Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


venerdì 31 agosto 2012

ITALIA - Lo smemorato Ferrara

L’altra sera al salotto di Mentana su La7 dedicato alla “Grande rissa” si è presentato un Giuliano Ferrara particolarmente rissoso. Vestito da clown, con mutandoni e pancera rossi, Giuliano si è esercitato ad appiccar fuochi al mondo intero, compreso all’ineffabile moderatore Enrico Mentana, che ha dovuto subire in silenzio le sue reprimende. E ad un dato momento, a proposito della presunta trattativa tra Stato e mafia, che era un po’ l’oggetto dell’aspro confronto con Di Pietro, Maccaluso e Travaglio, si è lasciato andare ad un attacco personale, di una violenza inusitata, nei confronti di Claudio Martelli, accusato di aver sostenuto una polemica su un fatto, a suo giudizio, inesistente, e poi parlando con un certo disprezzo dei socialisti e in particolare dell’ex ministro della Giustizia, eletto a Palermo. Il quale ultimo, a suo dire, sarabbe stato accusato di voto di scambio.

Quest’ultima accusa mi vien nuova, e probabilmente Ferrara si riferisce al fatto che, dopo le elezioni del 1987, sia rimbalzata la notizia secondo la quale alcuni ambienti collegati alla mafia avevano autonomamente deciso di dare un segnale alla Dc riversando voti sul Psi e sui radicali. Con l’originale conseguenza, peraltro, che proprio Martelli, da ministro della Giustizia, assieme a Vincenzo Scotti, ministro egli Interni, fu l’autore di quel 41 bis che disponeva il carcere duro per i mafiosi e che per questo venne più volte minacciato di morte e protetto dallo Stato, con tanto di scorta armata e per diversi anni. Che dire poi della trattativa tra Stato e mafia? Che doveva fare Martelli? Evitare di dire quel che sapeva?

E non prendere atto, ad esempio, delle dichiarazioni dell’ex ministro Conso che dispose, senza che nessuno ne fosse informato, l’esenzione del 41 bis per centinaia di mafiosi come segnale “verso l’ala moderata della mafia”, cioè quella che allora era rappresentata da Bernardo Provenzano? Che dire degli attentati del 1993, che solo in questo modo vengono spiegati e cioè come tentativo di fare ulteriore pressione sullo Stato per arrivare a un punto di intesa? Ma lasciamo anche perdere queste valutazioni e concentriamoci invece sul disprezzo di Ferrara per i socialisti. Quel suo “pensate, un socialista” come per aggiungere, con quell’aggettivo, scarsa credibilità al personaggio evocato, in questo caso a Martelli, fa veramente rabbrividire. Ma cos’era Giuliano Ferrara? Non venne egli presentato da Giusy Laganga al convegno di Viareggio del 1985 del Psi, del quale divenne subito un rappresentante autorevole? Non fu egli commentatore Rai in quota Psi e poi eletto europarlamentare nelle fila del Psi dal 1989? Sputare così nel piatto in cui si è mangiato mi ha fatto un pessimo effetto. Perchè Giuliano Ferrara è stato per anni, anche lui “pensate, un socialista”…

ITALIA – Ne abbiamo la conferma, Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America: Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite)

Una volta per tutte è stato detto: Antonio Di Pietro, soprannominato da qualcuno “Tonino l’Americano” aveva rapporti con gli amici d’Oltreoceano ben prima che l’inchiesta di Mani Pulite cominciasse ad entrare nel vivo. E non soltanto. Ai referenti diplomatici americani a Milano, l’ex pm, oggi leader dell’Idv, avrebbe anche rivelato in anticipo rispetto all’inizio degli arresti, il coinvolgimento di Craxi e della Dc. Andando avanti con ordine: ieri il quotidiano “La Stampa” pubblicava un’intervista postuma all’ex ambasciatore Usa in Italia, Reginald Bartholomew, il quale, ricordando il periodo iniziale del suo incarico, dichiarava: “Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto”. Come se non bastasse oggi arriva la conferma sempre sul quotidiano torinese, con l’intervista all’ex Console americano a Milano Peter Semler, il quale seraficamente ricorda: «Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la DC».

Con la medesima tranquillità, quasi fosse cosa buona e giusta, Semler rivela nell’intervista a “La Stampa”, «Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato (…). Gli fecero vedere molta gente, a Washington, a New York (…). Ero spesso in contatto con lui, ci vedevamo (…). Con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato (…)». Sempre oggi sullo stesso giornale, Di Pietro risponde: «Non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e del Psi, perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare. Semler confonde conversazioni avute in tempi e con persone diverse».

A questo punto qualche domanda bisogna pur porsela: come mai Di Pietro riferiva all’allora console americano a Milano la nascita dell’inchiesta Mani Pulite? Soprattutto, quale importanza aveva, mediaticamente e politicamente parlando l’allora pubblico ministero, ben prima del famoso arresto del gestore dell’albergo Pio Trivulzio di Milano, Mario Chiesa, tanto da essere convocato dai più alti vertici diplomatici statunitensi? Abbiamo voluto porre questi ed altri quesiti a chi allora faceva parte proprio del pool di Mani Pulite, l’allora pubblico ministero Tiziana Parenti, già deputato di Forza Italia, che, in esclusiva all’Avanti! torna a parlare dei legami e delle sensazioni che aleggiavano nel palazzo di Giustizia di Milano.

Onorevole Parenti, allora, le nuove dichiarazioni sembrano darle ragione: quando lei disse che l’input dell’inchiesta non era soltanto italiano ma aveva radici americane, i suoi allora colleghi del pool, ad iniziare da Di Pietro la querelarono?

Questa di Semler è una confessione a tutti gli effetti. Sono cose che tutti sapevano, ma che in pochi hanno voluto dire. Ma sono contenta che finalmente anche diplomatici americani l’abbiano rivelato. Perché se noi guardiamo la storia, è vero che esisteva la corruzione nei partiti, ma per quale motivo iniziarono quelle indagini e soprattutto perché in quel momento?

Ce lo dica lei…

Dopo la caduta del muro di Berlino si erano formate in Europa determinate problematiche politiche: l’Italia non faceva passi in avanti, era proprio come adesso, chiusa in guerre intestine, e gli americani avevano paura e intendevano condurla da qualche parte. Perché loro volevano continuare a navigare indisturbati nel Mediterraneo e la figura di Craxi per loro era troppo ingombrante. Basta osservare i precedenti eventi internazionali che vedevano coinvolti i rispettivi paesi: Italia e America.

Ma sappiamo che il legame del nostro Paese con gli Stati Uniti è ben lontano…

E’ inutile nasconderci dietro un dito, l’Italia nasce sulla corruzione e sul protettorato americano, e questo è durato per 50anni. Poi qualcosa cambiò. Ma se non ci fosse stata una volontà specifica, visto che i nostri problemi erano ben precedenti alla data di inizio dell’inchiesta di Mani Pulite, forse quelle inchieste non si sarebbero mai fatte, o forse non sarebbero partite da Milano, regno del Psi di Craxi, e perché non da Roma o da Torino. Così come mi domando per quale motivo un console americano dovesse incontrare uno come Di Pietro che prima dell’arresto di Mario Chiesa era un emerito sconosciuto, non aveva condotto nessun inchiesta di rilievo. E non le nascondo che lo stesso arresto “in flagranza” di Chiesa mi sembrò orchestrato ad arte.

E il mondo della finanza?

Va detto che anche gli imprenditori hanno avuto una grande parte nella spallata nei confronti della Prima Repubblica, visto che si dovevano ridisegnare proprio gli assetti politico-economici del Paese.

L’ex console Semler dichiara nell’intervista a “La Stampa” di essere stato amico di molti giudici milanesi di allora. Lei lo conobbe?

Francamente non ho mai conosciuto questo signore. E anche questa mi sembra una cosa strana. Se è vero quello che dice su Di Pietro, non sapevo si potesse andare a rivelare indagini che avessero il segreto d’ufficio.

Quindi pensa che ci fu e che fu determinante il ruolo dell’America durante quel periodo del nostro Paese e negli anni immediatamente successivi?

Assolutamente. Per noi era un periodo drammatico quel del ’92 e del ’93: c’erano state le uccisioni di Falcone e Borsellino, le bombe. L’impellenza ormai era di sciogliere le Camere, la situazione era scappata di mano e già allora me ne rendevo conto. Tanto che come cittadino, prima ancora che come giudice, tutto questo mi allarmava.

E Di Pietro come s’inserisce in questo contesto?

Non so come si sia inserito, fatto sta che queste ultime dichiarazioni dimostrano dei suoi legami con gli Stati Uniti. Anche se non capisco dove l’ex console voglia andare a parare, ma sembra quasi voglia lanciare un messaggio. A chi e perché sarebbe curioso saperlo.

Insomma che direzione avrebbe dovuto prendere l’Italia secondo gli Usa?

