTA. Poco tempo dopo in una trasmissione televisiva rievocò con ammirazione le ricerche scientifiche in campo energetico dei nazisti, citò come suo libro preferito Battaglia per la terra del controverso fondatore di Dianetics, Ron Hubbard, e per conquistarsi l’approvazione delle donne disse che le idee della moglie «non sono rilevanti nella mia campagna elettorale».
Idee chiare anche su Guantanamo: «Molti dicono che andrebbe chiusa io la raddoppierei». Nonché su Osama bin Laden: «Non ha senso muovere il cielo e la terra e spendere miliardi di dollari solo per catturare una persona».

Anche per le presidenziali 2012 ha già collezionato scivoloni


Ai tempi forse era ancora un politico alle prime armi, ma nella sua lunga corsa alle presidenziali di novembre si è messo d’impegno per collezionare anche altre perle.
«Credo in un’America dove milioni di americani credono in un’America che è l’America in cui milioni di americani credono. Questa è l’America che amo», ha detto in un comizio a gennaio utilizzando un sillogismo di innovativa concezione che ha fatto fumare il cervello ai presenti.
POCA SINTONIA COI PROBLEMI SOCIALI. In altre occasioni ha dimostrato la sua poca sintonia con i problemi sociali. I poveri? «Non mi preoccupano, abbiamo una rete di sicurezza per loro». I dipendenti statali colpiti dalla crisi? «Mi piace essere in grado di licenziare le persone che mi offrono servizi». I disoccupati? «Volete sapere la verità? Anche io sono disoccupato».
Peccato che Romney abbia una ricchezza personale superiore ai 200 milioni di dollari, E non riesca proprio a nasconderlo, pur rifiutandosi di esibire le proprie dichiarazioni dei redditi.
A Detroit, per esempio, nel tentativo di esaltare l’industria automobilistica, si è lanciato in un inventario da aristocratico: «Guido una Mustang e un pick up della Chevrolet, mia moglie guida un paio di Cadillac, avevo anche un furgone della Dodge».
LA MOGLIE ANN È PEGGIO DI MITT. A oscurare Mitt c’è solo la moglie Ann, che sa dire anche di peggio. In un’intervista a Fox News ha dichiarato: «Noi sappiamo essere poveri di spirito. Anzi non mi considero neppure ricca e mi sembra una cosa interessante».
In altra occasione, rivolgendosi a un gruppo di donne con cui doveva solidarizzare, ha sentenziato: «Mi piace il fatto che ci siano donne che non possono scegliere e che debbano andare a lavorare e crescere i figli allo stesso tempo».
Memorabile anche il suo involontario doppio senso concesso in un’intervista a una radio di Baltimora: «Penso che sia tempo di tirare giù la cerniera e far vedere a tutti il vero Romney».
IL REPUBBLICANO PUÒ ANCORA VINCERE. Sperando che la lampo rimanga su, il repubblicano si consola consultando i sondaggi che lo danno ancora in lizza per la vittoria e i dati dell’economia che mettono in seria difficoltà Obama. E va avanti, imperterrito, per la sua strada, senza ripensamenti.
Come ha dichiarato in un’intervista a maggio: «Non ho molta familiarità con
quello che dissi. Ma rimango fermamente della mia opinione, qualsiasi essa fosse».

ITALIA - Pd-Pdl, patto sul Porcellum

Riforma elettorale, intesa Cav-Bersani.
Martedì, 31 Luglio - Le cronache raccontano un’altra giornata di calma piatta sul fronte della riforma elettorale.
Il comitato ristretto della Commissione Affari costituzionali del Senato, che doveva riunirsi martedì 31 luglio, ha infatti rinviato l’incontro a mercoledì primo agosto.
Il Popolo della libertà ha comunque presentato il suo testo. Ma l’appello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, anzi l’ultimatum piccato del capo dello Stato alle forze politiche perché si diano una mossa, sembra caduto nel nulla.
RIFORMA ELETTORALE, C'È L'ACCORDO. Sembra. Perché in politica spesso i fatti accadono lontano da occhi e orecchie indiscreti. Così nei corridoi di Palazzo Madama e in quelli di Montecitorio, si racconta, in realtà, un altro film. E cioè che la tirata d’orecchi di Napolitano sia servita eccome. E se è vero che l’accordo, a questo punto, verrà formalizzato dopo la pausa estiva, tra la serata del 30 luglio e il 31, qualcosa si è rimesso in moto.
Gli sherpa del Popolo della libertà, Partito democratico e Unione di centro, su mandato dei rispettivi segretari, a loro volta richiamati severamente dal capo dello Stato, si sono sentiti e incontrati.
PDL E PD: NO AL VOTO IN AUTUNNO. Nonostante le dichiarazioni ufficiali - che sembrano disegnare il solito muro contro muro - una via di intesa c’è. A patto, questa è la condizione del Pdl, o meglio di Silvio Berlusconi, che l’iter legislativo della riforma elettorale non cominci prima di settembre. L'obiettivo è evitare il voto anticipato, che il Cavaliere vede come fumo negli occhi. Ma anche tra i bersaniani non c’è tanta voglia di andare alle urne in autunno. Quindi questo ostacolo è ormai superato.

Il Pdl accetta che due terzi degli eletti siano scelti in collegi uninominali


Il compromesso sui cui si sta lavorando, e che potrebbe essere quello definitivo, prevede un dignitoso pareggio per i due concorrenti, Pdl e Pd.
Il partito di Berlusconi cede sulle preferenze, accettando che due terzi degli eletti siano scelti attraverso collegi uninominali. Come chiedeva il Pd. Mentre un terzo dei parlamentari (i fortunati) saranno eletti in liste bloccate su base proporzionale. Condizione, quest’ultima, che va bene a tutti.
IL PD CEDE SUL PREMIO DI MAGGIORANZA. Il Pd, a sua volta, cede sul premio di maggioranza. Che non andrà alla coalizione, come volevano i democratici, ma al partito, come chiedeva il Pdl e anche l’Udc. Dunque, ognuno correrà per suo conto. E il governo si deciderà dopo.
La base dell’intero sistema sarà proporzionale. Il premio di maggioranza sarà al 10%. E ci sarà una soglia di sbarramento al 5% (probabilmente con la clausola, in funzione leghista, che chi supera questo limite in almeno una Regione è salvo).
È quindi è fatta? Tra il dire e il fare c’è di mezzo agosto. E in politica un mese è un’eternità. Ma nei corridoi del Senato giurano che, se c’è la buona volontà, l’accordo è fatto. (Edda Guerrini)

Il testo Pdl: premio al 10% e preferenze

Presentata la proposta di riforma della legge elettorale in Senato.

