Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


giovedì 31 maggio 2012

Crisi del debito: Bruxelles nega l’evidenza

Il rapporto sullo stato delle economie dei 27 pubblicato il 30 maggio dimostra che nonostante qualche progresso la Commissione continua a difendere la fallimentare strategia dell’austerity.

Larry Elliott 31 maggio 2012 THE Guardian Londra

Con i rendimenti dei bond spagnoli che si stanno rapidamente avvicinando al 7 per cento, l’economica greca sull’orlo dell’abisso e il futuro della moneta unica sempre più incerto, Bruxelles non avrebbe potuto scegliere un momento migliore per pubblicare le sue schede sui ventisette paesi dell’Unione europea. In effetti questo era il momento ideale per procedere a un esame della situazione, soppesare le opzioni politiche disponibili e annunciare un piano per affrontare la crisi in atto.

Le carte appena pubblicate riflettono l’atmosfera cupa e pesante che si respira. In esse si riconosce che l’unione monetaria sta vivendo il suo periodo più difficile dai tempi della sua creazione. Si ammette – per modo di dire – che le politiche attuate non stanno dando frutti. E si suggerisce, forse più per disperazione che per altro, in che modo dovrebbe reagire l’Europa: con gli eurobond, con un’unione bancaria, con un’iniezione diretta di fondi nelle banche più a rischio prelevati dal fondo permanente di stabilità.

Ciò è bastato a dare ai mercati finanziari qualche rosea prospettiva, allorché gli operatori commerciali sono stati rassicurati dal fatto che Bruxelles era forse un po’ meno disorientata di quanto sia apparsa negli ultimi mesi. Ma come strategia per risolvere la crisi si rivelerà un altro bidone. Perché una cosa è certa: tutte le grandi idee sono già state lanciate e tutte hanno ricevuto un sonoro “nein” da Angela Merkel.

La questione di fondo, tuttavia, è che ancora adesso la Commissione pare voler proseguire a sminuire il flop di una strategia che continua a fare troppo affidamento sull’austerity. Ciò che sta accadendo nel ventre molle della zona euro è che i paesi vedono deteriorarsi le loro finanze pubbliche proprio mentre le loro economie stagnano in recessione. Per alcuni di loro, come la Grecia, il problema è sempre stato quello di prendere troppi capitali in prestito, per altri come la Spagna e l’Irlanda il problema è iniziato con un’orgia di prestiti incontrollati al settore privato che ha poi costretto lo stato a pagare il conto, una volta che le varie bolle sono scoppiate.

Era prevedibile che una crescita debole e banche deboli dessero come risultato finanze pubbliche deboli. Ai paesi più in difficoltà è stato offerto aiuto finanziario, ma soltanto a condizione che rispettassero alcuni obiettivi molto rigidi e abbassassero i loro deficit. I tagli alla spesa e gli aumenti delle tasse hanno portato a una crescita ancora minore, se possibile, a banche ancora più fragili e a presunti obiettivi di riduzione del deficit andati a vuoto, in alcuni casi in modo spettacolare.

Si prenda a esempio questa descrizione di quanto è accaduto in Grecia, dove la ripresa che in precedenza era prevista per il 2013 è scivolata – sorpresa, sorpresa – ancora più in là: “Numerosi fattori ne hanno ostacolato l’attuazione: instabilità politica, irrequietezza sociale, problematiche riconducibili alla capacità dell’amministrazione e una recessione che è di gran lunga più grave di quanto stimato in precedenza”.

Tutto ciò naturalmente si va a sommare al resto, maci sono ancora pochi segnali che Bruxelles stia capendo la situazione. Dice di voler trovare il giusto equilibrio tra il bisogno di consolidare, riformare e crescere, senza però ammettere che il mix valutario è del tutto inadeguato.

All’Europa servono tre cose: un piano per la crescita, un piano per ricapitalizzare le banche e infine un piano per spartire gli oneri in modo più equo tra il ricco nord e il povero sud. Ora come ora l’Ue non ha nessuno di questi tre piani. Ed è per questo che la sua sopravvivenza è a rischio.(Traduzione di Anna Bissanti)

Unione europea

Mercati in agguato


Dopo la pubblicazione del rapporto della Commissione europea, Mediapart reagisce con preoccupazione:

La Commissione europea sembra essersi resa conto a mala pena della catastrofe. […] In sostanza, nonostante le grida d’allarme provenienti da ogni dove […] la Commissione non devia dal suo cammino: strategia perdente non si cambia.