Questo non so dirglielo. Posso dirle però che io ho visto con i miei occhi dei fogli con su scritto quello che sarebbe dovuto essere l’organigramma delle massime cariche del nostro Stato, girava per il Tribunale di Milano. Ricordo ancora l’occasione: ero scesa al bar del Palazzo di Giustizia per la pausa pranzo e qualcuno me lo mostrò. Io pensai: ma siete sicuri che le cose andranno in questo modo! La mia impressione era che avessero pianificato tutto troppo presto. Comunque, se c’è del vero basterebbe analizzare i documenti che ci sono rimasti, a cominciare dall’archivio di Di Pietro, proprio quello di cui si parla nell’intervista di oggi.

Andreotti diceva: «Visto che non ho fantasia, possiedo un grande archivio, e ogni volta che parlo di questo archivio chi deve tacere, come d’incanto, inizia a tacere». Strano che anche Di Pietro tenga un archivio, non crede?

Diciamo che di certo mi sembra strano che qualcuno abbia un archivio in casa.

Insomma come se ne esce da queste vere, presunte, parziali verità postume?

Se non riscriviamo con serietà la vera storia di questo Paese, invece di aspettare che tutti se la portino nella tomba, è naturale che non avremo più una memoria, che la politica non andrà avanti e che questo tipo di reati ci saranno ancora.

Lei queste cose le ha già dette ed è stata querelata dagli altri componenti del pool. Com’è finita?

Sono stata assolta dal tribunale di Brescia. Poi dalla Camera, in quanto onorevole, non è stata data l’autorizzazione a procedere nei miei confronti. Successivamente è stato sollevato il conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale, che a sua volta ha dichiarato l’improcedibilità verso di me. E per inciso, non ho mai accettato per le mie dichiarazioni alcuna transazione finanziaria con Di Pietro o altri del pool.

Giampiero Marrazzo

mercoledì 29 agosto 2012

ITALIA - LA SARDEGNA DEI LAVORATORI TENTA LA MORTE SOTTO TERRA

Rabbia, tensione alle stelle e disillusione. C’è chi invita alla calma e a rimanere uniti e chi invece non crede alle rassicurazioni del governo. Nelle viscere della terra, nella Sardegna lontana anni luce dallo scintillio della Costa Smeralda, a meno 400 metri è di casa il dolore. Al quarto giorno di occupazione dei pozzi di Nuraxi Figus, tra gli oltre 100 minatori della Carbosulcis cresce l’esasperazione, monta quel senso di impotenza e di frustrazione che purtroppo si trasforma in gesti estremi, irrazionali, autolesionisti.

FIN DOVE SPINGE LA DISPERAZIONE? - Quello che non doveva accadere è successo. I manifestanti ieri hanno convocato una conferenza stampa davanti alla ‘riservetta’ in cui è custodito l’esplosivo. “Siamo disperati”, hanno detto gli operai. Uno dei leader della protesta, Stefano Meletti, della Rsu Uil, particolarmente agitato è andato oltre le parole di rabbia. I due compagni al suo fianco, nella concitazione del momento, non hanno evitato il dramma. Con una mossa fulminea l’uomo ha estratto dalla tasca un coltello e si è tagliato un polso gridando: “è questo che dobbiamo fare, ci dobbiamo tagliare?”. Tutti sono stati colti di sorpresa, giornalisti e minatori stessi. Il sindacalista della Rsu e’ stato subito bloccato dai colleghi che erano attorno a lui: “Si tratta di un taglio esteso e profondo – fanno sapere i medici – che è stato curato con dieci punti di sutura”. Meletti sta bene, ma preoccupano le sue condizioni psicologiche: per questo è stato trattenuto in ospedale.

PRONTI A USARE L’ESPLOSIVO – Di esasperazione ha parlato anche Giancarlo Sau, della Rsu Cgil, spiegando alla stampa il perché della convocazione di cronisti, fotografi e cineoperatori giù nelle viscere della terra. “Siamo pronti a tutto – ha detto indicando col dito la stanza blindata dove sono stivati oltre 690 chili di esplosivo e 1.221 detonatori – E’ il momento de ‘sa bruvura’ (polvere da sparo esplosivo in sardo, ndr)”, ha aggiunto senza precisare altro. L’azione di Meletti ha poi fatto precipitare la situazione: dopo comprensibili momenti di caos e tensione, i giornalisti sono stati fatti allontanare e invitati a risalire in ascensore lungo il pozzo per tornare alla luce del sole. I minatori, invece, restano li’ a -373 metri.

BONANNI, DARE RISPOSTE AI MINATORI PER SBLOCCARE SITUAZIONE – “Siamo molto preoccupati. Il Governo e le istituzioni locali devono assolutamente sbloccare la situazione della miniera del Sulcis. Occorre evitare che la rabbia e l’esasperazione dei lavoratori sardi possa sfociare in un dramma collettivo”. E’ l’appello lanciato dal segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. “Stiamo seguendo con grande apprensione e partecipazione la vicende della miniera del Sulcis. I minatori, a cui va tutta la nostra solidarieta’ ed il nostro appoggio, hanno bisogno di risposte immediate e convincenti dal governo e dalle istituzioni locali. Ci sono state troppe promesse e troppi impegni disattesi nella vertenza del polo industriale del Sulcis, che mette in fila varie crisi industriali come l’Alcoa e l’Eurallumina – sottolinea in una nota il leader sindacale -. Noi pensiamo che si possa costruire nel Sulcis un nuovo polo tecnologico dell’energia pulita ma occorre l’impegno straordinario dello stato, delle istituzioni locali e anche del sindacato. Se non si dovessero trovare in tempi brevi delle soluzioni che garantiscano la continuita’ produttiva di queste aziende, c’e’ il rischio di un definitivo declino industriale di un distretto che ha dato lavoro e sostentamento a migliaia di persone”.

VIVERE A 400 METRI SOTTO TERRA – Intanto a 400 metri di profondità, nelle viscere del Sulcis, i minatori sopravvivono trascorrendo le giornate a parlare, senza tv e internet. Nel buio tangibile delle gallerie arrivano solo i giornali dalla superficie mentre attendono notizie da Cagliari e da Roma attraverso il telefono di cantiere. Il rumore degli skip, le gabbie degli ascensori che salgono e scendono dalla superficie, rompono il silenzio, insieme al rumore delle pompe sommerse, per evitare l’allagamento della gallerie. C’e’ sempre chi controlla e vigila sula vita dei compagni in miniera: sono gli uomini, e una donna, della sicurezza interna. Lì al livello -373, vicino alla ‘ricetta’ del pozzo, hanno allestito una sala di fortuna con tavolacci e cavalletti di fortuna, brande in legno, qualcuno dorme accanto alla ‘riservetta’ di cantiere, la santabarbara dove sono custoditi oltre 600 chili di esplosivo e i detonatori. Ci sono anche le donne in occupazione, tuta bianca ed elmetto giallo in testa: sono le dirette eredi delle ‘cernirici’ le donne che fino a metà del ’900 lavoravano alla cernita del minerale, separavano a mano quello buono dallo ‘sterile’, le pietre improduttive, ma non vogliono essere mitizzate o scambiate per attrici. La loro e’ una presenza normale nelle miniere della Sardegna, i loro sono ruoli identici a quelli degli uomini, e ci tengono a precisarlo, senza distinzioni. Un velo di polvere nera copre appena il viso e un po’ di trucco, senza nascondere però l’orgoglio di essere donne di miniera.
Lucio Filipponio

ITALIA - Legge elettorale: dopo l’incontro di ieri in Senato ancora nessun accordo tra i partiti

Niente di fatto per l’intesa sulla riforma legge elettorale. Il “comitato ristretto” dei senatori che ha ripreso le trattative per raggiungere l’accordo, non è riuscito ad arrivare ad un testo e, addirittura, sono tornati i distinguo su preferenze o collegi uninominali. Nonostante i risultati non siano stati proprio dei migliori, al termine della riunione in Senato, sia Pd che Pdl si sono mostrati ottimisti e speranzosi. Infatti, tanto il relatore Enzo Bianco (Pd), quanto il vicecapogruppo del Pdl, Gaetano Quagliariello, hanno persino ipotizzato un via libera del Senato al testo entro la fine di settembre, per «chiudere alla Camera entro ottobre e – ha detto Bianco – avere poi due mesi per ridisegnare i collegi».

IL SOCIALISTA VIZZINI SI DICE «PESSIMISTA» - Secondo i singoli esponenti dei gruppi «passi avanti se ne sono fatti» e «si è trovato l’accordo su alcuni punti seri», ma sul tavolo è riapparso il nodo preferenze: il Pdl, infatti, lo ritiene il miglior modo di garantire agli elettori la scelta, mentre il Pd resta fermo sui collegi. Tutti torneranno a vedersi mercoledì 5 settembre per quella che dovrebbe essere la «giornata di svolta». Entro quella data, il presidente della Commissione, Carlo Vizzini, ha annunciato di voler informare il presidente del Senato, Renato Schifani, dello stato dell’arte e poi, in apertura di seduta, «informare la commissione in seduta plenaria sull’andamento dei lavori».