Martedì, 31 Luglio 2012 - Dopo tanto duellare, flirtare, cercare l'inciucio politico o l’accordo con il Partito democratico, il Popolo della libertà ha scoperto le carte sulla riforma della legge elettorale: premio di governabilità al 10% alla lista che prende più voti sul piano nazionale e preferenze.
Sono queste alcune delle novità contenute nella proposta presentata dal partito di Berlusoni al Comitato ristretto della commissione Affari costituzionali del Senato.
FINO A TRE VOTI ESPRESSI. In particolare, per ciascuna lista circoscrizionale 2/3 dei candidati sono scelti con i voti di preferenza e la restante parte con lista bloccata.
Ogni elettore può esprimere fino a tre voti di preferenza.
Nel caso se ne esprimesse più di uno, la scelta deve comprendere candidati di entrambi i generi, pena la nullità dei voti di preferenza successivi al primo.
Nelle circoscrizioni in cui si attribuiscono complessivamente fino a cinque seggi, ogni elettore potrà esprimere una sola preferenza.
OGNI LISTA DUE ELENCHI. Ogni lista deve essere composta da due elenchi di candidati.
Nel primo ci sono quelli la cui elezione è determinata in base ai voti di preferenza e il numero di questi non può essere inferiore a due terzi.
Il secondo elenco è costituito invece da quei candidati la cui elezione è determinata in base all'ordine di presentazione e il loro numero non può essere superiore ad 1/3.
SBARRAMENTO AL 5, 10 E 8%. Nel documento del Pdl e presentato dal vicepresidente dei senatori Gaetano Quagliariello si prevede una soglia di sbarramento: il 5% a livello nazionale; il 10% in cinque circoscrizioni.
Per il Senato c'è una soglia di sbarramento dell'8% a livello regionale.

venerdì 27 luglio 2012

UE - La vera guerra Nord-Sud

I dossier su cui l'Europa è divisa.
di Giovanna Faggionato
Venerdì, 27 Luglio 2012 - Infrastrutture e industria tessile, etichette e dogane: nei corridoi di Bruxelles e Strasburgo, tra le poltrone del parlamento europeo o negli uffici dei lobbisti, si parla di economia reale. Quella fatta di fabbriche, sudore e lavoro, da cui il premier Mari Monti vorrebbe ripartire. Ma a guardare i dossier in mano agli europarlamentari delle commissioni Mercato interno e Commercio internazionale, si scopre che la guerra tra il Nord e il Sud d'Europa inizia proprio da qui. Dalla visione del mercato e dell'industria continentale, dagli interessi divergenti di chi ha delocalizzato la manifattura e di chi la difende a denti stretti.
TENSIONE TRA SUD E NORD. Il solco tra Europa del Nord e del Sud ha radici profonde quanto la nascita del mercato europeo. Dagli Anni 90, infatti, le uniche potenze manifatturiere del Nord, cioè Gran Bretagna e Germania hanno deciso di puntare sulla terziarizzazione. Con una visione precisa: l'idea che l'Europa fosse destinata ad abbandonare la produzione industriale per diventare un centro strategico di servizi e distribuzione. Su queste basi è stato costruito il mercato unico, ancora oggi il più libero del globo.
IL BILANCIO DELL'INDUSTRIA. In questo modo la costruzione europea è avvenuta in contrasto con gli interessi delle grandi economie manifatturiere del Sud, meno pronte a competere sul mercato globalizzato, con un alto contenuto artigianale e tendenzialmente bassi investimenti in innovazione.
Alla crisi ha contribuito anche la nascita della moneta unica che, fondata sul marco tedesco, ha impedito di fare leva sulla svalutazione per spingere le esportazioni. Intanto Londra scommetteva sulla finanza e la Germania delocalizzava intere fasi della filiera manifatturiera, concentrando gli investimenti sull'industria ad alto contenuto scientifico tecnologico, dalla meccanica alla chimica, fino alla farmaceutica.
L'INVERSIONE DEL TREND NEL 2005. Il risultato di questo processo è ben riassunto dai dati sulla produzione industriale elaborati da Banca d'Italia. Fino ai primi Anni 2000 il livello tedesco era sotto la media Ue, mentre Italia, Francia e Spagna veleggiavano sopra il valore medio. Poi nel 2005 il trend si è invertito. Allora la crisi del debito non era nemmeno all'orizzonte, ma il conflitto dell'economia reale era già in corso. E non è mai finito: con l'aiuto degli europarlamentari Lara Comi, Cristiana Muscardini, Gianluca Susta, e Patrizia Toia, Lettera43.it ha analizzato le quattro più importanti partite su cui ora si sta giocando lo scontro tra le due anime dell'Europa


1.Il regolamento del 'made in' per proteggere il mercato interno

Il regolamento del 'made in' è la madre di tutte le battaglie. Approvato dall'europarlamento nell'ottobre 2010, con una maggioranza di 525 voti a favore, impone semplicemente l'obbligo di etichettatura e l'indicazione di origine per le merci che entrano nel mercato dell'Ue.
Per gli Stati del Sud le nuove regole adeguano l'Europa ai sistemi in vigore negli Usa, in Giappone e in Cina: tutti mercati che prevedono una maggiore selezione per le merci straniere. E sono anche uno strumento per difendere i consumatori, accertare il rispetto delle norme igieniche e ambientali da parte di Paesi terzi e e individuare i responsabili di pratiche di concorrenza sleale.
L'OSTRUZIONISMO DEL CONSIGLIO. I governi del Nord Europa che non sono interessati a proteggere le produzioni manifatturiere, ma piuttosto - dicono le malelingue - a celare le delocalizzazioni nei Paesi emergenti, le considerano invece uno strumento che rende il mercato meno 'libero'.
Oppositori feroci del regolamento sono gli inglesi e i tedeschi. In contrapposizione al Nord, però, si è creato un nuovo asse tra le potenze manifatturiere del Sud e quelle dell'Est Europa: Spagna, Italia e Francia da una parte e Romania e Polonia dall'altra. Ma l'ostruzionismo del blocco settentrionale è altissimo e il regolamento attende ancora il voto del Consiglio Ue.

2. Il regolamento del settore tessile: il 50% del prodotto made in Ue


Entrato in vigore a maggio, il nuovo regolamento del tessile è stato fortemente voluto dai Paesi che hanno una manifattura ancora vicina all'artigianato in settori come l'abbigliamento, ma anche l'arredamento e l'alimentare (che attendono una regolamentazione simile).
Anche se solo a livello facoltativo, le nuove norme prevedono la tracciabilità di tutte le macro fasi di lavorazione: in questo caso filatura, tessitura, nobilitazione e confezionamento. E specificano che l'etichetta di made in Europe può essere applicata solo se due fasi su quattro avvengono all'interno dei confini dell'Ue.
LA RICERCA SUI CONSUMATORI. Il parlamento aveva chiesto di rendere la tracciabilità obbligatoria e allargarla alle merci di importazione.
Su questo punto, però, si è registrata un nuovo braccio di ferro. Contrari alla nuova etichetta sono i Paesi settentrionali - Danimarca, Olanda, Svezia, Germania -, con una cultura del mercato centrata sul consumatore e poca sensibilità alla manifattura. Favorevoli i Paesi dell'Europa sud orientale: Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Polonia.
Risultato: il parlamento ha dato il via libera, ma i negoziati si sono arenati ancora una volta a livello di Consiglio Ue.  
I governi hanno chiesto alla commissione Industria di realizzare una ricerca tra i consumatori per verificare la necessità di dare informazioni più accurate sull'orgine dei prodotti. Lo studio deve essere presentato entro il 30 settembre 2013 e il risultato non è scontato. «Nella cultura dei Paesi del Nord è il brand che deve fare da garanzia di qualità: l'idea della tracciabilità potrebbe essere bocciata», ha spiegato Comi.