Dopo aver elencato tutti i mali di Grecia e Spagna, il sito si stupisce del fatto che

in nessun momento gli esperti sembrano porsi la questione non tanto dell’iniquità dei provvedimenti (sarebbe troppo lontano dalle loro preoccupazioni) ma almeno della loro opportunità, con un’economia in piena depressione e milioni di persone senza un lavoro.

Mediapart evoca la via indicata alla Francia, fatta di riforme strutturali e avvisi sul debito pubblico, dimostrazione del fatto che per la Commissione “il dibattito sulla crescita è chiuso prima ancora di essere stato avviato”.

Dopo aver atteso segnali politici che non sono arrivati, il rischio è che sia la finanza a sancire la sorte dell’Europa, con totale disordine e inaudita violenza.

Grecia - La colpa è di Atene

I greci non sono gli unici in Europa a dover fare i conti con l’austerity, ma si sentono vittime di un complotto tedesco. Dopo anni di aiuti sprecati l’Ue deve costringerli a mettere finalmente mano alle riforme.
Jean Quatremer 31 maggio 2012 COULISSE DE BRUXELLES
Lo scorso fine settimana la direttrice generale dell'Fmi Christine Lagarde è stata probabilmente troppo brutale nella sua intervista al Guardian, quando si è stupita del senso di ingiustizia provato dai greci. Per lei la Grecia non deve essere troppo compatita: “Penso più ai bambini di una scuola di un piccolo villaggio del Niger che hanno due ore di lezione al giorno, che devono spartirsi una sedia in tre e che cercano con entusiasmo di avere accesso all'istruzione. Penso a loro continuamente perché sono convinta che abbiano più bisogno di aiuto della popolazione di Atene”. Per Lagarde “i greci dovrebbero cominciare ad aiutarsi fra di loro”, e per fare questo dovrebbero “pagare tutti le loro tasse”.
Al di là della violenza di queste affermazioni, decisamente imbarazzanti a tre settimane dalle nuove elezioni legislative greche, la direttrice generale dell'Fmi mette il dito sulla piaga. Senza dubbio gli investitori hanno fatto male a prestare capitali senza fare attenzione per più di 20 anni alla Grecia, ma hanno pagato cara questa disattenzione acconsentendo all’annullamento di più del 70 per cento dei loro crediti (una buona parte di questi crediti riguarda gli stessi investitori greci, le banche, le assicurazioni e i fondi pensione), cioè 105 miliardi di euro. Si tratta della più grande ristrutturazione del debito della storia del capitalismo (per l’Argentina la cancellazione è stata di “soli” 88 miliardi di dollari).
Per solidarietà, poiché la caduta della Grecia rischierebbe di far crollare la moneta unica, la zona euro e l’Fmi hanno prestato complessivamente ad Atene 240 miliardi (anche se l’ammontare totale di questa somma non è stato ancora completamente versato). A questa cifra si devono aggiungere gli (almeno) 50 miliardi di obbligazioni di stato greche ricomprate sul mercato secondario (quello della rivendita) dalla Banca centrale europea. In totale 290 miliardi di euro, circa due volte e mezzo l’ammontare del bilancio comunitario annuale, per un paese di 11 milioni di abitanti che vale appena il 2 per cento del pil dell’Ue. Nella sua storia l’Fmi, che da solo ha prestato un terzo di questa somma, non ha mai versato tanto denaro a un solo paese.
Ricordiamo che questa solidarietà non è recente: dalla sua adesione all’Unione, nel 1981, e soprattutto dopo la creazione dei fondi strutturali (aiuti regionali) nel 1988, la Grecia ha ricevuto ogni anno fra il 3 e il 4 per cento del suo pil in aiuti europei. Senza contare che dal 2002, quando è entrato a far parte della zona euro, il paese ha potuto prendere a prestito sui mercati ai tassi di interesse tedeschi.
Ma che cosa ha fatto di questo afflusso di capitali senza precedenti? Quello che è certo è che non se ne è servita per sviluppare il paese, ma per alimentare una clientela politica e per sostenere i consumi (la Grecia era uno dei principali mercati europei per le automobili di lusso tedesche). Si capisce quindi la crescente irritazione degli europei e dell’Fmi nei confronti di quella che considerano come ingratitudine da parte di un paese che è sfuggito di poco a una bancarotta che avrebbe avuto effetti molto più gravi della severa cura di rigore che subisce attualmente.