Proprio il presidente della I commissione di palazzo Madama, del resto, è stato l’unico a non ostentare sicurezza e ottimismo. «Diciamo che io sono l’opposto di Quagliariello: lui è sempre ottimista, io sempre pessimista. Insieme – ha continuato Vizzini – facciamo uno normale. Quando qualcuno dice che “in una settimana si può fare la legge elettorale” mi viene da rispondere: “Prego, si accomodi”. Sull’ipotesi che l’aula di Palazzo Madama approvi una riforma elettorale entro la fine di settembre Vizzini osserva: «Tutto è possibile. Ma non pensate che questa legge passerà all’unanimità. Bisognerà vedere come reagiranno le forze che non condividono l’impianto che si va delineando». Ma, per Vizzini, una cosa è certa: «Continuo ad escludere che si tornerà a votare con il Porcellum».

LETTA: «IL RITORNO DI BERLUSCONI PEGGIORA LE COSE» – «Il ritorno di Berlusconi ha peggiorato le cose. L’accordo sulla legge elettorale l’avremmo fatto molto prima. Senza di lui il Pdl stava diventando un partito conservatore europeo e invece ritorna l’anomalia del partito carismatico personale. E’ colpa sua se ora ci sono difficoltà». Lo dice Enrico Letta, vicesegretario del Pd. «Un po’ di liste bloccate purtroppo resteranno -aggiunge Letta – anche se noi non le vogliamo. Ci sono dei prezzi da pagare per cancellare il Porcellum che è il male assoluto perché crea un Parlamento delegittimato. C’è un premio di coalizione che non esiste in nessun Paese al mondo».

ESCLUSO IL VOTO ANTICIPATO A NOVEMBRE - Tutti hanno escluso l’ipotesi di voto anticipato a novembre, nonostante le voci (puntualmente smentite) che vorrebbero un Silvio Berlusconi interessato ad andare alle urne il prima possibile. A tenere il punto in Commissione sono stati proprio gli uomini del Cavaliere, in particolare il relatore del Pdl Lucio Malan, che ha sottolineato: «Per fare la legge i tempi volendo ci sono, settembre non è ancora cominciato. Bisogna che ci sia la volontà di farlo». Anche il relatore del Pd, Enzo Bianco, ha escluso un nesso tra la riforma elettorale e l’ipotesi di elezioni anticipate a novembre: «E’ del tutto destituita di fondamento – dice Bianco- noi continuiamo a lavorare per dare una buona legge elettorale ai cittadini. Il tempo c’è per approvarla entro fine settembre al Senato ed entro fine ottobre alla Camera. E avere così due mesi per riscrivere i collegi e un sistema elettorale operativo per i primi mesi del 2013».

ITALIA - LEGGE ELETTORALE: DOVE STIAMO ANDANDO?

Intervista al Presidente della commissione affari costituzioni Sen. Vizzini PSI.

Dopo la fumata nera con la quale si sono chiusi i lavori per la pausa estiva del Comitato ristretto della commissione Affari costituzionali del Senato che si occupa della riforma elettorale, si torna a parlare del “compromesso” ufficioso che avrebbero raggiunto Pd, Pdl e Udc sul nuovo sistema elettorale. I lavori riprenderanno il 29 agosto e un testo base potrebbe essere pronto il prossimo 5 settembre.

Quanto ai contenuti, il compromesso sarebbe a portata di mano secondo i componenti del Comitato ristretto. Il Pdl rinuncerebbe al reinserimento delle preferenze accettando i collegi uninominali, il Pd accetterebbe che il premio di maggioranza venga assegnato al partito che ottiene piu’ voti purche’ questo premio passi dal 10 al 13 o al 15 per cento (Bianco ha proposto che possa essere assegnato indifferentemente al partito o alla coalizione vincente, qualora se ne formino). Assieme ai collegi, ci sarebbero le liste bloccate di partito forse per il 15 o 25% degli eletti. La soglia di sbarramento per accedere in Parlamento resterebbe fissata al 5%, con la deroga – pensata ai fini della Lega Nord – per le forze politiche che in almeno cinque regioni ottengono l’8%.

A fare chiarezza sulle indiscrezioni che circolano in queste ore sul presunto accordo è il senatore del Psi Carlo Vizzini, presidente della commissione Affari costituzionali, che ha subito puntualizzato: «Mi aspetto che il 29 agosto in commissione i due correlatori di Pd e Pdl siano in condizioni di riferire questo presunto accordo raggiunto in sedi ufficiose perché sarebbe tragicomico che i giornali avessero avuto dai partiti notizie che il parlamento non ha. Se viene rappresentato un accordo fatto da tre partiti che rappresentano una maggioranza larga il mio compito sarebbe prendere atto e andare in commissione plenaria, sede deputata».

Presidente Vizzini qual è il punto più critico di questo presunto accordo raggiunto?

Sicuramente quello che riguarda il premio di governabilità. Sono convinto che se andasse al partito che non va al governo sarebbe una pazzia, un paradosso, deve essere al 10% e deve garantire governabilità.

Altro punto sul quale si dibatte riguarda la percentuale, insieme ai collegi, delle liste bloccate di partito. Le ipotesi avanzate vanno dal 15 o 25% degli eletti. Quale percentuale sarebbe corretta?

La proporzione auspicabile sarebbe quella del Mattarellum, quindi massimo al 25%. Se rinunciamo al Porcellum ma ne manteniamo una metà faremmo il Porcellinum. Più parlamentari si recuperano tra quelli votati dai cittadini meglio è per funzionamento della democrazia. Così come mi auguro che a tutto questo segua un comportamento interno dei partiti volto a garantire una scelta trasparente dei candidati.

Si parla di 6-8 mesi per rifare i collegi?

I collegi si fanno in 2 mesi.

Premio di maggioranza: il Pd accetterebbe che venga assegnato al partito che ottiene più voti purché passi dal 10 al 13 o al 15 per cento.

Premio di maggioranza al 10 va bene, è il massimo accettabile. Chiederò che il premio dato al partito sia un premio di governabilità. Mi auguro che restiamo in un sistema nel quale la notte delle elezioni si sappiano i risultati.

Con che tempi verrà approvata?

Voglio arrivare al più presto in commissione così da evitare che la discussione sulla legge elettorale si trasformi in una specie di reality. La discussione verrà ripresa all’interno del comitato ristretto il 29 agosto e successivamente il 5 settembre, poi nella stessa settimana si andrà in commissione. La nuova legge si farà entro l’anno.

Il Pdl caldeggia di nuovo elezioni anticipate con la legge elettorale.

Bene significherebbe che vorrebbero far vincere Grillo.

Il rinnovato affermarsi delle socialdemocrazie in Europa avrà una qualche influenza sulla prossima legge elettorale?

Mi auguro che questo Paese sappia trovare uno scarto di tipo europeo, che questo modello riporti i valori del socialismo in Italia come con Hollande in Francia.

Una nuova legge elettorale è un’esigenza primaria del Paese e strettamente legata alla sua governabilità come chiesto più volte da Quirinale e Palazzo Chigi?

Preferisco Palazzo Chigi quando si occupa di questioni economiche. Il presidente della Repubblica ha dimostrato ancora una volta la capacità di intercettare il sentimento degli italiani. La legge elettorale andrà in questa direzione: tornare a un rapporto vero tra elettore e eletto. Perciò è importate che i partiti facciano procedure che rendano pubbliche la scelta dei candidati. Soprattutto se si scelgono collegi dico sì a primarie di partito. Oppure a regole chiare e trasparenti, procedure interne ai partiti, che possono essere controllare dall’elettore.

Lucio Filipponio

ITALIA - Ugo Intini: “Una volta per tutte riveliamo le ombre su Togliatti”

A distanza di quasi cinquant’anni dalla sua scomparsa, Togliatti continua a far parlare di sé. Non solo come figura intimamente connessa con la storia d’Italia, dal fascismo fino agli anni della crisi dei missili di Cuba. Parlare di Togliatti significa mettere le mani su un immaginario collettivo di anni con la “A” maiuscola, su un’emotività sempre viva, significa rinegoziare il piano della realtà politica del Paese con quella trasmessa dagli storici. Forse per questo, per la statura stessa del personaggio politico, l’articolo apparso sull’Unità a firma del professor Michele Prospero, dal titolo “L’eredità di Togliatti e il Pd”, non ha mancato di riaccendere polemiche che, come sottolinea l’onorevole Ugo Intini, hanno la tendenza a «riemergere» periodicamente a distanza di decenni per la «catastrofica mancanza di memoria dovuta alla vecchiezza inaudita dell’Italia».