3. Il codice degli appalti


Il codice degli appalti è forse il dossier più importante: si tratta della normativa che regola l'accesso alle gare d'appalto per le grandi opere e le infrastrutture. Una partita da miliardi di euro. La proposta per un nuovo pacchetto di regole è stata presentata congiuntamente dai commissari al Commercio, Karel De Gucht, e al Mercato interno, Michel Barnier e ora è in discussione al parlamento europeo.
Data la complessità del faldone, l'approdo in aula è atteso per i primi mesi del 2013. Ma lo scontro si annuncia duro.
IL SUD PER LA RECIPROCITÀ. I 'liberisti' Paesi dell'Europa del Nord sostengono, infatti, la completa apertura del settore. I Paesi dell'Europa del Sud, invece, si definiscono sostenitori del principio di reciprocità. Cioè della necessità di una corrispondenza tra i criteri di accesso alle gare in vigore nell'Ue e nei Paesi emergenti, dalla Cina alle nuove potenze sudamericane.
«Non stiamo lottando per il protezionismo», ha puntualizzato Susta, «ma perché anche gli altri mercati si aprano alle imprese europee».

4. Il codice delle dogane


Altro fascicolo cruciale che dovrebbe essere votato nel 2013 è il nuovo codice delle dogane. La normativa comprende temi sensibili come i controlli alle frontiere, l'imposizione di dazi e soprattutto la lotta alla contraffazione, di fondamentale importanza per il settore manifatturiero.
E anche in questo caso, è in atto uno scontro tra l'anima europea del Nord, più liberista, e quella del Sud che invoca l'applicazione di norme commerciali più rigide.

giovedì 26 luglio 2012

Casta senza vergogna: doppi stipendi ai politici italiani

La casta raddoppia. Stipendio doppio ai politici che vengono eletti nei consigli comunali, provinciali e regionali (e non solo) l’ingiustificabile privilegio di chi diventato politico, eletto in un qualche Ente, senza recarsi al lavoro ne percepisce ugualmente lo stipendio. Uno spreco di circa 2 miliardi di euro annui a danno dei cittadini.

In Italia c’è chi fa più di un lavoro per racimolare almeno uno stipendio e chi invece fa un solo lavoro e ottiene due stipendi! Sono i molti politici eletti fra i  consiglieri comunali, provinciali, regionali, circoscrizionali per uno scandalo di proporzioni tali da far impallidire i rimborsi elettorali ai partiti. Infatti se si è lavoratori dipendenti si può evitare di andare sul posto di lavoro senza perdere un euro della propria busta paga. Lo stipendio viene completamente rimborsato dal Comune al datore di lavoro, più tredicesima, quattordicesima, trattamento di fine rapporto e contributi previdenziali. Il politico può così sommare alla paga per la sua attività quella del proprio stipendio da dipendente e senza muovere un dito. Paga l’Ente pubblico, cioè paghiamo noi.

Le somme sono così imponenti, come dimostra il caso del Comune di Bologna sottoposto ad esame grazie al consigliere Lorenzo Tomassini, che se moltiplicate per tutti gli enti nazionali interessati incide sulla finanziaria di un Governo. Solo i rimborsi per i lavori che non svolgono in un anno costano al Comune di Bologna una cifra non inferiore ai 300 mila euro. Moltiplicate per 5 anni di mandato e (proporzionalmente al numero degli eletti) per 8100 Comuni, 110 Province, 20 Regioni e altri Enti tra cui le Comunità montane e viene fuori una cifra che fa tremare i polsi, non inferiore ai 2 miliardi di euro l’anno!

Si, avete capito bene. Stiamo dicendo che ogni politico che ha un lavoro dipendente una volta eletto in un Ente Pubblico continua a percepire anche lo stipendio del lavoro precedente che non svolge.

L’assenza è rimborsata solo se causata da motivi istituzionali, ma fra sedute in Aula e commissioni (in Comune, Provincia, Regione e Altri Enti) ogni giorno il politico è raro che possa timbrare il cartellino del primo lavoro. Lo stabilisce il Testo Unico degli Enti locali, legge N.267 del 2000, che permette a ogni eletto di essere rimborsato integralmente per il lavoro che “non svolge” presso il precedente datore di lavoro di cui continua ad essere dipendente. Costano addirittura tre volte coloro che sono dipendenti dello Stato, come gli insegnanti, che vengono pagati dal Ministero, ma è solo una variante formale al gioco perché paga sempre la collettività. La spesa per l’insegnante-politico infatti triplica: oltre la paga per l’attività da politico e lo stipendio del lavoro da insegnante (che non svolge) c’è anche il costo del supplente che lo Stato assume per sostituirlo.

Se guardiamo ad esempio a Bologna da cui parte la nostra inchiesta grazie al consigliere comunale Lorenzo Tomassini, che si sta battendo contro questa vergogna, il Comune di Bologna impegna per i costi nel 2011 la cifra di 1milione 275mila euro per i lavoratori eletti nei consigli comunali e circoscrizionali, per rimborsarli del loro lavoro da dipendenti di aziende 300mila euro circa. E troviamo consiglieri comunali dipendenti di partiti (il Pd ad esempio) che per ogni mese hanno il loro rimborso, come l’attuale europarlamentare Salvatore Caronna, dal 2004-2009 consigliere comunale e prima consigliere provinciale o il suo “figlioccio” Marco Lombardelli (ex capo di Gabinetto dimissionario del Sindaco Merola) o da fondazioni (la Fondazione Gramsci) come nel caso di Siriana Suprani, moglie del presidente Unipol Pierluigi Stefanini, o la Lega Autonomie Emilia Romagna che rimborsa 3932 euro di Tfr del 2008 all’attuale Sindaco Virginio Merola (per quando era assessore).

Poi ci sono gli insegnanti che rappresentano le spese più elevate come il capogruppo Pd Sergio Lo Giudice, Mirco Pieralisi di Sel e la neo eletta dirigente scolastica Daniela Turci (Pd). Ma anche Pasquale Caviano di Idv, medico radiologo dell’Ospedale Maggiore o Patrizio Gattuso del Pdl e funzionario FS, che non costano poco. A cui aggiungere il sindacalista Cgil Gianguido Naldi che ora è consigliere regionale Sel ma che quando era consigliere comunale Ds prendeva un rimborso tramite il suo vecchio datore di lavoro (la G.D. Spa) così come adesso, attraverso l’impresa presso per cui lavora, il grillino del Movimento 5 Stelle Marco Piazza. Lo stesso è accaduto per l’ex consigliere dell’IDV Serafino D’Onofrio che si è visto rimborsare la cospicua cifra di 73799 euro, per meno di 2 anni di lavoro anche se non svolto. Ma questi sono solo alcuni esempi delle migliaia di rimborsi che vengono erogati dal 2000.

