A distanza di quasi cinquant’anni dalla sua
scomparsa, Togliatti continua a far parlare di sé. Non solo come figura
intimamente connessa con la storia d’Italia, dal fascismo fino agli anni della
crisi dei missili di Cuba. Parlare di Togliatti significa mettere le mani su un
immaginario collettivo di anni con la “A” maiuscola, su un’emotività sempre
viva, significa rinegoziare il piano della realtà politica del Paese con quella
trasmessa dagli storici. Forse per questo, per la statura stessa del personaggio
politico, l’articolo apparso sull’Unità a firma del professor Michele Prospero,
dal titolo “L’eredità di Togliatti e il Pd”, non ha mancato di riaccendere
polemiche che, come sottolinea l’onorevole Ugo Intini, hanno la tendenza a
«riemergere» periodicamente a distanza di decenni per la «catastrofica mancanza
di memoria dovuta alla vecchiezza inaudita dell’Italia».
Onorevole Intini, ritorna lo “spettro”
di Togliatti tra le pagine dei quotidiani. Chi è stato veramente Togliatti?
Riveliamo una volta per tutte le ombre di
Togliatti. Il caso che riemerge è purtroppo la testimonianza che, in Italia,
c’è una catastrofica mancanza di memoria, e questo è dovuto alla vecchiezza
inaudita del Paese. Anche gli intellettuali, che vivono questo clima, a volte
fanno modo che le polemiche si ripropongano, sempre identiche a distanza di
decenni, sempre uguali a se stesse. Il “caso Togliatti” non sfugge questo
paradigma: la questione sulla figura dello storico leader del Pci fu sollevata,
per prima, proprio dall’Avanti nel febbraio 1988. L’idea del nostro giornale
nacque sulla scia della Perestroika avviata da Gorbaciov e la conseguente
apertura degli archivi. Da quegli archivi saltarono fuori delle carte che
riabilitarono la figura di Nikolaj Bucharin, condannato a morte nel ’38 da un
tribunale staliniano con un coinvolgimento diretto del leader del Pci. Da tempo
i socialisti credevano che, per ammodernare la sinistra italiana, fosse
necessario che il Partito comunista facesse i conti con la Storia.
Cosa significa fare i conti con la
Storia?
I socialisti ritennero che fosse necessario,
da parte del Pci, rompere la continuità con la tradizione di Togliatti.
L’Avanti! sollevò l’argomento dicendo una cosa semplicissima: se in Unione
Sovietica si riabilita Bucharin, allora è venuto il momento di rivalutare
Togliatti che fu il vicesegretario del Comintern all’epoca della condanna della
quale propagandò la legittimità nell’Occidente. Di Bucharin, Togliatti arrivò a
scrivere, per giustificarne la condanna, che «aveva il carattere del
professorino vanitoso e in lui vi era la stoffa del doppiogiochista e del
traditore». Il direttore degli archivi storici di allora afferma chiaramente
che, dai documenti emersi, si evinceva la chiara responsabilità di Togliatti
come vice di Dimitrov, primo accusatore di Bucharin. Ecco, alla luce di questo,
l’Avanti! chiese al Pci di prendere le distanze dallo storico Segretario e
lanciò un dibattito nel quale intervennero i più importanti intellettuali
dell’epoca. Non fu fatto, alcuni addirittura disprezzarono la posizione
dell’Avanti!, mentre altri dissero che si trattava di una questione da
consegnare agli storici. Di fatto il rinnovamento del Pci non ci fu e poi, dopo
alcuni anni, il Pci cambiò nome senza fare i conti con la storia.
Come sintetizzerebbe i nodi più
importanti del processo che non venne fatto?
Per la verità, la polemica su Togliatti andò
avanti ancora oltre e, ad un certo punto, ci fubisogno di sottolineare che la
questione non era personale, ma che era politica perché interessava il
coinvolgimento del leader comunista nei crimini staliniani. Togliatti era il
fior all’occhiello di Stalin ed è stato il veicolo dello stalinismo alla cui
ideologia ha apportato quel “di più” composto dalla politica occidentale, in
continuità con l’elaborazione teorica di Gramsci. Fu proprio Antonio Gramsci,
infatti, a scrivere un libro intitolato “Il moderno principe” in cui spiegava
che il partito è da considerarsi il moderno Principe di Machiavelli e, come
tale, può venir meno alle regole della morale comune, può mentire e uccidere
per la ragion di Stato e per preservare l’autorità dello Stato stesso. Gramsci
parla del partito come di una persona collettiva che ha il dovere di preservare
gli obiettivi della rivoluzione. Togliatti fu, con la sua capacità e
intelligenza politica, l’anima che riuscì a propagandare questa visione, quindi
la radice del problema è molto profonda, non è una questione personale, ma
politica.
Eppure il Pci si è fatto sempre
portatore e promotore della “Questione morale”.
In realtà è normale che un politico
machiavellico, per cercare un consenso, vesta i panni del moralista. Togliatti
però, proprio perché spietato e cinico e dotato di intelligenza e cultura
politica superiore, non ha mai avuto alcuna indulgenza verso il moralismo,
perché non ha mai accettato l’idea che il moralismo fosse uno strumento della
politica. Ha scritto anche cose molto intelligenti contro la criminalizzazione
moralista di Giolitti e ha sempre anche molto severamente insegnato che non si
deve confondere la politica con la propaganda. Fu Berlinguer il vero padre
della “questione morale”.
Lei ha citato Gramsci. C’è un
passaggio che lo lega a Togliatti. In realtà, proprio a Gramsci fu detto di
tornare in Italia, ma poi venne arrestato. Che si sa in merito?