Onorevole Intini, ritorna lo “spettro” di Togliatti tra le pagine dei quotidiani. Chi è stato veramente Togliatti?

Riveliamo una volta per tutte le ombre di Togliatti. Il caso che riemerge è purtroppo la testimonianza che, in Italia, c’è una catastrofica mancanza di memoria, e questo è dovuto alla vecchiezza inaudita del Paese. Anche gli intellettuali, che vivono questo clima, a volte fanno modo che le polemiche si ripropongano, sempre identiche a distanza di decenni, sempre uguali a se stesse. Il “caso Togliatti” non sfugge questo paradigma: la questione sulla figura dello storico leader del Pci fu sollevata, per prima, proprio dall’Avanti nel febbraio 1988. L’idea del nostro giornale nacque sulla scia della Perestroika avviata da Gorbaciov e la conseguente apertura degli archivi. Da quegli archivi saltarono fuori delle carte che riabilitarono la figura di Nikolaj Bucharin, condannato a morte nel ’38 da un tribunale staliniano con un coinvolgimento diretto del leader del Pci. Da tempo i socialisti credevano che, per ammodernare la sinistra italiana, fosse necessario che il Partito comunista facesse i conti con la Storia.

Cosa significa fare i conti con la Storia?

I socialisti ritennero che fosse necessario, da parte del Pci, rompere la continuità con la tradizione di Togliatti. L’Avanti! sollevò l’argomento dicendo una cosa semplicissima: se in Unione Sovietica si riabilita Bucharin, allora è venuto il momento di rivalutare Togliatti che fu il vicesegretario del Comintern all’epoca della condanna della quale propagandò la legittimità nell’Occidente. Di Bucharin, Togliatti arrivò a scrivere, per giustificarne la condanna, che «aveva il carattere del professorino vanitoso e in lui vi era la stoffa del doppiogiochista e del traditore». Il direttore degli archivi storici di allora afferma chiaramente che, dai documenti emersi, si evinceva la chiara responsabilità di Togliatti come vice di Dimitrov, primo accusatore di Bucharin. Ecco, alla luce di questo, l’Avanti! chiese al Pci di prendere le distanze dallo storico Segretario e lanciò un dibattito nel quale intervennero i più importanti intellettuali dell’epoca. Non fu fatto, alcuni addirittura disprezzarono la posizione dell’Avanti!, mentre altri dissero che si trattava di una questione da consegnare agli storici. Di fatto il rinnovamento del Pci non ci fu e poi, dopo alcuni anni, il Pci cambiò nome senza fare i conti con la storia.

Come sintetizzerebbe i nodi più importanti del processo che non venne fatto?

Per la verità, la polemica su Togliatti andò avanti ancora oltre e, ad un certo punto, ci fubisogno di sottolineare che la questione non era personale, ma che era politica perché interessava il coinvolgimento del leader comunista nei crimini staliniani. Togliatti era il fior all’occhiello di Stalin ed è stato il veicolo dello stalinismo alla cui ideologia ha apportato quel “di più” composto dalla politica occidentale, in continuità con l’elaborazione teorica di Gramsci. Fu proprio Antonio Gramsci, infatti, a scrivere un libro intitolato “Il moderno principe” in cui spiegava che il partito è da considerarsi il moderno Principe di Machiavelli e, come tale, può venir meno alle regole della morale comune, può mentire e uccidere per la ragion di Stato e per preservare l’autorità dello Stato stesso. Gramsci parla del partito come di una persona collettiva che ha il dovere di preservare gli obiettivi della rivoluzione. Togliatti fu, con la sua capacità e intelligenza politica, l’anima che riuscì a propagandare questa visione, quindi la radice del problema è molto profonda, non è una questione personale, ma politica.

Eppure il Pci si è fatto sempre portatore e promotore della “Questione morale”.

In realtà è normale che un politico machiavellico, per cercare un consenso, vesta i panni del moralista. Togliatti però, proprio perché spietato e cinico e dotato di intelligenza e cultura politica superiore, non ha mai avuto alcuna indulgenza verso il moralismo, perché non ha mai accettato l’idea che il moralismo fosse uno strumento della politica. Ha scritto anche cose molto intelligenti contro la criminalizzazione moralista di Giolitti e ha sempre anche molto severamente insegnato che non si deve confondere la politica con la propaganda. Fu Berlinguer il vero padre della “questione morale”.

Lei ha citato Gramsci. C’è un passaggio che lo lega a Togliatti. In realtà, proprio a Gramsci fu detto di tornare in Italia, ma poi venne arrestato. Che si sa in merito?

Non si è mai appurato fino in fondo. In merito al rapporto tra i due, si sa che Gramsci, quando era in carcere, non aveva cognizione precisa del dibattito in corso nel partito. Tuttavia sappiamo con sicurezza che non approvava affatto quella che allora venne chiamata la dottrina del “socialfascismo”. Pertini mi ha raccontato che, nel carcere di Turi, Gramsci veniva isolato dagli stessi comunisti per la sua posizione, e che qualcuno gli tirò anche delle pietre accusandolo di tradimento. Ad un certo punto, i comunisti italiani approvarono, come ovvio, la posizione sovietica che identificava e metteva sullo stesso piano socialismo democratico e fascismo. La teoria fu accettata per disciplina dallo stesso Togliatti. Anzi, Ignazio Silone mi ha raccontato personalmente una cosa molto interessante: in un intervallo di una riunione del Pci in Francia, in forma riservata, Togliatti disse di non essere d’accordo con la teoria del “socialfascismo”, ma che avrebbe esternato il suo dissenso solo nel caso in cui ci fosse stato qualcuno che, prima di lui, si fosse opposto. Togliatti aveva capito che, solo se non ci fosse stata unanimità nel sostenere la posizione di Mosca, si sarebbe potuto sbilanciare contro di essa. Longo ,a quel punto, ribadì il suo sostegno alla tesi di Mosca, dunque Togliatti prese la parola per primo e, con forza appoggiò, la tesi del Partito Comunista sovietico.

Cosa sappiamo invece di Togliatti fino al ’43, quando era commissario politico delle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile spagnola?

Come commissario delle Brigate Internazionali Togliatti porta la responsabilità del massacro degli anarchici, dei trozkisti e dei socialisti libertari, che furono coloro che difesero Madrid fino alla fine dall’avanzata delle truppe franchiste. Ma di quel periodo Togliatti porta un’altra responsabilità particolare, conosciuta solo negli ultimi decenni. Era responsabile, come vicepresidente dell’Internazionale per l’Europa Occidentale, dell’appoggio alla messa fuori legge, voluta da Stalin, del Partito comunista polacco, i cui dirigenti furono sterminati e uccisi perché accusati di deviazionismo. Secondo un’opinione prevalente, Stalin aveva previsto la liquidazione della Polonia e la divisione del Paese tra l’Urss e la Germania nazista, cosa che poi avvenne. Per questo uccise i dirigenti polacchi, perché non avrebbero accettato la divisione del loro paese: però l’incriminazione, nel sistema dell’Internazionale, che era rigidissima sui regolamenti, prevedeva la firma di Togliatti per l’approvazione. Per poter firmare, Togliatti abbandona la Spagna e va a Mosca. Così firma il documento che apre la strada allo sterminio totale dei dirigenti comunisti polacchi.

Quale fu la sua posizione rispetto al processo di “destalinizzazione” avviato da Kruscev e alla sua posizione in merito ai fatti dell’Ungheria del ‘56?

Togliatti aveva intelligenza e cultura superiore e non amava Kruscev perché lo considerava un ignorante, un rozzo, un contadino rifatto e non condivideva la sostanza della destalinizzazione. Aveva capito che si iniziava così per finire al crollo dell’intero sistema, come poi è successo. Il sistema comunista non poteva reggersi senza essere basato su uno spietato autoritarismo. Dunque, anche se in pubblico non ne fece menzione, fu un forte oppositore della denuncia delle purghe staliniane da parte di Kruscev. Per quello che riguarda l’Ungheria, Togliatti fu tra quelli che fecero pressione sull’Urss affinché intervenisse a reprimere i moti proprio nel momento in cui, a Mosca, ci fu un’esitazione sul da farsi.

Prospero addirittura paragona Togliatti a Cavour, descrivendolo, nei fatti, come uno dei padri della Repubblica.