Quello che non si capisce è perché la collettività debba garantire lo stipendio per il lavoro che i politici non svolgono presso le imprese dove sono assunti. La spesa per le casse pubbliche così è diventata davvero imponente, altro che tagli per la crisi! Diversamente la cosa non vale per i consiglieri che sono lavoratori autonomi perché non percepiscono alcun rimborso per la loro attività professionale persa. A differenza dei primi, possono conciliare con difficoltà i due lavori a causa degli orari delle commissioni nell’ente pubblico dove sono stati eletti. Come fa notare Tomassini, “guarda caso le commissioni sono spalmate su tutti i giorni della settimana così che i consiglieri-dipendenti non possono quasi mai recarsi in ufficio”. Si perché le commissioni ci sono praticamente sempre e la maggioranza di coloro che fanno politica sono impegnati quasi ogni giorno.

C’è poi, come ammettono altre testimonianze di “Palazzo”, chi firma ed esce dalle commissioni e prende due stipendi senza essere in nessuno dei due posti di lavoro. E quando qualche collega cerca di accorpare le commissioni per ottimizzare il lavoro si sente rispondere: “Ué! Ma siete pazzi! Così mi tocca di andare a lavorare!”

E’ proprio vero, più che cercare un lavoro, in Italia, è conveniente diventare politico. Gli Enti pubblici sono galline dalle uova d'oro grazie a leggi come questa che obbligano la collettività a pagare lauti stipendi per attività mai svolte. Soldi che potrebbero essere impegnati per investimenti, servizi, creare lavoro e aiutare chi non ha garanzie. Anche il Ministro Dino Giarda che deve rivedere la spesa pubblica ha dichiarato che gli sprechi in Italia sono enormi: “Tutto il settore pubblico, dallo Stato fino all’ultimo dei Comuni". In questo caso uno sperpero di proporzioni incredibili. In un’Italia con cittadini che si suicidano per i debiti, il doppio stipendio per la casta è un privilegio ingiustificabile. (…)

Antonio Amorosi

Mi dica, in coscienza, lei può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli ed educarli? Questo non è un uomo libero. Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è libertà. La libertà senza giustizia sociale è una conquista vana.(Sandro Pertini)

ITALIA - Rinvio a giudizio per il governatore dell’Emilia Romagna, Errani

Soldi alla coop del fratello: 1 mln di euro
Giovedì, 26 Luglio 2012 - Avrebbe dato 1 milione di euro al fratello Giovanni per la costruzione di una nuova struttura vinicola a Imola.
Per questo motivo al presidente della Regione Emilia-Romagna Vasco Errani, è arrivata giovedì 26 luglio dalla procura di Bologna la richiesta di rimvio a giudizio per falso ideologico.
Secondo gli inquirenti a Terremerse, cooperativa di Bagnacavallo (Ravenna) i lavori non furono terminati nei tempi previsti, condizione necessaria per l'ok al finanziamento.
CONCORSO CON DUE DIRIGENTI. Secondo la procura di Bologna Errani, in concorso con due dirigenti (Valtiero Mazzotti, direttore generale dell'Agricoltura della Regione e Filomena Terzini, direttore degli Affari generali di viale Aldo Moro), avrebbe occultato informazioni per favorire così il fratello.
Duro il commento del lagale Alessandro Gamberini: «La procura ha compiuto un grave errore». La richiesta di rinvio a giudizio «in assenza di elementi che ne giustifichino il fondamento desta sorpresa e sconcerto».

Inchiesta nata nel 2009 dopo un articolo de Il Giornale

Brutto periodo per i governatori: dopo quello della Puglia Nichi Vendola  e della Lombardia roberto Formigoni, nel mirino della magistratura è cascato anche quello dell'Emilia-Romagna.
Errani ha scoperto di essere indagato lo scorso 16 marzo, a conclusione delle indagini su Terremerse.
A seguito di un articolo pubblicato da Il Giornale nel 2009, in cui si metteva in dubbio la liceità del finanziamento alla cooperativa guidata allora dal fratello Giovanni già governatore dell'Emilia-Romagna.
NOVE INDAGATI. La guardia di finanza aveva confiscato nei mesi scorsi beni per 1 milione di euro.
Nel complesso erano nove gli indagati e giovedì 26 luglio assieme a Errani è stato richiesto il rinvio a giudizio pure per il progettista e il direttore dei lavori della cantina, in concorso con Giovanni, per gli attuali responsabili della società e per un collaboratore dell'ufficio aiuti alle imprese della regione.
M5S: «SI DIMETTA». Il consigliere regionale del Movimento cinque stelle Giovanni Favia ha dichiarato che se Vasco Errani sarà rinviato a giudizio dovrà dimettersi: «Dovrebbe farlo a tutela del lavoro che sta svolgendo come commissario straordinario» per l'emergenza terremoto. Un incarico, ha proseguito l'esponente grillino, «per il quale è necessaria tutta la forza, l'impegno e la serenità che, se coinvolto in un processo, rischia di non poter dare».

ITALIA – Riforme:”Provincellum” spacca partiti

Pd e Pdl divisi sul premio maggioranza
Mercoledì, 25 Luglio 2012 - Dietro la scena delle schermaglie verbali e della tattica, va avanti la trattativa tra i partiti per la riforma della legge elettorale.
E il modello, su cui si ragiona, è il cosiddetto provincellum che prevede collegi proporzionali e un premio di maggioranza.
Un modello che non ha soddisfatto tutti i partiti, compreso il Pdl ma attorno al quale si starebbe cominciando a ragionare.
VERSO ELEZIONI ANTICIPATE. Un'accelerazione fortemente chiesta dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che fa crescere in parlamento l'impressione che qualcosa si stia muovendo: anche se l'ipotesi di elezioni anticipate non ha preso consistenza rimane comunque sullo sfondo.
Anche se, come ha detto il presidente del Copasir Massimo D'Alema, «nel momento in cui si fa la riforma, la data del voto si può decidere facilmente».
VERTICE BERSANI, CASINI E FINI. È soprattutto il Pd a spingere per cambiare il Porcellum, arrivando a un primo via libera in commissione entro inizio agosto.
Un timing che mercoledì 25 luglio ha visto pienamente d'accordo il segretario Pier Luigi Bersani, il presidente della Camera Gianfranco Fini e il leader Udc Pier Ferdinando Casini in un'asse che per alcuni sembra preludere ad alleanze future.
I tre si sono visti, per circa tre quarti d'ora, nello studio del presidente della Camera e hanno concordato sulla necessità di cambiare il Porcellum.
Obiettivo sul quale ha concordato anche il Pdl anche se non tutti i punti dell'accordo sono ancora chiariti.