Il piano di aggiustamento indica soprattutto le riforme che la Grecia deve fare per costruire uno stato. La sua lettura è edificante: sono passati in rassegna tutti i settori dell'amministrazione, del sistema sanitario, della fiscalità, del diritto, delle gare d’appalto, e la conclusione è che la Grecia dispone di uno stato meno efficiente della Turchia.
Il problema è che la Grecia non fa bene i suoi compiti, sia per incompetenza di gran parte del personale politico e dell’amministrazione sia per la resistenza di coloro che hanno tutto da perdere dalla realizzazione di queste riforme. Il primo piano di rigore negoziato con l’Fmi e l'Ue nella primavera 2010 non è mai stato applicato, come ha riconosciuto lo stesso governo Papandreou, e il secondo è bloccato dopo le elezioni del 6 maggio scorso.
La legge che apre alla concorrenza più di 150 professioni, votata un anno fa, non è stata ancora applicata per mancanza di volontà amministrativa. Creare un’impresa è ancora complicato. Il catasto non è stato ancora realizzato (eppure l’Unione lo chiede da 20 anni e ha anche pagato per aiutare i greci a farne uno). E quando il fisco fa il suo lavoro, la giustizia corrotta, lenta e inefficiente non fa il suo e questo permette agli evasori di farla franca. Per il 2009 si ritiene che l’evasione fiscale sia stata tra 15 e 20 miliardi di euro, cioè tre quarti del deficit di bilancio dell’epoca. In altre parole l’economia sommersa (fra il 30 e il 40 per cento del pil) rimane ancora molto florida.
In Grecia ci sono persone che soffrono, questo è innegabile: la riduzione degli stipendi e delle pensioni, la recessione (la Grecia ha perso il 30 per cento della sua ricchezza nazionale, e la perdita di questa ricchezza, anche se ottenuta a credito, rimane comunque molto dolorosa), sono una triste realtà. Ma l’atteggiamento di questo paese si può paragonare a una vera e propria scelta nazionale: si preferisce conservare un sistema clientelare (i partiti contrari a questo sistema non hanno superato la soglia del 3 per cento) e si vota per dei partiti che promettono di poter ottenere l'aiuto internazionale senza fare sacrifici.
Altri paesi sono sottoposti a cure di rigore altrettanto dure (il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e l’Italia) ma nessuno li sente protestare. La differenza? La Grecia ha sempre avuto una tendenza alla vittimizzazione, e inoltre pensa di avere diritto a un trattamento di favore perché è la culla della civiltà occidentale. Come se Roma invocasse Cicerone o Augusto quando si chiede all’Italia di riformare il suo mercato del lavoro o di lottare contro la mafia.
Fondo perduto
Ma allora, che fare? L’Europa non ha altra scelta che continuare ad aiutare la Grecia, che rischia di far colare a picco la moneta unica. Ma bisogna ricordare ai greci che il piano di aggiustamento è stato accettato dal governo legittimo della Grecia e ratificato dai 17 parlamenti nazionali della zona euro (compresa la Vouli, il parlamento greco), e questo dovrebbe impedire di parlare di un “diktat tedesco”. Inoltre una denuncia unilaterale di questo piano mostrerebbe che non si può dare fiducia alla Grecia e che una nuova maggioranza potrebbe non sentirsi legata agli impegni presi in nome del paese. Una vittoria della sinistra radicale significherebbe la fine di quella spinta federale peraltro necessaria alla sopravvivenza dell’euro.
È molto probabile che gli europei non rivedranno più il denaro che hanno prestato alla Grecia. Ma questo abbandono dei crediti non deve essere accettato a qualunque condizione: la Grecia, che lo voglia o meno, deve cambiare e riformarsi in profondità. Rinunciare ai nostri crediti in modo incondizionato come vorrebbero alcune anime belle, e si tratta di un sacrificio che pesa su tutti gli europei, significherebbe la certezza di dover di nuovo correre in aiuto dei greci fra 20 anni. La “botte delle Danaidi” è un’eredità della Grecia antica di cui faremmo volentieri a meno.(Traduzione di Andrea De Ritis )