Quando Togliatti arriva in Italia nel ’44 si trasforma in uno dei più moderati dirigenti della sinistra italiana, addirittura accetta la monarchia mentre Nenni e gli altri non la accettarono. La svolta di Salerno fu storica. E, anche negli anni successivi, si mosse in pratica in modo moderato, lanciando grandi dichiarazioni rivoluzionarie ma, nella sostanza, muovendosi moderatamente e persino con maggiore moderazione dei socialisti del tempo. Ad esempio, nella Costituente, i socialisti erano molto più anticlericali dei comunisti: Togliatti accettò, all’inizio, di inserire l’indissolubilità del matrimonio tra i principi della Costituzione, cosa che avrebbe impedito i successivi referendum. Così si spiega la tendenza degli storici a dare un ruolo di statista “alla Cavour” a Togliatti perché, pur predicando la rivoluzione, in sostanza educava e tratteneva le masse, altrimenti ribelliste, al realismo. Ma questo lo faceva soprattutto perché sapeva dettagliatamente, a differenza di altri, il contenuto degli accordi di Yalta tra Churchill, Stalin e Roosevelt che si erano spartiti il mondo. E sapeva bene da che lato stava l’Italia e cosa comportasse la posizione del nostro Paese rispetto al ruolo del Partito comunista, ovvero di essere relegato all’opposizione o, al massimo, al governo di amministrazioni locali. Non voleva fare la fine dei comunisti greci che, nel ’47, si trovavano in una posizione simile a quella degli italiani, che quindi avevano le armi e che scelsero di continuare la lotta armata per prendere il potere e poi essere liquidati. I vecchi dirigenti comunisti raccontano che quando pensava alla sua possibile morte diceva sempre: «Poveri gattini cechi, cosa farete senza di me!». La sua moderazione fu frutto di un calcolo di opportunità politica.

Roberto Capocelli

UE - La nostra vera comunità europea

Un’unione fiscale, a completamento della moneta unica, è l’unico modo per uscire dalla crisi, ammette lo scrittore tedesco Martin Walser. Ma occorre anche tenere presente che la vera Europa è sempre stata una comunità di apprendimento reciproco nel rispetto delle differenze culturali.

Martin Walser 28 agosto 2012 FRANKFURTEN ALLGEMEINE ZEITUNG Francoforte

A colpi di opinioni sulla crisi, ci si è divertiti tutte le sere. Su di me tale giochetto produce il seguente effetto: ascolto ogni esperto per vedere se vuole (ancora) l’Europa o se, al contrario, intende farci ritornare a una molteplicità di valute nazionali, senza più l’euro.

Per quanto mi riguarda, condivido a pieno soltanto le opinioni di coloro che auspicano che l’Unione europea diventi anche un’unione monetaria. L’euro esiste. Ed è più che una valuta. È soltanto uno scenario da incubo quello di un paese europeo costretto ad abbandonare l’euro e a ritornare all’epoca delle valute nazionali, diventando lo zimbello di tutte le speculazioni.

Sono trascorsi parecchi anni da quando il conservatore svizzero Christoph Blocher dichiarò, a proposito del suo paese, che un’unione monetaria non avrebbe potuto funzionare senza un’unione di budget. E questo l’abbiamo sperimentato tutti nel frattempo, su un piano finanziario. Per fortuna, però, abbiamo osato varare l’unione monetaria pur in assenza di un’unione di budget. Questa deve essere creata oggi, a posteriori. Se questa unione non è irrealizzabile su un piano pratico, non sarà il risultato di una visione, ma di una legislazione costruita poco alla volta.

Ed ecco che un grande esperto chiede in modo enfatico se la moneta unica debba costringere gli europei ad “appianare le loro differenze culturali”! Una moneta unica, unitamente a una contabilità coordinata, non livellerà le differenze culturali e psicologiche più di quanto non abbiano fatto le lingue straniere dominanti. A differenza di qualsiasi altro continente, l’Europa ha alle spalle una lunga tradizione di apprendimento reciproco e di mutua comprensione.

Se c’è qualcosa su cui gli economisti non devono preoccuparsi, si tratta proprio delle differenze culturali, che sono a tal punto antiche, a tal punto immutabili, che l’economia può essere regolamentata in tutta serenità. Il vero obiettivo è responsabilizzare gli stati in vista di una gestione comunitaria dell’economia! Oggi tutti auspicano a gran voce una regolamentazione dei mercati finanziari, nella quale la Bce rivesta il ruolo di istituzione centrale di riferimento, in grado di adattarsi a qualsiasi situazione. E ciò basta.

Alle spalle abbiamo parecchi secoli nel corso dei quali si sono andati sviluppando ideali comuni. Per quanto mi riguarda, non hanno alcun effetto su di me coloro che intendono dimostrarmi che non possiamo permetterci questa Unione per questo o quel motivo. E poi c’è l’economicismo puro: quando si vede che alcuni trovano da ridire in merito al sistema di perequazione finanziaria (tra collettività territoriali tedesche), si comprende che gli economisti ignorano del tutto il significato della parola “solidarietà”. Né resto maggiormente colpito da chi esige che si facciano aggiustamenti sistemici per mutualizzare i debiti apparsi qui o lì.

A noi spettatori non resta che approvare ciò che affermano questi esperti che pontificano oppure respingere quello che ci propongono. Confesso che confido pienamente – e non è una grande sorpresa – in Wolfgang Schäuble, ma dato che in gioco c’è il destino dell’Europa, mi permetto di appoggiare anche la posizione attuale e passata dei letterati, schiera alla quale appartengo.

In una lettera di Friedrich Hölderlin risalente al 1799 si può leggere: “Ma i tedeschi migliori continuano a pensare che tutto andrebbe per il meglio se soltanto il mondo fosse simmetrico. Oh Grecia, con tutto il tuo ingegno e la tua pietà, in che cosa sei dunque fallita?”. Se cito proprio questo brano, non è perché la Grecia oggi è bistrattata nella zona euro, ma perché esso ci mostra fino a che punto un poeta di Nürtingen [nel sud della Germania], all’età di soli 24 anni, si sentisse a quel tempo vicino ad altri paesi europei, fino a che punto questo “estero” fosse la sua patria, fino a che punto facesse parte della sua coscienza e della sua identità. In altri termini, la letteratura è sempre stata europea. L’Europa è la nostra patria letteraria.

Quanto a Nietzsche, egli conclude La nascita della tragedia dallo spirito della musica – opera arretrata e acerba, nella quale descrive la lotta senza fine tra l’apollineo e il dionisiaco (un libro sulla Grecia, né più né meno) – con queste parole: “Quanto ha dovuto soffrire questo popolo per diventare così bello!”.

Non dimentico che questa benedizione della Grecia ha lo scopo di dimostrare che i poeti sono sempre stati europei. E per piacere, ricordate che di tutti gli autori di lingua tedesca Nietzsche è stato il più europeo che sia mai esistito.

Agli occhi dei poeti tedeschi, tuttavia, Francia, Inghilterra, Italia, Spagna e tanti altri paesi non sono meno importanti. Ovunque si guardi, è proprio quando diventa europea che la letteratura tedesca è quanto mai viva. Diventa tedesca nel momento stesso in cui si rivela infedele alla Germania. Nel registro dei sentimenti, chi non avrebbe visto in Madame Bovary un incoraggiamento a osare l’emozione? Strindberg ci ha fatto vedere in che modo la sofferenza potesse essere violenta. Proust ci ha insegnato il sortilegio dell’infanzia evocata. E così via.

La “buona” Europa

In questa battaglia che ci vede tutti impegnati sul tema della “buona” Europa, resto sempre molto impressionato dagli esperti che reagiscono caso per caso, ma sempre in senso filo-europeo, e mai contro l’Europa. È proprio quando mi rendo conto che una proposta è dettata da un calcolo politico che sono meno recettivo. A mio parere, i guastafeste non dovrebbero imporre le loro opinioni.

Ebbene, constatiamo che tra gli esperti refrattari all’attuale road map (del governo tedesco), sono rari coloro che omettono di pronosticare una catastrofe nel caso in cui la loro visione non prevalesse sulle altre.

È per questo motivo che mi sono permesso qualche flash sui vantaggi di una letteratura rivolta all’Europa. È in Grecia, in Provenza, in Inghilterra e da qualche altra parte ancora che la lingua tedesca ha imparato a muoversi, a camminare a ritmo, a danzare, a piroettare.

Perché i popoli di cui si sta parlando non dovrebbero riuscire, con il nostro aiuto, a impegnarsi a raddrizzare le cose, in modo tale da uscire tutti insieme dalla crisi? Occorrerebbe semplicemente evitare che, mascherata da considerazioni di ordine pratico, l’eccessiva cautela non diventi la regola. Qualsiasi regressione spingerebbe l’Europa nei bidoni dell’immondizia della storia per svariati anni. E per qualche tempo, non sarebbe neppure più concepibile. Mentre proprio concepibile deve restare!

Perché la “buona” Europa non è un club elitario, né una federazione governata da una super-autorità europea. La “buona” Europa è una comunità di reciproco apprendimento, basata sul volontariato e sull’autodeterminazione. È proprio questo che l’Europa ha da offrire al mondo.