Il nodo resta il premio di maggioranza


Anche se il segretario del Pdl Angelino Alfano ha rilanciato le preferenze, in realtà, hanno spiegato fonti parlamentari, ci sarebbe già un'intesa di massima sui collegi piccoli mentre il nodo è rimasto ancora il premio di maggioranza.
Bersani ha chiesto «un premio di governabilità al primo che arriva», alla lista o alla coalizione, mentre Alfano ha insistito sul premio al partito perché «l'attuale premio di maggioranza crea coalizioni idonee a vincere ma non a governare».
Il punto di caduta potrebbe essere un premio di circa il 15% al partito ma al momento le distanze restano e anche mercoledì 25 il comitato ristretto, riunito al Senato, si è aggiornato con un nulla di fatto.
SCONTRO TRA PD E PDL. In attesa di svolte, però, Bersani e Alfano non hanno rinunciato a punzecchiarsi in un gioco del cerino nel caso in cui, alla fine, l'accordo non si trovasse. «Sono iiritato, anche oggi il Pdl ha fatto il suo uovo di giornata», ha reagito un po' stupito, il leader Pd quando il segretario Pdl è tornato a proporre le preferenze. «Bersani non sia ‘testa dura’», ha controbattutto a distanza Alfano.
Ma la prova che i partiti sono determinati a girare pagina sul sistema di voto è data dal fatto che sia Bersani sia Casini hanno annunciato la volontà nell'incontro con il presidente del Consiglio Mario Monti a Palazzo Chigi.
SOSTEGNO A MONTI. Entrambi hanno ribadito al Prof la lealtà e il sostegno ma l'accenno alla riforma elettorale ha lasciato intendere che la politica si prepara anche a scenari elettorali. «Il problema», ha sostenuto Bersani «non è Monti ma la maggioranza parlamentare. All'Italia manca un indirizzo univoco». E se il Pd sembra sempre più convinto che bisogna tornare a un governo politico con maggioranze coese, anche il Pdl ragiona su scenari futuri, non escludendo neanche le larghe intese.

mercoledì 25 luglio 2012

Antisemiti di sinistra

Compulsiva duplicità, doppio standard, intolleranza e negazionismo formano un meccanismo ideologico ed emotivo in gran parte da esplorare.
E’ l’antisemitismo di sinistra.

L’odio antiebraico viene da sempre associato alle destre del primo Novecento. Ma dalla guerra del 1967 in avanti, l’antisemitismo ha trovata casa a sinistra.

Si tratta di una ubriacatura intellettuale e un delirio in cui si pasce la cultura ultra liberal. Una specie di furore unidirezionale, un’ossessione maniacale.

La sinistra europea ha fatto d’Israele il ricettacolo di ogni male, la centrale del peccato, la sentina di ogni perversione. Il trasformare l’ebreo nel malvagio “sionista” non lo sottrae alla perversione morale di un marchio infamante, anzi carica tutta la vicenda ebraica di quello stesso marchio infamante.

Al fine, si passa dall’attacco all’ebreo individuale del XX secolo alla guerra contro l’ebreo collettivo, lo stato-pariah del XXI secolo.

Quest’odio si rintraccia negli stereotipi antiebraici coltivati dal marxismo e dal pensiero europeo socialista.

Uno dei primi scritti antisemiti di questa corrente, “Gli ebrei, re dell’epoca” (1845), fu dovuto alla penna di Alphonse de Toussenel, allievo del socialista utopista Charles Fourier, in cui descriveva gli ebrei come dominatori del mondo grazie al controllo del capitale finanziario e li accusava di essere nemici del popolo.

Ancor più antisemita fu Pierre-Joseph Proudhon – uno dei padri del socialismo moderno – che considerava gli ebrei come nemici della razza umana, da “rimandare in Asia o sterminare”.

Si arriva a Edouard Drumont, autore di un violento libello, “La Francia ebraica” (1886), in cui associava massoni e protestanti agli ebrei.

Nasce così, a sinistra, l’identificazione dell’ebreo con il capitalismo finanziario (è “La questione ebraica” di Karl Marx). La svolta avvenne tra il 1952 e il 1953, con la messa in scena, prima a Praga e poi a Mosca, dei processi farsa alla “banda Slansky” e a un gruppo di medici accusati ingiustamente di aver avvelenato importanti dirigenti sovietici.

Poi arrivò la risoluzione Onu sul “sionismo razzista” del 1972, voluta dall’Unione sovietica in combutta con i regimi arabi.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, la sinistra post socialista costruisce una “palestinologia”, una ideologia che fa di Israele il simbolo dell’occidente usurpatore, bianco, arrogante e colonialista, da contrapporre ai popoli arabi “nativi”, anticapitalisti.

Alla fine “il rifiuto ha vinto sul riconoscimento”.

ITALIA - Pd, una Bindi da rottamare

Chi dice no alla sua ricandidatura
Mercoledì, 25 Luglio 2012 - Vita dura per gli aspiranti alla deroga. Si dà il caso, infatti, che i tanti parlamentari del Pd che devono chiedere la famosa deroga, avendo superato il limite previsto dallo statuto delle tre legislature per potersi ricandidare, incominciano a temere che stavolta non sarà così facile. A seminare il panico tra gli onorevoli dai plurimandati è la crociata, trasversale e sempre più nutrita, che è partita contro Rosy Bindi, una che di legislature se n’è fatte ben sei.
L'AFFONDO DI MATTEO RENZI. Il primo a lanciare la campagna era stato Matteo Renzi, primo rottamatore e inventore della categoria. «Se ha avuto il tempo per rileggere lo statuto del Pd», diceva un anno fa a proposito di Bindi, «non può non aver visto che c’è una norma che impedisce di candidarsi per più di tre legislature. Lei è alla sesta».
Ma quello che, fino a pochi mesi nel Pd, sembrava l’attacco solitario di un giovane audace e ambizioso ora comincia a fare scuola. E a chiedere la “testa”, politicamente parlando, di uno dei massimi dirigenti del Pd, persino presidente dell’assemblea del partito, cominciano a essere in tanti. E in tutte le correnti.
LA RICHIESTA DEL PRODIANO GOZI. Proprio alcuni giorni fa ha posto lo stesso problema Sandro Gozi, che non è certo un renziano, ma piuttosto un prodiano. Quindi, teoricamente, vicino a Bindi. Eppure Gozi non l’ha risparmiata. Prima con tweet, dove la accusava di essere «lo specchio di una classe dirigente al tramonto senza idee e che vuole solo sopravvivere».
Poi con un’intervista alla Stampa, dove indicava la pasionaria del Pd come espressione dell’«arroganza della vecchia guardia nel ritenersi indispensabile».
Bindi e quelli della sua generazione, diceva, hanno fatto «una valanga di errori, ci hanno esposti a una sconfitta dietro l’altra». E con tutto questo dovremmo ricandidarla? No grazie.