SPAGNA: Bankia è un osso troppo duro per Rajoy

Nonostante le rassicurazioni del governo, Madrid sarà probabilmente costretta a chiedere aiuto all'Europa per salvare le sue banche. Un intervento che potrebbe implicare la messa sotto tutela della sua politica economica.
Claudi Perez / Luis Doncel 29 maggio 2012 EL PAIS Madrid
Gli avvoltoi sono in fermento, sicuri di essere vicini a vincere la partita. Lo scenario che si delinea per le strade di Madrid e nei dispacci di Berlino – che un paese dell’Ue chieda di poter ricorrere al fondo di salvataggio – sembra sempre più plausibile. Lunedì il presidente Mariano Rajoy ha negato per l’ennesima volta che le banche spagnole avranno bisogno di un aiuto esterno, ma il buco di Bankia spinge il pese sempre più verso l’abisso.
Già prima della notizia che lo stato dovrà versare altri 19 miliardi di euro nelle casse di Bankia, molti esperti parlavano della necessità che il governo, per doloroso che sia, chieda aiuto all’Ue per ricapitalizzare i suoi istituti finanziari. “Avrebbe dovuto farlo molto tempo fa. Ma meglio tardi che mai”, spiega Daniel Gros, ricercatore del Ceps. “È probabile che quest’anno la Spagna entri in qualche tipo di programma tutelato dalla troika in modo da ricevere più sostegno della Bce per gestire il debito pubblico o la difficile situazione delle banche”, ha dichiarato mesi fa il capo economista del Citi William Buiter.
Nell’equazione ci sono però ancora molte incognite, e non riguardano soltanto l’eventualità che la Spagna finisca per fare il grande passo. Non sappiamo ancora quale sarà il sistema scelto, come non sappiamo se i correntisti si faranno prendere dal panico e se l’Ue riuscirà a scongiurare il contagio dell’Italia e in un secondo momento anche della Francia e del Belgio.
La scorsa estate i leader dell’Unione hanno modificato il fondo temporaneo di salvataggio – ufficialmente il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf) – in modo che potesse evitare il crollo di buona parte del settore bancario spagnolo. Innanzitutto ne è stata aumentata la dotazione, da 440 miliardi e 780 miliardi di euro (anche se la capacità effettiva non ha in realtà superato i 440 miliardi). Un mese dopo sono state ampliate anche le competenze: il meccanismo avrebbe potuto essere utilizzato anche per ricapitalizzare entità finanziarie attraverso il prestito agli stati.
Il problema è che in questo modo il denaro passa prima per le casse del governo, che si assume il peso del debito per poi ricapitalizzare gli enti in difficoltà. Si tratta di un sistema condizionato, che implica clausole come quelle imposte a Grecia, Irlanda e Portogallo. In definitiva, anche se dovesse trattarsi di un salvataggio “light” – per salvare le banche, non lo stato – l’Europa avrebbe voce in capitolo in ambiti come la politica fiscale, i servizi pubblici, le privatizzazioni e la gestione degli enti ausiliari, imponendo alla bisogna dolorosi programmi di ristrutturazione.
L’aspetto più preoccupante, comunque, è la possibilità che la Spagna sia incapace di finanziarsi sul mercato per un tempo indefinito. “Si può chiamare in molti modi diversi, ma resta un intervento esterno in piena regola”, spiega una fonte ai vertici della gerarchia comunitaria.
Scenario irlandese
Lo scenario che si prospetta ricorda da vicino quanto accaduto in Irlanda: lo stato appoggia le banche, ma il buco è troppo grande e il paese è costretto a chiedere un aiuto esterno. “Se il denaro potesse essere versato direttamente nelle casse delle banche [un’idea scartata nettamente dalla Germania] sarebbero gli istituti ad assumersi la responsabilità di restituirlo”, spiga il professor Santiago Carbó. “L’Europa dovrebbe controllare e supervisionare le banche salvate, il che potrebbe spingerla verso un’unione bancaria. Ma non illudiamoci, non accadrà niente del genere prima che il Mede sia ratificato”, aggiunge Guntram Wolff, del think tank belga Bruegel.
Il Mede di cui parla Wolff è il Meccanismo europeo di stabilità, che dal primo luglio prossimo dovrebbe diventare il fondo di riscatto permanente e sostituire l’Efsf. Non soltanto il nuovo fondo sarà più potente (con mezzo miliardo di euro di denaro fresco), ma anche più flessibile. Tuttavia prima di entrare in vigore dovrà essere ratificato dagli stati dell’Ue. Un ritardo nella tabella di marcia, con la Spagna tra le fiamme, sarebbe un segnale catastrofico.
Cosa accadrà se finalmente il governo spagnolo si vedrà costretto a ricorrere al fondo di salvataggio? La risposta arriva dal professore di Harvard Kenneth Rogoff: “Se l’eurozona e la Bce non compieranno passi avanti decisi e rapidi, si scatenerà il panico bancario in tutta la periferia, con spaventose fughe di capitali. Per evitarlo bisogna rifornire le banche di liquidità. L’eurozona dovrebbe salire diversi gradini verso l’unione fiscale e adottare gli eurobond. In futuro ci saranno ancora una volta provvedimenti eccezionali e impensabili fino a poco tempo prima, come è accaduto ogni volta che l’Europa è stata vicina al crollo”. (Traduzione di Andrea Sparacino)
Banche