ITALIA – Quelli che a sinistra ci sono per caso

di Paolo Franchi dal Corriere della Sera del 28 agosto 2012

Una rissa a sinistra? Benvenuti a Babele. Se le categorie concettuali, così come le abbiamo ereditate dalla storia, hanno un senso, Beppe Grillo non è certo (e neppure vuol essere) «di sinistra»; così come non lo sono, né vogliono esserlo, Antonio Di Pietro o Marco Travaglio. Sul fronte opposto, però, neanche il Pd, nonostante la torsione «socialdemocratica» che gli ha impresso Pier Luigi Bersani, e il ruolo preponderante che vi hanno gli ex e i post comunisti, è, allo stato, un partito di sinistra. Su che cosa di preciso il Pd intenda diventare da grande, dibatte, anche se un po' distrattamente, da tempo ormai immemorabile, e sull'esito del confronto, sempre che un esito alla fine ci sia, nessuno può avanzare previsioni sensate. Ma a Babele, ci piaccia o no, viviamo: e dunque sì, questa in corso è senza dubbio, a modo suo, una rissa a sinistra o, per essere più precisi, in quel che resta della sinistra italiana. Una rissa, non una guerra. Perché la guerra civile della sinistra italiana, quella tra comunisti e socialisti, si consumò negli anni Ottanta, e si concluse, avrebbe detto il vecchio Marx, con la comune rovina delle parti in lotta. Sembrò, per qualche tempo, che le cose stessero, o potessero stare altrimenti, che a fronte della damnatio memoriae cui erano dannati i socialisti, agli eredi del Pci stesse arridendo, all'apparenza almeno fuori tempo massimo, la più strana delle vittorie. Ma si trattò di un clamoroso abbaglio. La sinistra, tutta la sinistra, aveva smarrito, con i suoi partiti, le sue identità tradizionali, e non aveva voluto, saputo o potuto (a questo punto, fa lo stesso) elaborare il lutto. Neanche nei suoi anni migliori era stata la fortezza serrata e inespugnabile di cui si chiacchiera. Mai, però, davvero mai, era stata così incapace di esprimere un proprio autonomo punto di vista (lasciamo perdere le visioni del mondo), e quindi così esposta a ogni sorta di incursione, politica e, prima ancora, culturale. Prima tra tutte quella di un giustizialismo ora colto e, a modo suo, riformatore, ora orgogliosamente plebeo, ma sempre abbondantemente nutrito di un'avversione quasi di pelle (verrebbe da dire: di una repulsione) non solo, come sarebbe stato sacrosanto, verso il degrado della politica e dei partiti, ma verso la politica e i partiti in quanto tali: come se dal profondo della storia nazionale fossero riemersi i mostri faticosamente tenuti a bada, dal governo e dall'opposizione, nei decenni migliori della Prima Repubblica. Adesso, anche le eterne mosche cocchiere che allora, e poi per molti anni, li adularono e li evocarono, quasi fosse possibile per una sinistra ormai nana appollaiarsi sulle spalle di simili giganti, di fronte all'avanzare impetuoso della cosiddetta «antipolitica», che non a caso prende a suo principale bersaglio il Quirinale, lanciano un grido di allarme: attenzione, per carità, questa non è una sinistra più radicale e più ostile ai compromessi, questa è una nuova, pericolosissima destra. Vero, verissimo, anche se era vero, anzi, verissimo pure ieri e l'altro ieri, quando in nome delle superiori esigenze della lotta contro Silvio Berlusconi e il berlusconismo dilagante ogni diverso parere, ogni distinguo, ogni approccio critico era messo al bando sotto l'accusa di collusione (o, come si diceva, di inciucio) con il nemico: basta frequentare un po' il web per leggere, anche senza tirare in ballo il fascismo, come fa per antico riflesso condizionato Bersani, cose che a un vecchio militante della sinistra, ma pure a un vecchio democratico, fanno rizzare i capelli in testa. Ma il problema non è di natura, diciamo così, definitoria. Il problema è che temi, espressioni, luoghi comuni tradizionalmente di destra (e non di una destra «montanelliana», ma di una destra profonda, limacciosa, risentita) hanno preso alloggio, e non solo nelle ultime settimane, in una parte importante (tutto sta a capire quanto) di un campo, quello della sinistra, politicamente e culturalmente sguarnito, per i motivi relativamente antichi di cui sopra e anche per più recenti, clamorose sviste. Nel dopoguerra Palmiro Togliatti poteva permettersi di fare l'occhiolino, a distanza di sicurezza, a Guglielmo Giannini e all'Uomo qualunque, alla vigilia delle elezioni del 2008 Walter Veltroni, dopo aver evocato lo spirito del Lingotto, avrebbe fatto bene a fermarsi a riflettere non una, ma cento volte prima di chiudere la porta in faccia ai socialisti per spalancarla a Di Pietro; e, se è per questo, anche Bersani ci avrebbe dovuto pensar bene su, prima di farsi immortalare nella celebre foto di Vasto. Ora il segretario del Pd, un emiliano di sostanza che con i grillismi colti o plebei non ha mai avuto molto da spartire, prova a dare la battaglia politica e ideale che si sarebbe dovuta condurre in tutti questi anni, e che invece, in primo luogo per opportunismo, non è stata data. Non può fare altrimenti, perché siamo probabilmente prossimi (e per capirlo basterebbe fermarsi a ragionare un momento anche sul senso politico degli attacchi rivolti a Giorgio Napolitano) al momento della verità. Che lo faccia bene, con gli argomenti e i toni giusti, è naturalmente un altro discorso. Che non lo faccia a tempo pressoché scaduto, purtroppo, pure. Ma questo ce lo diranno solo le prossime elezioni e forse, prima ancora, la legge con cui andremo a votare: sbaglierò, spero, ma quella di cui a giorni alterni si vocifera sembra fatta apposta per scatenare tutti i mostri.

martedì 28 agosto 2012

ITALIA – Politiche sì, ma con quali alleanze?

Intervista al politologo Gianfranco Pasquino.

Con la fine dell’estate e la ripresa dei lavori parlamentari, le elezioni politiche sono sempre più vicine. In parallelo si restringono i tempi per trovare una quadra sulle rispettive alleanze con le quali sfidarsi alla ghigliottina dell’urna. Equilibri instabili che potrebbero incidere profondamente sui programmi e sulle forze che avranno il compito di metterli in pratica, sulla stabilità e longevità del prossimo governo che dovrà inevitabilmente gestire la pesante eredità lasciata dall’esecutivo Monti e far fronte alle criticità che attanagliano il Paese.

A fare il punto sull’intricato e mutevole panorama di alleanze che si sta via via delineando con l’avvicinarsi dell’appuntamento con le prossime politiche è il politologo Gianfranco Pasquino. In assenza di una bussola chiara, i cittadini in queste giornate di politica e polemiche rischia di perdersi nella giungla delle candidature mordi e fuggi, a non districarsi tra movimenti dell’ultim’ora come quello di Grillo e partiti logori da troppi anni di malaffare come la Lega che sperano di vincere le elezioni cavalcando populismo e antipolitica si troveranno, da fronti diversi, a intercettare gli stessi elettori; partiti ad personam come il Pdl che implodono faranno da contraltare ai democratici di Bersani che si giocheranno il tutto e per tutto per rilanciare un centrosinistra rinnovato nelle alleanze e nei programmi.

Tra quali alleanze si troverà a scegliere il cittadino?

Tra alleanze brutte sporche e cattive. Eterogenee con quasi nessun denominatore comune incapaci di governare guardando al futuro.

Quali sorprese dovremo aspettarci?

Se sono davvero sorprese non possiamo prevederle. L’esplosione di Grillo e l’implosione del Pdl (o come si chiamerà). La mancata e rimpianta esplosione della affabulazione di Vendola. La mancata e agognata affabulazione (“diamo un senso a questa storia”) di Bersani e compagni. La rappacificazione fra Berlusconi sognante e Maroni realistico. Una lista dei giusti lanciata da La Repubblica.

Se si dovesse realizzare la riforma presidenziale o semipresidenziale cambierebbe il gioco delle alleanze?

Ovviamente, sì: tremendamente, totalmente, positivamente, consentendo agli elettori di dare un calcio al passato (è un eufemismo) e di entrare a vele spiegate nel futuro con i candidati e i partiti che avranno saputo innovare e rischiare.

Quanta influenza potranno avere le coalizioni europee su quelle italiane?

Ahimè, ahivoi: quasi nessuna influenza.

Quali sono i soggetti esterni, come sindacati o Chiesa cattolica, che
potranno influenzare il gioco delle alleanze e il voto?

L’unico soggetto esterno in grado di influenzare il voto si chiama SPREAD. Se NON rimane esterno, il soggetto Monti potrà influenzare alleanze voto e politiche.

Che influenza avrà l’ormai trasversale “partito dei rottamatori”?

Quasi nessuna tranne ottenere e accontentarsi di qualche strapuntino.