Una regola che non ammette eccezioni


Negli stessi giorni un altro attacco alla presidente del Pd arrivava niente meno che da un promettente giovane bersaniano: Matteo Ricci, sindaco di Pesaro. Bindi è convinta di ottenere la deroga per l’ennesima candidatura? «Zero deroghe e primarie per i parlamentari se non ci sarà legge elettorale che fa scegliere i cittadini. Vedremo quando è ora chi è per il rinnovamento», le rispondeva Ricci su Facebook. Perché «15 anni in Parlamento bastano e si può fare politica anche fuori, altrimenti i vertici non si rinnovano mai».
DA INTOCCABILE A TRABALLANTE. E così un pezzo da novanta come Bindi, fino a pochi mesi fa considerata intoccabile, comincia a traballare. Ma, è il ragionamento che si sente fare a Montecitorio, se crolla lei, crolleranno a catena molti altri. Se non si concede la deroga a Bindi, perché bisognerebbe concederla a Walter Veltroni, già alla sesta legislatura, o a Massimo D’Alema, addirittura alla settima? O a Beppe Fioroni, che è alla quarta? E l’elenco potrebbe continuare perché sono circa una settantina quelli che dovranno chiedere l’eccezione allo statuto. Insomma, violato un tabù, le conseguenze sono imprevedibili. E toccheranno tutti quelli che si trovano nelle stesse condizioni. Specie se la battaglia diventerà, come sembra, trasversale alle correnti e sempre più nutrita.

STATI UNITI - Elezioni Usa, Obama in vantaggio su Romney

Sondaggio: il presidente ha raccolto il 49% delle preferenze.
Mercoledì, 25 Luglio 2012 - Barack Obama è in vantaggio su Mitt Romney in vista delle elezioni Usa di novembre. Secondo un sondaggio del Wall Street Journal-Nbc, il presidente ha raccolto il 49% delle preferenze contro il 43% del candidato repubblicano.
CRISI, AMERICANI NERVOSI. Dal sondaggio è emerso un crescente nervosismo fra gli elettori americani sul rallentamento dell'economia e del mercato del lavoro: la metà degli interpellati si è detto pessimista sulla direzione presa dall'economia a fronte di un 27% che ritiene migliorerà nel prossimo anno.

Eurozona - Ormai il bailout della Spagna è inevitabile

La Spagna ha un’economia al collasso, un mercato immobiliare in via di implosione, banche che alimentano perdite colossali e un rendimento dei bond decennali del 7,5 per cento. È giunta l’ora di smettere di far finta che non ci sarà un salvataggio in extremis, scrive il direttore delle pagine economiche del Guardian.
Larry Elliott 24 luglio 2012 THE GUARDIAN Londra

Per fare politica in Europa tutto sta a intervenire tempestivamente. Le maestose idee volte a salvare la valuta unica richiedono anni, non mesi, prima di dare risultati, mentre l’incubo della rovina è istantaneo.

Di conseguenza, la mentalità del breve termine ha a che vedere soltanto con la sopravvivenza: si pensi alla squadra di football che schiera la difesa in modo tale da mantenere un risultato finale di zero a zero, o ai battitori il cui unico scopo è occupare la linea bianca quando la loro squadra sta per subire una sconfitta agli inning proprio l’ultimo giorno del Test match.

La settimana scorsa, almeno per un po’, si è palesata concretamente la prospettiva che lo sforzo dell’Europa di mettersi con le spalle al muro fosse andato a buon fine. Il summit di un mese fa ha avuto più sostanza dei precedenti vertici inconcludenti, e l’incontro dei mercati finanziari europei della settimana scorsa ha riflesso la convinzione che tutto sommato fosse stato fatto abbastanza per mantenere le cose tranquille fino a tutto il mese di agosto. Questo, però, fino al momento in cui la regione di Valencia non ha annunciato di avere assolutamente bisogno dell’aiuto finanziario di Madrid, fornendo così l’innesco per una grande messa in liquidazione nei mercati che si è protratta fino a lunedì.

Il governo spagnolo ha reagito giurando per un momento che non esisteva neppure una remota possibilità di chiedere un intervento di soccorso che coinvolgesse il Fondo monetario internazionale, e poi imponendo la messa al bando della vendita allo scoperto delle azioni. I mercati sono rimasti poco impressionati da questa palese dimostrazione di inettitudine.

Nel frattempo, la Grecia è tornata ancora una volta sotto i riflettori mentre Atene aspettava per martedì l’arrivo degli inviati della troika (Fmi, Banca centrale europea e Unione europea). La Grecia è azzoppata da una depressione in stile anni Trenta e – come forse non stupisce più di tanto – sta incontrando notevoli difficoltà ad adeguarsi al programma di austerity imposto nell’ambito del bailout che la riguarda. Pare che la troika sia pronta a minacciare di togliere il salvagente finanziario lanciato ad Atene a meno che il governo di coalizione non approvi tagli per altri due miliardi di euro.

Da questi avvenimenti si dovrebbero dedurre tre cose. La prima è che la Spagna si sta dirigendo inesorabilmente verso un bailout, che avverrà quasi certamente molto presto. Immaginare che il promesso pacchetto di cento miliardi di euro a sostegno delle banche spagnole fosse sufficiente è sempre stato soltanto un esercizio di fumo negli occhi e di specchietti per le allodole, e così si è dimostrato.

La Spagna è un paese con un’economia al collasso, un mercato immobiliare in via di implosione, banche che alimentano perdite colossali e un rendimento dei bond decennali del 7,5 per cento. La questione, quindi, non è sapere se ci sarà un bailout, ma quanto sarà grande. Con ogni probabilità, almeno 300 miliardi di euro.

Le orme greche

La seconda conclusione alla quale si perviene è che la botola si sta spalancando sotto i piedi della Grecia. La pazienza della Germania nei confronti di Atene si è esaurita e l’Fmi è stato costretto lunedì a smentire di essere in procinto di tagliare gli aiuti finanziari. Il governo greco adesso dovrà scegliere se acconsentire a un nuovo round di drastiche misure di austerity, che saranno controproducenti e allo stesso tempo tossiche dal punto di vista politico, se vuole essere in grado di pagare i propri conti restando dentro la zona euro, oppure se optare per la svalutazione e un default fuori dall’unione monetaria. Per Angela Merkel un’uscita volontaria della Grecia dalla zona euro sarebbe l’ideale.

A collegare Grecia e Spagna c’è il fatto che l’approccio fallito che ha portato il più piccolo dei due paesi al punto di non ritorno adesso sta per essere messo alla prova con un paese della zona euro molto più grande e più importante da un punto di vista strategico.

La lezione appresa dal caso della Grecia è assolutamente chiara: quando un’economia è in caduta libera, tagliare la spesa e aumentare le tasse porta a livelli di indebitamento di gran lunga maggiori, non inferiori. La Spagna sta ricalcando le orme della Grecia lungo questa china a spirale che inizia con una crescita debole e una disoccupazione in aumento e si conclude con ingenti bailout che fanno più male che bene.

Per capire come sarà la Spagna nell’agosto 2012 è sufficiente guardare alla Grecia dell’agosto 2011. Stessi problemi. Stesse risposte mancate. Stessa crisi. Solo di gran lunga peggiore.

Traduzione di Anna Bissanti

Opinione

Un’aria di déjà-vu


“La Spagna scatena un vento di panico sui mercati”, titola Les Echos. Secondo il quotidiano, l’incubo di una nuova tempesta in borsa “sta per diventare realtà”. Un “improvviso remake del 2011”, che si sarebbe potuto evitare.