Un problema spagnolo


“L’effetto Rajoy arriva tardi e non arresta l’emorragia” dei mercati, scrive El Mundo all’indomani della conferenza stampa convocata dal primo ministro spagnolo. Il quotidiano madrileno critica l’intervento di Rajoy giudicandolo poco concreto:

Sarebbe stupido cercare di sviare l’attenzione dai nostri problemi di finanziamento del debito verso il contesto europeo in generale. Siamo nel mirino dei mercati a causa di Bankia e dell’incertezza che incombe sul settore finanziario spagnolo. Ma anche per via dell’aiuto urgente di cui ha bisogno la Catalogna e dell’estensione del problema alle altre regioni.

Il quotidiano aggiunge che il governo annuncerà venerdì prossimo la creazione di “hispanobond”, titoli di stato per finanziare le regioni più indebitate tra cui figurano la Catalogna, l’Andalusia, la Comunità valenciana, le Baleari e Castilla la Mancha. Il denaro necessario è stimato attorno ai 17 miliardi di euro entro la fine del 2012. Secondo El Mundo

il governo vuole finanziare da giugno una grande operazione di salvataggio di alcune regioni sull’orlo del default, che non hanno altra scelta dopo che i mercati hanno voltato le spalle alle loro emissioni [di debito pubblico].

URUGUAY - Presidente povero

Mujica vive con 800 euro al mese.
di Silvia Ragusa
Maggio 2012 - La sua vittoria in Uruguay, nel marzo 2010, fu un evento storico. La capitale Montevideo esplose. Persone di tutte le età e classi sociali scesero in strada per festeggiare il nuovo presidente: l'ex guerrigliero di sinistra José Mujica che, dal Movimento de participación popular (Mpp) contro la dittatura, era arrivato alla guida del Paese.
Ora Mujica, 78 anni, fa notizia per un altro motivo: vive con 800 euro al mese, rappresentando il miglior modello di austerity su scala internazionale.
Pepe, come vuole essere chiamato il presidente, abita in una fattoria a Rincón del Cerro, alla periferia della capitale. Una cascina che non gli appartiene perché è della moglie, la senatrice Lucía Topolansky.
SENZA CONTO IN BANCA. Per il fisco, l’unico patrimonio di Mujica è una vecchia Volkswagen Fusca color celeste. Il presidente uruguaiano non sa cosa sia una carta di credito, né un conto in banca. E la sua unica scorta è il cagnolino Manuela.
Lontano dagli stili di vita opulenti dei suoi colleghi oltrefrontiera, ogni mese Mujica trattiene per sé solo 20 mila pesos, circa 800 euro, dei 250 mila (quasi 10 mila euro) che riceve come stipendio.
STIPENDIO DA FAME. Il resto - quasi il 90% del salario - viene distribuito al Fondo Raúl Sendic, che si occupa dei settori più poveri della popolazione, al Mpp che aiuta cooperative sociali, e a varie organizzazioni non governative (ong), che lavorano per costruire abitazioni nel Paese.
A chi gli ha chiesto spiegazioni per questo stipendio «da fame», il presidente ha detto: «I soldi mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno».