Lucio Filipponio

Il mito dell’ebreo felice in Iran

Forse è il caso di affrontare uno dei miti più perniciosi e tristi degli ultimi anni, quello che vorrebbe gli ebrei in Iran vivere la loro vita beati e protetti dal regime di Ahmad El Din Nejad. Mito utilizzato a più non posso da chi cerca di cancellare l’antisemitismo evidente di un regime che non si vergogna pubblicamente di augurare la distruzione degli Ebrei e del loro Stato, Israele.

Contrariamente a quanto sostenuto dagli apologeti di Teheran [in particolare quelli (sic) della sinistra politica come Roger Cohen], gli ebrei iraniani soffrono una delle peggiori forme di persecuzione sotto il regime islamico iraniano. Continuiamo a sentir parlare di come la vita per gli ebrei iraniani sia eccellente, fino al punto che, per molte persone, è diventato un fatto accettato la vita meravigliosa degli ebrei in Iran. La falsa narrazione vuole che la vita in Iran per gli ebrei sia ottima e che questa sia la ragione per la quale essi si uniscono ai loro “colleghi iraniani” per protestare contro le ”atrocità” di Israele . E, secondo il racconto, la vita è così buona per loro che molti ebrei hanno scelto di rimanere in Iran, nonostante i tentativi israeliani di “corromperli ” e farli emigrare in Israele. Come “prova” adducono che il regime iraniano non è anti-semita, ma solo anti-sionista, con la famosa frase-mantra: “Io non odio gli ebrei. Odio i sionisti ” la comodissima scappatoia utilizzata dagli antisemiti di mezzo mondo

E’ il racconto che vive tra gli apologeti del politically correct di sinistra, e gli apologeti dell’Islam e del regime iraniano. Vive tra i Neturai Karta, un gruppo anti-israeliano di ebrei ortodossi, che credono che l’esistenza di Israele sia in contrasto con l’ebraismo e che collaborano con noti antisemiti come Ahmadinejad [i Neturai Karta sono, ovviamente, vezzeggiati dagli anti-semiti, come "riprova" che essere anti sionisti non equivalga a essere antisemiti ]. Alle manifestazioni contro Ahmadinejad, c’è sempre un piccolo gruppo di membri dei Neturai Karta, pronti a manifestare in favore di questo negazionista della Shoah . Roger Cohen, reporter di estrema sinistra del New York Times, dalle colonne del suo giornale serve da cassa di risonanza alla menzogna circa l’invidiabile situazione degli ebrei iraniani. Per sostenere la dittatura islamica d’Iran, fa uso e abuso, ovviamente, delle sue origini ebraiche. Cohen cerca di sfatare ciò che percepisce come distorsione: mostrare la Repubblica islamica dell’Iran [IRI] come uno stato di terrore jihadista, e per farlo non esita a sfruttare le sue originii:

“Forse perché io sono un Ebreo e raramente sono stato trattato con tanto calore come in Iran”.

In questo modo Cohen fa un cattivo servizio non solo agli ebrei iraniani, ma alla comunità ebraica nel suo insieme, aiutando il regime iraniano nell’utilizzo della sua popolazione ebraica allo scopo di puntellare la sua immagine. E ‘il classico, “Sono un Ebreo e non ho visto alcun antisemitismo in Iran.” E’ il “non vedere il male” e “non sentire male”. Le bugie che Cohen spaccia per verità, è esattamente ciò che gli ebrei iraniani sono costretti a dire dal regime nazi-islamico di apartheid d’Iran. A chi pensasse onestamente che gli ebrei siano trattati bene dal regime terrorista islamico iraniano, suggerisco di dare un’occhiata al Jewish Journal, il blog di Karmel Melamed, un giornalista iraniano, ebreo, americano. I suoi articoli sono una boccata di aria fresca, liberi dal giogo del regime iraniano e dei suoi apologeti .

Come ho detto, gli ebrei iraniani sono costretti a dire le bugie che Roger Cohen pubblica nel New York Times. Gli ebrei iraniani hanno paura di dire la verità, paura del regime islamico. Ad esempio, Karmel Melamed ha dichiarato di essere stato messo in guardia dal leader degli ebrei iraniani, a proposito del contenuto dei suoi articoli, perché avrebbero potuto portare a rappresaglie contro gli ebrei.

E’ vero che gli ebrei iraniani si preoccupano per la loro patria. Ma quando hanno la possibilità di parlare liberamente e onestamente, auspicano, come la maggior parte del popolo iraniano, la liberazione dal regime islamo-fascista. Karmel Melamed rappresenta l’opinione della maggior parte [se non di tutti] gli ebrei iraniani in merito.

Contrariamente a quanto il racconto distorto ufficiale vorrebbe affermare, dopo la rivoluzione iraniana del 1979, la popolazione ebraica iraniana è diminuita. Il motivo va ricercato nella persecuzione antisemita. Le disparità giuridiche fanno si’ che, ad esempio, solo nel caso che un Ebreo in Iran si converta all’Islam, puo’ accedere ad una eredità che gli spetterebbe di diritto. Gli ebrei iraniani temono l’accusa di essere “spie sioniste” e di essere per questo condannati a morte in base alle “prove” di processi farsa. Inoltre, in casi come lo stupro, se un uomo musulmano iraniano violenta una donna non-musulmana la sua pena non va oltre l’ammenda. Nel caso opposto la sentenza è la morte.

The Jewish Library riporta:

“Nonostante la distinzione ufficiale tra “ebrei”, “sionisti” e “Israele”, l’accusa più comune rivolta agli ebrei è quella di mantenere i contatti con i sionisti. La comunità ebraica dispone di una certa libertà religiosa, ma si trova di fronte al sospetto costante di cooperare con lo Stato sionista e con “l’America imperialista” – entrambe attività punibili con la morte. Gli ebrei che fanno richiesta di un passaporto per viaggiare all’estero devono farlo in un ufficio speciale e vengono immediatamente messi sotto sorveglianza. Il governo in genere non permette a tutti i membri di una famiglia di viaggiare all’estero allo stesso tempo, per evitare l’emigrazione ebraica. Ancora una volta, gli ebrei vivono sotto lo status di dhimmi, con tutte le conseguenti restrizioni imposte alle minoranze religiose. I leader ebrei temono rappresaglie del governo se attirassero l’attenzione sui maltrattamenti inflitti alla loro comunità”.

Secondo il regime iraniano ed i suoi apologeti, gli ebrei sono liberi di lasciare l’Iran quando vogliono. Tuttavia, molti ebrei iraniani hanno rischiato la loro vita e /o sono stati uccisi durante il tentativo di abbandonare l’Iran. Ad esempio, aiutare gli ebrei ad emigrare in Israele è punibile con la morte. Agli ebrei iraniani è vietato ogni contatto con Israele. Il regime in Iran non permette ad intere famiglie ebree di andare in Israele. I media iraniani controllati dallo Stato, promuovono l’antisemitismo, compresa la diffusione dei Protocolli dei Savi di Sion. Jewish Virtual Library afferma:

“I media ufficiali iraniani, controllati dal governo, diffondono spesso propaganda antisemita. Un primo esempio è la pubblicazione, nel 1994 e 1999, da parte del governo, dei Protocolli dei Savi di Sion, noto falso zarista. Gli ebrei soffrono diversi gradi di discriminazione ufficialmente sancita, in particolare nei settori dell’occupazione, dell’istruzione e degli alloggi pubblici”

L’Iran ha vietato di dire che la Shoah è esistita. Ed è ben noto che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nega che sia mai accaduta e promuove ancora la ridicola idea antisemita che i sionisti abbiano collaborato con i nazisti. E il programma televisivo Zero Degrees, nonostante le apparenze, non fa eccezione. Tale programma, che riconosce la Shoah come realmente accaduta, è stato trasmesso dallo TV di Stato iraniana . E’ ovvio che si trattava di una trovata pubblicitaria del regime iraniano per dire: “Vedi? Non siamo anti-semiti. E riconosciamo la Shoah. Siamo solo contro i sionisti “. Ma molti attivisti ebrei iraniani, che hanno monitorato la serie, vi hanno trovato abbondanza di temi antisemiti . Gli ebrei vi sono descritti come non capaci di parlare bene persiano e essere avvezzi ad accettare e / o pagare tangenti. Il programma promuove ancora la ridicola idea antisemita secondo la quale i sionisti hanno collaborato con i nazisti. Karmel Melamed riporta:

“Eppure, secondo la traduzione on line in inglese del secondo episodio della serie, curata dal Middle East Media Research Institute, con sede a Washington , nel programma gli ebrei sionisti arrivano al punto di uccidere un rabbino iraniano a Parigi e collaborarono con la Gestapo, al fine di costringere gli ebrei a emigrare in Palestina”.

Un editore di libri a Los Angeles, Bijan Khalil, ha detto:

“Questo programma TV annovera tra i suoi credits un uomo di nome Abdollah Shabazi, uno stratega ideologico per il governo iraniano. L’idea di fare questi film di propaganda per dimostrare che gli iraniani sono ‘buoni con gli ebrei, è sua.” In realtà, quest’uomo è l’autore di molti libri anti-semiti e anti-Bahai [in lingua persiana] ”.

