Il paradosso, talvolta
drammatico, delle formazioni d’avanguardia è quello di veder riconosciute le
proprie ragioni e, quindi, venir “assorbite” dalla moltitudine che le
sottoscrive.
I socialisti italiani, al netto del reducismo
auto-compassionevole, nel centrosinistra nazionale degli ultimi vent’anni
all’avanguardia lo sono stati e, su temi e profili salienti, continuano ad
esserlo.
Basti pensare alla
cocciuta caparbietà con cui hanno difeso l’idea stessa di un “campo” della
sinistra, riformista e di governo, di fronte all’opprimente pensiero unico
della fine delle ideologie e delle identità o di come hanno insistito - ed
insistono – nel tenere unite le libertà civili con quelle economiche in una
chiave di laicità e piena legalità. Di come, in ultimo, a fronte di vere e
proprie involuzioni culturali nazionali (come “il PD non è un partito di
sinistra” dichiarato da Veltroni all’indomani della sua elezione a segretario),
hanno sempre tenuto funzionante e ben manutenuta la relazione con il Socialismo
europeo, come campo comune e come singole forze nazionali. E l’elenco potrebbe
continuare.
Ma oggi, dopo un Bersani
che, con alle spalle un fondale tutto rosso come nelle migliori tradizioni
socialiste e laburiste continentali, attraverso la sua “carta d’intenti” dice,
praticamente, ai socialisti: “sono d’accordo con voi, avevate centrato temi,
termini e obiettivi”, cosa devono fare gli stessi? Come tutte le avanguardie
che si rispettino, una volta fattesi raggiungere dalla “maggioranza” fino a
quel momento alle spalle, con la stessa si ricongiungono? Oppure, non
esauriscono il loro compito dinamico e pongono e si pongono nuovi obiettivi
conseguenti?
Se proviamo per un
attimo ad astrarci dalla possibile nuova legge elettorale in gestazione (anche
se, passasse il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, qualche
riflessione andrebbe fatta…) e traguardassimo un po’ più in la, all’Europa e
alla sua possibilità epocale di effettiva unione politica federale oltre che
economica e fiscale, l’opzione sarebbe quella di continuare ad esserci, anzi,
di esserci con maggior vigore. Perché se l’obiettivo strategico possono davvero
essere gli Stati Uniti d’Europa, è naturale pensare al Partito del Socialismo
Europeo come corpo unico effettivo e non, come oggi, coordinamento di partiti
nazionali con gruppo unico transnazionale al Parlamento di Strasburgo.
E allora, chi meglio dei
socialisti italiani, avanguardia del socialismo continentale, può tenere alta
la bandiera e permettere al PD di compiere pienamente la sua ineluttabile
evoluzione “europea”?
Forse occorre pensare a
nuove dimensioni e forme dell’agire politico, forse la forma organizzata fin
qui vissuta non è sufficiente a superare la mera sopravvivenza e supportare una
nuova stagione. Forse, sarebbe meglio pensare al varo di un “Movimento per il
Socialismo Europeo” (e ad una possibile offerta elettorale di “Socialisti
Europei”), capace di attrarre, elettoralmente e non, centralmente e in
periferia, figure, organizzazioni e realtà che quel profilo culturale hanno
sempre riconosciuto come proprio e che permetterebbe la non dispersione di
forze non immediatamente rappresentabili dal PD di oggi, ancora agli inizi
della sua evoluzione.
E’ vero, oggi
presupporre due sinistre, una riformista e di governo e una di “testimonianza”
e radicale può sembrare anacronistico (anche questa volta, i socialisti
all’avanguardia!!); ma è stolto non vedere che questo anacronismo, alimentato
dal ventennio grigio della 2° Repubblica, purtroppo in Italia è ancora vivo e
vegeto.
Ha ragione Bersani: se
si è per il popolo, il nemico è il populismo (e il giustizialismo assolutista,
mi permetto di aggiungere). E chi meglio dei socialisti europei-italiani può
aiutarlo a vincere su questo presupposto?
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