Da venditore di fiori a presidente dell'Urugay

Mujica, ex venditore di fiori, negli Anni '60 ha fatto parte del Movimento di liberazione nazionale dei Tupamaros: l’organizzazione radicale ispirata al marxismo, che si rifaceva alla Rivoluzione cubana.
Sotto la dittatura di Jorge Pacheco Areco, il movimento si è poi trasformato in un’organizzazione di guerriglia urbana. Ferito sei volte in scontri armati, è stato arrestato quattro volte, è evaso altre due e ha trascorso in carcere circa 15 anni. Fino alla sua liberazione, nel 1985, con l’amnistia generale.
LA SVOLTA POLITICA. Da allora, prima di diventare presidente, Mujica ha trascorso il tempo nella sua fattoria a Rincón del Cerro, impegnandosi nella fondazione del Mpp, del quale - dal 1999 - è stato prima deputato, poi senatore.
Parte del gruppo di centro-sinistra Frente Amplio, l'Mpp è stato decisivo per l’elezione alla presidenza del Paese, nel 2005, del socialista Tabaré Vázquez. Del suo governo, tra il 2005 e il 2008, Mujica è stato ministro per l’Allevamento, l’agricoltura e la pesca.

Il 'cubano' Mujica conquista Stati Uniti ed Europa

I suoi aficionados lo ricordano ancora giovane, dopo la caduta della dittatura militare, a cavallo della sua Vespa che lo portava in parlamento. Ma neanche da presidente il suo stile di vita è cambiato.
Chioma grigia spesso scompigliata, mai la cravatta, l’aria di uno che si trova lì per caso, soprattutto quando è vicino ad altri capi di Stato, da quando è stato eletto ha subito proposto di donare la sua pensione presidenziale al Paese, accettando come auto blu una semplice Chevrolet Corsa.
NIENTE SPRECHI, NÉ PROTOCOLLI. Niente sprechi, niente protocolli, Pepe si ferma sempre a parlare con i cittadini, saluta il macellaio del quartiere, abbraccia i ragazzi della piccola squadra di calcio Huracán, si mette in posa per qualche scatto.
Un modo di governare che attira simpatie ovunque. Nonostante sia un ex combattente vecchio stampo, di fede cubana, Mujica gode di buona reputazione anche negli Stati Uniti.
E anche in Europa ha conquistato supporter, nonostante, dopo l’elezione, la sua unica visita sia stata in Spagna.
Si trattava di un viaggio privato per incontrare uomini d’affari e potenziali investitori.
Ora Mujica vuole attrarre nuovi capitali stranieri, soprattutto nel settore minerario, promuovere il commercio e lo sviluppo economico nel suo Paese.

CRISI EUROZONA: Spagna all'ultima spiaggia

Banche in crisi e debito alle stelle.
Giovedì, 31 Maggio 2012 - Disoccupazione, crac bancari,  recessione. Alla Spagna in ginocchio  non resta che affidarsi alla natura.
Il municipio di Tarifa, in Andalusia ha in programma di vendere il litorale di Valdevaqueros, una delle ultime spiagge selvagge frustate dal vento di Levante, per costruire 350 appartamenti e hotel di lusso e incassare contanti rapidamente.
Misura disperata, letteralmente. Ma, dal Sud al Nord, dalla costa del Sol ai Pirenei, le amministrazioni locali cercano di rastrellare capitali per affrontare la crisi economica più grave vissuta dal Paese dalla fine della dittatura.
DEBITO, FUGA DI CAPITALI, RECESSIONE. Il governo centrale annaspa nelle stesse acque, alle prese con la mancanza di liquidità del sistema bancario, la fuga dei capitali esteri, tassi di interesse sui titoli di Stato vicini al 7%, un deficit superiore alle attese e una cronica mancanza di crescita, certificata dal record continentale della disoccupazione. Messi in fila sono dati da brividi, pericolosamente sottovalutati dagli stessi spagnoli. Per la quarta economia dell'Eurozona, e per l'Italia a rischio contagio, sono ore cruciali.