Hassan Fatthi, lo scrittore-regista dello spettacolo , ha persino tracciato una equivalenza morale tra i nazisti e il trattamento riservato da Israele ai palestinesi.

“Gli iraniani hanno sempre distinto tra ebrei ordinari e una minoranza di sionisti. L’uccisione di ebrei innocenti durante la Seconda Guerra Mondiale è altrettanto spregevole, triste e scioccante, come l’uccisione di innocenti donne e bambini palestinesi da parte dei soldati sionisti razzisti “.

Quanto successo ha riscosso questo mantra in Occidente! Come è stato accuratamente e con evidenti riscontri veicolato!

La verità è che il regime in Iran è antisemita fino al midollo. Molti ebrei iraniani lo sanno e hanno troppa paura di dirlo a causa delle conseguenze che potrebbero soffrire . Il popolo iraniano [compresa la minoranza ebraica] è sotto stretto controllo. Coloro che hanno il coraggio di parlare contro il regime in Iran sono torturati e / o uccisi. In Iran, si può essere uccisi per aver detto che le ”elezioni” del 2009 furono truccate. Se avessi detto questo in Iran, sarei stato ucciso e / o torturato dai nazi-islamici. Ma per fortuna, io non vivo in Iran. Vivo in America. Come minoranza non-musulmana , gli ebrei iraniani sono vittime di discriminazioni, in quanto il regime in Iran tende a creare un ambiente in cui l’Islam e i musulmani predominino. Eppure, anche la maggioranza musulmana in Iran è oppressa. Sebbene la maggior parte della popolazione iraniana sia composta da musulmani sciiti, la maggior parte del popolo iraniano ha ancora voglia di liberare il proprio paese dal regime islamo-fascista . Se credi che gli ebrei iraniani non siano perseguitati dal regime iraniano, allora sei nella migliore delle ipotesi ingenuo e / o ignaro. Ciò significa che non ti sei preparato abbastanza per discuterne e che è necessario smettere di credere alla propaganda di stile nazista che viene dal regime iraniano e dai suoi apologeti. La propaganda del regime sul wellfare degli ebrei ricalca quello propaganda nazista. I Neturai Karta sono dei traditori, in ogni senso della parola e sono l’equivalente degli ebrei collaboratori dei nazisti. Goebbels disse che una bugia ripetuta mille volte alla fine diventa verità. E’ esattamente ciò che il regime iraniano sta facendo, utilizzando gli ebrei iraniani per migliorare la sua immagine .
Bugie dalle gambe lunghe.

UE - Gli europei, troppo diversi per capirsi

Più che le piccole differenze tra le performance economiche dei paesi dell’Ue, a costituire l’ostacolo principale per la creazione di un’autentica comunità omogenea sono i grandi divari culturali tra gli europei. Di conseguenza non è strano che si vada incontro a così tante difficoltà per costruirla.

Richard Swartz 22 agosto 2012 DAGENS NYHETER Stoccolma

 Molti hanno cercato di unire l’Europa, e tutti vi hanno sbattuto il naso: Attila, Carlo Magno, Napoleone, Hitler. L’ultimo tentativo, fino a questo momento, è quello dell’Unione europea. L’Europa non ha sguainato la spada, essendo diventata dopo Hitler un continente pacifista. Ha tuttavia utilizzato mezzi inoffensivi, come la buona volontà, le istituzioni comuni, leggi e regolamentazioni. L’euro è soltanto l’ultima, e indubbiamente la più audace, di queste iniziative a favore di un’Europa unita.

L’origine del progetto europeo moderno è politica, anche se l’accento sin dall’inizio è stato posto sull’economia. La comunità del carbone e dell’acciaio ambiva a far oltrepassare alle industrie indispensabili alla guerra gli stretti confini dello stato-nazione, per evitare il ripetersi di nuovi conflitti. Le economie nazionali dovevano confluire in un grande mercato unico, sprovvisto di frontiere, e convergere poco alla volta le une verso le altre.

Quel progetto non si fondava semplicemente sulla supremazia dell’economia, ma anche sul principio che la razionalità economica dovesse consentire l’affermarsi di una comunità di opinioni in altri ambiti, con lo scopo di creare un insieme che assomigliasse agli Stati Uniti d’Europa.

L’economia senza alcun dubbio ha rivestito un ruolo determinante quando si è trattato di mettere l’Europa al riparo dalla guerra e, da questo punto di vista, la cooperazione europea è stata un successo straordinario dopo il 1945. Ma la cooperazione economica non è più sufficiente per quello che dobbiamo realizzare oggi: la crisi dell’euro ci ha insegnato che questa cooperazione ha i suoi limiti, che in realtà sono di ordine storico e culturale, perché l’Europa è senza alcun dubbio la regione più complessa al mondo.

In uno spazio tutto sommato ristretto, 300 milioni di persone devono cercare di dar vita a un’unione, quando di fatto non occorre allontanarsi neanche troppo prima di non essere più in grado di capire ciò che dicono gli altri, di trovare chi mangia o beve cose di cui non abbiamo neanche una vaga idea, chi canta canzoni a noi sconosciute, chi celebra altri eroi, chi ha un rapporto completamente diverso con il tempo, ma anche sogni e demoni differenti.

Ebbene, queste differenze sempre esistite e ancora esistenti non sono mai ricordate, oppure lo sono soltanto di rado. Sono però camuffate da un discorso nel quale tutti gli europei appaiono naturalmente uniti di fronte al resto del mondo, mentre uno svedese ha indubbiamente più cose in comune con un canadese o con un neozelandese che con un ucraino o un greco. Se la storia d’Europa è costellata di ostilità e di atti di violenza, a iniziare dalle due guerre più spaventose che l’umanità abbia mai conosciuto e che in fondo altro non erano che guerre civili europee, è probabile che dipenda proprio dalle nostre differenze culturali – e non da quelle politiche o economiche.

Tuttavia, si ha l’impressione che tutto ciò sia dimenticato o omesso. Insomma, sconosciuto ai più, al punto che la manfrina europea che ci è servita quotidianamente – la bandiera, Beethoven, Eurovision, e così via – ha poco a che vedere con la nostra realtà europea, e molto con la pura propaganda per un progetto che non ha alcuna intenzione di sentir parlare di differenze culturali o mentali, che tuttavia sono molto più profonde rispetto alle nostre differenze materiali o finanziarie.

In realtà, è stato necessario attendere la crisi europea per aprire gli occhi sul divario che separa le chiacchiere dalla realtà. Con nostro grande stupore, la crisi ci ha fatto scoprire persone che non avevano mai pagato le tasse, che pensavano che fossero gli altri a dover saldare i loro debiti e che accusavano di dispotismo chi tendeva loro la mano. Ignoravamo l’esistenza di questi europei e non volevamo credere che esistessero. Tuttavia, questa è la realtà che ci circonda, ed è così da tempo.

Questione di punti di vista

Chi, al di fuori degli addetti ai lavori, un anno fa sapeva che cosa fosse il clientelismo? Ho un’amica croata che dall’inizio dell’anno è diventata ministro. Il suo non è un ministero di primo piano, ma è pur sempre un ministero. Le ho chiesto quanti funzionari permanenti figurano sul libro paga dei lavoratori del ministero e mi ha risposto cinquecento. Cinquecento? Sembra davvero tanto per un paese come la Croazia. E di quanti collaboratori avrà bisogno lei per sviluppare la politica che intende perseguire? La risposta è come un colpo di cannone: trenta. Trenta persone.

“E pensi di licenziare tutti gli altri 470?”. La ministra mi guarda con un’espressione a uno stesso tempo empatica e di presa in giro per il balordo del nord delle Alpi che sono (senza per altro essere neppure biondo). No, non ci pensa proprio, perché non ha intenzione di mettere a repentaglio la propria vita. Tanto più che ha anche un figlio che va a scuola a piedi tutti i giorni, e si sa, un incidente può sempre capitare.

E così, anche quando la mia amica avrà lasciato il suo incarico, quasi 500 funzionari continueranno ogni giorno a recarsi in uffici immaginari per fare un lavoro che non esiste. Nel mondo reale esistono soltanto i loro stipendi, quelli che intascano davvero.

Ecco a che cosa assomiglia la nostra Europa. E si noti bene che il nord non è poi tanto diverso dal sud, né l’est dall’ovest e viceversa. È tutta una questione di punti di vista. L’Europa non è altro che un favo estremamente fragile, fatto di particolarismi culturali, storici e mentali. Nessun europeo assomiglia veramente a un altro. E malgrado ciò, noi preferiamo considerare questa Europa non come un favo, ma come un vasetto di miele, al quale attingere di continuo, pronto per essere consumato.

Traduzione di Anna Bissanti