Sarebbe bastato che si fossero concretizzate tutte le misure decise durante il vertice europeo di fine giugno, i cui lavori sono stati celebrati unanimemente. Ma i leader si sono lasciati intrappolare dal torpore estivo. Come il saggi di Karlsruhe, che hanno rinviato a settembre l’approvazione del Meccanismo europeo di stabilità. Risultato: non sono state realizzate le barriere di sicurezza che avrebbero dovuto proteggere Italia e Spagna da un rialzo eccessivo dei loro tassi di finanziamento mentre i due governi cercano di risanare la loro economia.

“Il momento in cui l’Ue non avrà più molta scelta si avvicina a grande velocità”, scrive l’editorialista François Vidal:

Per evitare il contagio a tutta l’eurozona l’Unione dovrà correre in aiuto di Madrid e Roma, volente o nolente. Per il momento può ancora farlo in modo volontario e limitato, riprendendo il programma di acquisto dei titoli di debito da parte della Bce, che porterà un sollievo temporaneo ma nondimeno necessario.

Euromiti (2/10) - Lobby: la legge dei più numerosi

I gruppi di pressione sono una vera e propria schiera intorno alle istituzioni dell’Ue. Qual è il loro ruolo? Vincono sempre? Groene Amsterdammer si dedica ad analizzare i rapporti di forza. La seconda parte dell’inchiesta sui miti europei.
Reinier Bijman & Yasha Lange 23 luglio 2012 DE GROENE AMSTERDAMMER Amsterdam

La questione non è tanto sapere se Bruxelles ospita numerosi lobbisti, perché – molto semplicemente – già sappiamo che è così. La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che a Bruxelles siano al lavoro dai 15mila ai 20mila lobbisti. Un bel numero davvero.

Eppure si sente spesso la stessa reazione: all’Aja (sede del governo olandese) ce ne sono altrettanti, solo che restano nell’ombra, sono meno visibili. A Bruxelles, invece, si danno un gran da fare senza nemmeno nascondersi. Lobbisti e gruppi di interesse sono invitati a partecipare alle discussioni sulle leggi in una fase precoce in qualità di esperti. I disegni di legge, quindi, sono resi noti in tempi brevi e sottomessi all’approvazione di tutti. Tale iter ha di che far preoccupare, ma presenta anche alcuni vantaggi.

La Commissione europea non può essere allo stesso tempo una piccola struttura efficace e fare ogni cosa da sé. In altri termini, conoscere il settore e i convenuti esterni è indispensabile. Senza contare che la Commissione europea si garantisce così un solido appoggio, una chiamata generale alle armi. La partecipazione dei diversi gruppi di interesse è dunque positiva. Così la pensano i suoi sostenitori.

Ci si può tuttavia chiedere se le regole del gioco sono uguali per tutti e se questi gruppi diversi sono nella posizione di godere di un medesimo trattamento: una piccola organizzazione senza risorse può esercitare la medesima influenza di un’industria importante con molti mezzi? Assolutamente no, secondo i detrattori delle lobby. “Otto volte su dieci ha la meglio chi ha più fortuna” afferma Erik Wesselius, dell’Osservatorio europeo delle imprese. “Esistono moltissimi esempi di rapporti che a forza di essere emendati non valgono più niente e ai quali gli autori finiscono col rinunciare”. Tra gli esempi riportati, Wesselius cita una proposta di legge per etichettare i prodotti alimentari con simboli: verde per quelli che fanno bene alla salute, rosso per quelli nocivi. Pur trattandosi di una idea facile e chiara per i consumatori, non è stata approvata. “E soltanto a causa della forte resistenza dell’industria agro-alimentare”, spiega Erik Wesselius.

In alcuni settori l’assenza di equilibrio è palese. “Citigroup ha 40 persone dislocate a Bruxelles”, fa notare l’ex lobbista Pim van Ballekom, mentre il settore della finanza conta pochissimi “agenti” per fare da contrappeso. Altrettanto avviene nell’ambito della grande distribuzione, della logistica o nel settore agro-alimentare: i rapporti di forza sono sbilanciati. Invece, in altri campi come l’ambiente e i diritti dell’uomo, le ong sono rappresentate molto bene. Quanto a internet, i piccoli gruppi di attivisti sono molto efficaci, lo si è potuto constatare di recente con il trattato contro la pirateria [Acta], quando le grandi industrie (cinema e musica) si sono ritrovate a mordere la polvere.

Euromiti (1/10): Il deficit democratico, minore di quanto si creda

Burocratica, spendacciona, sottomessa alle lobbies, l’Ue è al centro di numerose critiche che non vengono solo dagli euroscettici. Alcune di esse sono giustificate, altre meno. Il settimanale olandese Groene Amsterdammmer ha voluto studiare a fondo la questione analizzando dieci “miti”. Il primo è il deficit democratico.
Reinier Bijman & Yasha Lange 23 luglio 2012 DE GROENE AMSTERDAMMER Amsterdam

Il famigerato “deficit democratico” europeo: un Parlamento europeo debole senza legittimità, un consiglio dei ministri che manca di trasparenza e che non deve rendere conto delle sue decisioni, dei commissari europei nominati che non possono essere sostituiti se non si dimostrano all’altezza.

Per gli euroscettici sono tutti argomenti sufficienti per opporsi all’Unione; gli europeisti ribattono invece che si tratta di altrettante ragioni per andare in direzione di una maggiore integrazione. Ma si può parlare veramente di deficit democratico? E in caso positivo, quale sarebbe la portata di questo deficit?

La democrazia europea può essere definita indiretta, non corrisponde alle nostre abitudini, è “diversa”. Ma questo non vuol dire che è peggiore o meno democratica. “Certo l’Ue in quanto entità non forma uno stato unico, dotato di un parlamento unico che controlla un governo unico. Si tratta di un gioco di squadra in cui intervengono 27 democrazie nazionali e un frammento di democrazia europea”, scrive Luuk van Middelaar, autore del libro Il passaggio all’Europa e membro del gabinetto di Herman van Rompuy, il presidente dell’Ue.

Questa situazione provoca numerose critiche. Il Parlamento europeo ha sempre più poteri e decide su quasi tutte le leggi, eppure non funziona come un’assemblea nazionale in grado di sanzionare il lavoro dei ministri. Così come la Commissione europea non è un governo ma un insieme apolitico di tecnocrati diretto da commissari nominati. Ma vogliamo veramente un altro sistema? Siamo pronti a un governo europeo? La risposta è no. L’Ue continua quindi a essere diretta in modo indiretto. Il consiglio dei ministri, dove sono prese le principali decisioni, deve rendere conto ai parlamenti nazionali; non è direttamente responsabile a livello europeo ma dipende da un controllo nazionale che, quanto meno in teoria, ha delle basi solide.