Dalle banche ritirati 100 miliardi in 12 mesi

Mentre tutti si concentrano su Atene, i capitali hanno iniziato a lasciare la penisola iberica, soprattutto quelli stranieri. Ad aprile si è registrato il calo dei depositi bancari su base mensile più vistoso dal 2010: una fuga di oltre 31 miliardi di euro, pari all'1,9% dei fondi totali. Negli ultimi 12 mesi sono stati ritirati più di 100 miliardi.
Il piano per mettere in sicurezza il sistema del credito, attualmente allo studio della Moncloa, è ancora più urgente. L'obiettivo è isolare gli asset tossici immagazzinati con la bolla immobiliare che nei prossimi due anni potrebbero provocare perdite per 260 miliardi di euro. E ricapitalizzare gli istituti in difficoltà.
TENSIONI EUROEPEE SU BANKIA. Solo per Bankia, quarta banca del Paese, nazionalizzata il 9 maggio, servono 19 miliardi di euro.
Il 30 maggio Madrid ha proposto a Bruxelles di pagarli emettendo nuovo debito, una scorciatoia che la Commissione ha sonoramente bocciato.
E che ha attirato gli strali del numero uno della Banca centrale europea, Mario Draghi. «L'importanza del problema è stata sottovalutata», ha dichiarato il governatore, «e questo è il modo peggiore di fare le cose, che alla fine vengono fatte, ma a costi più alti».
SPREAD A QUOTA 540 PUNTI. Lo Stato spagnolo tocca con mano quotidianamente cosa significhi l'espressione usata da Draghi. Con lo spread tra i bonos e i bund tedeschi arrivato a quota 540 punti, gli investitori chiedono interessi al 6,7%.
Un'impennata che ha contribuito ad ampliare il già preoccupante buco nelle casse statali.
Secondo il ministro dell'Economia, Luis de Guindos, nel 2012 il debito arriverà all'80% del Prodotto interno lordo (Pil): un aumento del 15% sul 2011, di cui una quota significativa è dovuta all'indebitamento delle amministrazioni regionali.
La spirale continua ad avere effetti devastanti sull'occupazione: nel primo trimestre dell'anno la percentuale dei senza lavoro ha segnato il record continentale del 24,4%, ma tra i giovani è addirittura al 52%.

I salvagenti dell'Europa e l'esperimento hispanobonos

Come altri prima di lei, Madrid non sembra avere soluzioni in tasca. Il timore è quello di finire come il municipio di Tarifa, che per alleviare la crisi provocata proprio dalla bolla immobiliare vende la spiaggia e costruisce appartamenti.
Ma a Bruxelles, questa volta, sanno quanto alto sia il rischio. E per venire incontro alla Spagna, sembra che la Ue sia disposta a cambiare le regole in corsa e lanciare salvagenti al sistema del credito.
IL FONDO SALVA STATI PER LE BANCHE. Parte della dotazione del fondo salva-Stati in vigore dal prossimo luglio potrebbe essere utilizzata per soccorrere le altre banche spagnole in difficoltà, nonostante inizialmente il fondo fosse destinato solo ed esclusivamente al rifinanziamento delle casse pubbliche.
Secondo le indiscrezioni, CatalunyaCaixa, NovacaixaGalicia e Banco de Valencia necessitano di almeno 30 miliardi di euro. Altrimenti impossibili da trovare.
Inoltre l'Europa potrebbe accettare un nuovo rinvio degli obiettivi di rientro del deficit. Stando agli attuali patti, il disavanzo dovrebbe essere quasi dimezzato, passando in un solo anno dall'8,9 al 5,3%.
LA PROVA DEGLI HISPANOBONOS. Finora l'unica ricetta innovativa è l'idea di introdurre gli hispanobonos: obbligazioni garantite dal governo centrale, con cui le amministrazioni regionali già indebitate e che attualmente faticano a recuperare credito sul mercato, possano incamerare denaro.
Si tratta di una sorta di eurobond in salsa iberica. L'iniziativa ha ricevuto il placet di Moody's: la Spagna, insomma, potrebbe essere il terreno su cui testare uno strumento sempre invocato, ma mai concretamente sperimentato sul suolo europeo.