Non si è mai appurato fino in fondo. In
merito al rapporto tra i due, si sa che Gramsci, quando era in carcere, non
aveva cognizione precisa del dibattito in corso nel partito. Tuttavia sappiamo
con sicurezza che non approvava affatto quella che allora venne chiamata la
dottrina del “socialfascismo”. Pertini mi ha raccontato che, nel carcere di
Turi, Gramsci veniva isolato dagli stessi comunisti per la sua posizione, e che
qualcuno gli tirò anche delle pietre accusandolo di tradimento. Ad un certo
punto, i comunisti italiani approvarono, come ovvio, la posizione sovietica che
identificava e metteva sullo stesso piano socialismo democratico e fascismo. La
teoria fu accettata per disciplina dallo stesso Togliatti. Anzi, Ignazio Silone
mi ha raccontato personalmente una cosa molto interessante: in un intervallo di
una riunione del Pci in Francia, in forma riservata, Togliatti disse di non
essere d’accordo con la teoria del “socialfascismo”, ma che avrebbe esternato
il suo dissenso solo nel caso in cui ci fosse stato qualcuno che, prima di lui,
si fosse opposto. Togliatti aveva capito che, solo se non ci fosse stata
unanimità nel sostenere la posizione di Mosca, si sarebbe potuto sbilanciare
contro di essa. Longo ,a quel punto, ribadì il suo sostegno alla tesi di Mosca,
dunque Togliatti prese la parola per primo e, con forza appoggiò, la tesi del
Partito Comunista sovietico.
Cosa sappiamo invece di Togliatti fino
al ’43, quando era commissario politico delle Brigate Internazionali durante la
Guerra Civile spagnola?
Come commissario delle Brigate Internazionali
Togliatti porta la responsabilità del massacro degli anarchici, dei trozkisti e
dei socialisti libertari, che furono coloro che difesero Madrid fino alla fine
dall’avanzata delle truppe franchiste. Ma di quel periodo Togliatti porta
un’altra responsabilità particolare, conosciuta solo negli ultimi decenni. Era
responsabile, come vicepresidente dell’Internazionale per l’Europa Occidentale,
dell’appoggio alla messa fuori legge, voluta da Stalin, del Partito comunista
polacco, i cui dirigenti furono sterminati e uccisi perché accusati di
deviazionismo. Secondo un’opinione prevalente, Stalin aveva previsto la
liquidazione della Polonia e la divisione del Paese tra l’Urss e la Germania
nazista, cosa che poi avvenne. Per questo uccise i dirigenti polacchi, perché
non avrebbero accettato la divisione del loro paese: però l’incriminazione, nel
sistema dell’Internazionale, che era rigidissima sui regolamenti, prevedeva la
firma di Togliatti per l’approvazione. Per poter firmare, Togliatti abbandona
la Spagna e va a Mosca. Così firma il documento che apre la strada allo
sterminio totale dei dirigenti comunisti polacchi.
Quale fu la sua posizione rispetto al
processo di “destalinizzazione” avviato da Kruscev e alla sua posizione in
merito ai fatti dell’Ungheria del ‘56?
Togliatti aveva intelligenza e cultura
superiore e non amava Kruscev perché lo considerava un ignorante, un rozzo, un
contadino rifatto e non condivideva la sostanza della destalinizzazione. Aveva
capito che si iniziava così per finire al crollo dell’intero sistema, come poi
è successo. Il sistema comunista non poteva reggersi senza essere basato su uno
spietato autoritarismo. Dunque, anche se in pubblico non ne fece menzione, fu
un forte oppositore della denuncia delle purghe staliniane da parte di Kruscev.
Per quello che riguarda l’Ungheria, Togliatti fu tra quelli che fecero
pressione sull’Urss affinché intervenisse a reprimere i moti proprio nel
momento in cui, a Mosca, ci fu un’esitazione sul da farsi.
Prospero addirittura paragona
Togliatti a Cavour, descrivendolo, nei fatti, come uno dei padri della
Repubblica.
Quando Togliatti arriva in Italia nel ’44 si
trasforma in uno dei più moderati dirigenti della sinistra italiana,
addirittura accetta la monarchia mentre Nenni e gli altri non la accettarono.
La svolta di Salerno fu storica. E, anche negli anni successivi, si mosse in
pratica in modo moderato, lanciando grandi dichiarazioni rivoluzionarie ma,
nella sostanza, muovendosi moderatamente e persino con maggiore moderazione dei
socialisti del tempo. Ad esempio, nella Costituente, i socialisti erano molto
più anticlericali dei comunisti: Togliatti accettò, all’inizio, di inserire
l’indissolubilità del matrimonio tra i principi della Costituzione, cosa che avrebbe
impedito i successivi referendum. Così si spiega la tendenza degli storici a
dare un ruolo di statista “alla Cavour” a Togliatti perché, pur predicando la
rivoluzione, in sostanza educava e tratteneva le masse, altrimenti ribelliste,
al realismo. Ma questo lo faceva soprattutto perché sapeva dettagliatamente, a
differenza di altri, il contenuto degli accordi di Yalta tra Churchill, Stalin
e Roosevelt che si erano spartiti il mondo. E sapeva bene da che lato stava
l’Italia e cosa comportasse la posizione del nostro Paese rispetto al ruolo del
Partito comunista, ovvero di essere relegato all’opposizione o, al massimo, al
governo di amministrazioni locali. Non voleva fare la fine dei comunisti greci
che, nel ’47, si trovavano in una posizione simile a quella degli italiani, che
quindi avevano le armi e che scelsero di continuare la lotta armata per
prendere il potere e poi essere liquidati. I vecchi dirigenti comunisti
raccontano che quando pensava alla sua possibile morte diceva sempre: «Poveri
gattini cechi, cosa farete senza di me!». La sua moderazione fu frutto di un
calcolo di opportunità politica.
Roberto Capocelli