Questo sistema suscita ovviamente delle obiezioni. Il parlamento eletto deve trovare un compromesso con un consiglio dei ministri i cui membri provengono da 27 paesi, di conseguenza ogni decisione è un processo lungo e fastidioso. “Di fatto le decisioni non vengono prese ma accadono”, osserva Sebastiaan Princen, professore di amministrazione europea. Questo rende il controllo più difficile. In questo modo l’influenza degli elettori è molto diminuita. Il legame fra il risultato delle elezioni nazionali e le decisioni prese a Bruxelles era finora quasi inesistente; e comincia a funzionare solo adesso che l’Europa è diventata ovunque un argomento di campagna elettorale.

In ultima analisi non sono le vecchie obiezioni che hanno alimentato il mito del deficit democratico in Europa. La debolezza del Parlamento europeo e la mancanza di trasparenza sono dei problemi ai quali si è in gran parte trovato un rimedio. “Oggi il vero deficit democratico si concentra a livello dei parlamenti nazionali”, sottolinea Rinus van Schendelen, professore di scienze politiche. “Queste istituzioni sono rimaste in ritardo nel processo di europeizzazione”. In altre parole, il deficit democratico si ridurrebbe se i parlamenti nazionali esercitassero correttamente la loro funzione di controllo.

Traduzione di Andrea De Ritis

ITALIA - Dieci domande a Sergio Marchionne (che i potentati non gli faranno mai)

Non sono domande pruriginose né provocatorie, non toccano la vita privata di nessuno, non rispondono a un pur legittimo interesse di cronaca. Sono gli interrogativi che lo Stato italiano avrebbe il dovere di fare e per le quali dovrebbe reclamare una risposta, non come gesto di graziosa cortesia ma come atto dovuto.
Da anni, infatti, Marchionne prende metodicamente in giro l’Italia e in particolare i lavoratori impiegati nelle sue aziende. Moltiplica i dividendi degli azionisti a spese dello Stato italiano. Adopera una inesistente, offensiva e calunniosa “improduttività” degli operai italiani come alibi per i suoi insuccessi sul mercato. Ottiene aiuti dall’Italia promettendo investimenti fantasma mentre investe sul serio non in Italia ma nei Paesi in cui può contare su larghissime sovvenzioni di Stato. Si prepara a lasciare questo Paese nell’inerzia totale e colpevole delle istituzioni. Chiude uno stabilimento via l’altro senza assolvere ai propri doveri nei confronti dei lavoratori che condanna alla disoccupazione. Considera l’azienda che dirige al di sopra delle leggi e si avvale del più bieco inganno per non pagare le tasse: la cittadinanza svizzera. Queste domande, che interessano l’economia del Paese e riguardano la perdita di uno dei nostri principali asset italiani, dovrebbe farle prima di tutti Mario Monti. Invece si è dimostrato ancora più servile di Berlusconi: tutto quello che è riuscito a balbettare è che la Fiat ha il diritto di fare ciò che vuole.

Invece dovrebbe chiedere, prima di tutto: 1. Dove sono finiti i 20 miliardi promessi 3 anni fa per gli investimenti in Italia? E 2. Quanti soldi lo Stato italiano ha versato alla Fiat dal 2008 tra incentivi, formazione, cassa integrazione e mobilità? Non sono domande indiscrete. In cambio degli investimenti promessi la Fiat ha ricevuto dall’Italia sovvenzionamenti cospicui. Peccato che, una volta intascato il malloppo, dei 20 miliardi di quegli investimenti Marchionne abbia smesso anche solo di parlare e a chi gliene chiede conto risponde che non può rispondere. Senza che nessuno osi insistere.

Per gli stessi motivi, il governo della Repubblica dovrebbe anche pretendere riposte su: 3. Quanti soldi le banche italiane, con le spalle coperte dallo Stato, hanno prestato agli azionisti Fiat? Il governo e in particolare la brillante ministra del Lavoro Elsa Fornero dovrebbero quindi imporre delucidazioni su alcune questioni che rischiano travolgere le vite dei dipendenti della Fiat, e non solo loro. L’impatto sull’indotto e quindi sull’intero territorio delle chiusura di quegli stabilimenti andrebbe infatti molto oltre la dimensione, già drammatica, dei dipendenti Fiat: per ogni posto di lavoro perso nelle fabbriche della Fiat ne verrebbero cancellati altri 3 in quella stessa area. A maggior ragione sarebbe fondamentale sapere subito: 4. Qual è l’alternativa industriale alla chiusura di Termini Imerese? 5. Qual è l’alternativa industriale alla chiusura di Irisbus di Avellino? 6. Qual è il nuovo stabilimento italiano che Fiat vuol chiudere?

Prima di chiudere gli stabilimenti, Marchionne avrebbe dovuto infatti prefigurare un’alternativa industriale. Non lo ha fatto oppure, come nel caso di Termini Imerese, lo ha fatto per finta, fingendo di aver individuato un’alternativa solo per aggirare i propri obblighi. Allo stesso tempo, l’ad del Lingotto si sta preparando a chiudere un altro stabilimento: vorremmo sapere con trasparenza e onestà quali sono i sono i suoi progetti, dal momento che ne andranno di mezzo migliaia di lavoratori. Ancora una volta, per giustificare la chiusura e la delocalizzazione, Marchionne tenterà di addossare le colpe ai lavoratori italiani che lavorerebbero poco e guadagnerebbero molto. Sarà bene specificare che la realtà è opposta. Se si guarda al solo indicatore valido, la velocità con i pezzi scorrono sulla catena di montaggio, si scopre che gli operai italiani sono tra i più produttivi al mondo. Quanto ai guadagni, tenendo conto dei frequenti ricorsi alla cassa integrazione, incassano in media mille euro al mese: molto meno che nel resto dell’Europa. La verità è che Marchionne preferisce trasferire gli stabilimenti nei Paesi dell’est perché lì può contare su massicce sovvenzioni di Stato, naturalmente facendosi finanziare il trasferimento dal cornuto e mazziato Stato italiano. La verità, purtroppo, è anche che la Fiat ha da lungo tempo abbandonato ogni ambizione di costruire auto innovative, ben disegnate, adeguare alla compatibilità ambientale: automobili che si possano vendere.

Per questo vorremmo sapere: 7. Quali investimenti sono stati fatti in Polonia, Serbia, Russia e con quali aiuti di Stato? 8. Quali modelli alternativi sono previsti per gli stabilimenti italiani e dove sono allocati? Infine siccome, da liberali, siamo abituati a pensare che la legge debba essere uguale per tutti e che pagare le tasse non possa essere un obbligo solo dei poveracci e dei lavoratori dipendenti, riteniamo necessario anche sapere: 9. Perché Fiat non applica le sentenze della magistratura favorevoli ai lavoratori dei tribunali di Roma, Bolzano, Torino, Bologna Napoli, Bari, Termoli, Lanciano, Verona, Modena, Milano, Trento? 10. Perché Marchionne non paga le tasse in Italia?

Restiamo in attesa di cortese riscontro, se non da parte di Marchionne che ha tutto l’interesse a restarsene zitto e muto, almeno da parte del governo italiano che, al contrario, avrebbe non solo il dovere ma anche tutto l’interesse a ottenere queste risposte e poi a procedere di conseguenza.

Maurizio Zipponi