Le carenze del premier Rajoy

Il Paese, insomma, affronta l'ignoto. E con un timoniere con poca esperienza come Mariano Rajoy, che ha vinto le elezioni a novembre 2011 con un'ampia investitura popolare, ma senza le doti del tecnico, né carisma politico.
A lungo seconda linea dei popolari, poco avvezzo all'economia e nemmeno troppo inserito in Europa, Rajoy non si fa vedere. Rifugge i riflettori, diserta il dibattito pubblico, manda avanti i ministri.
CONTRADDIZIONI DEL GOVERNO. Il Partido popular assicura che è carattere, anzi, stile sobrio di governo. Ma intanto l'esecutivo ha collezionato una serie di figuracce: dichiarazioni, contraddizioni e smentite, sulle previsioni di crescita come sul salvataggio di Bankia.
I conservatori, poi, sono corresponsabili dell'indebitamento spropositato di alcune regioni importanti, come Madrid o Valencia.
LA PAURA DELLA CRISI. Forse, dunque, Rajoy ha paura di essere fagocitato da quella crisi che gli ha regalato la poltrona di primo ministro. Battuto da José Luis Zapatero nelle elezioni del 2004 e anche in quelle del 2008, nel 2012, al terzo tentativo, ha potuto approfittare dell'emergenza economica che il socialista si è ostinato a non riconoscere.
Ma ora che ha raggiunto il gruppo dei capi di governo europei, sembra vittima della maledizione: è diventato come loro, drammaticamente inadeguato di fronte all'emergenza.

Unione europea - I parassiti di Bruxelles

28 maggio 2012 Uważam Rze
“Dove ci porteranno gli europarassiti?”, si domanda il settimanale conservatore Uważam Rze parlando della “casta” di funzionari delle istituzioni. Gli eurocrati non soltanto vivono nell’abbondanza – salari alti, rimborsi spese, bonus e liquidazioni faraoniche – ma sostengono di farlo “per il bene di tutti gli europei”.

Negli ultimi due decenni i burocrati di Bruxelles si sono costruiti un nido accogliente dove vivere nell’opulenza e senza stress. Un funzionario Ue ha confessato che “la recessione non è mai arrivata a Bruxelles”.

Oltre ai privilegi e ai bonus, gli eurocrati sono protetti da un’“immunità corazzata” garantita dai trattati europei (dunque irrevocabile e invariabile a meno di lunghissimi negoziati per la modifica dei trattati) valida durante l’esercizio delle funzioni e anche in seguito.

Chi è abbastanza fortunato da lavorare per l’Unione europea non deve temere la povertà. L’Ue spende con noncuranza, e senza alcuna attenzione per i costi e l’opinione pubblica.

UNGHERIA - Le nostalgie di Budapest irritano i vicini

29 maggio 2012 Népszabadság, Evenimentul Zilei
“Il passato conteso”, titola Népszabadság dedicando la prima pagina alle reazioni suscitate in Europa dalla nostalgia del governo nazionalista di Viktor Orbán per il regime fascista dell’ammiraglio Miklós Horthy (1920-1944). Recentemente la rivista Magyar Narancs aveva parlato del ritorno del culto di Horthy: un po’ ovunque nel paese sono state collocate statue e targhe dedicate al dittatore, con la benedizione dei comuni amministrati da Fidesz (il partito di Orbán), del governo e della stampa conservatrice.

L’ultimo episodio riguarda la Romania, dove vive un’importante comunità magiarofona e dove la sepoltura delle ceneri del controverso poeta d’origine ungherese József Nyirő (1889-1953) voluta dal governo di Budapest è stata vietata dalle autorità. Arrivate dalla Spagna (dove Nyirő è morto) per essere sepolte nel villaggio transilvano di Odorheiul Secuiesc, le ceneri sono attualmente bloccate a Budapest. Le autorità romene si rifiutano di farle entrare nel paese e hanno scatenato quella che il quotidiano romeno Evenimentul Zilei ha definito “caccia elle ceneri”. “Alcuni politici di Budapest contribuiscono a tessere le lodi di un antisemita legato all’estrema destra”, commenta Népszabadság. La Romania ha proibito dal 2002 ogni commemorazione o omaggio per gli eroi del fascismo e dell’antisemitismo.

Anche i rapporti con Mosca si sono deteriorati, scive Nèpszabadsag citando l’ambasciatore russo in Ungheria. Il diplomatico

ha ribadito che Mosca non approva la recente riscrittura della storia della Seconda guerra mondiale compiuta dal governo ungherese. Secondo l’ambasciatore gli storici revisionisti ungheresi riecheggiano la propaganda di Horthy e tacciono sulle atrocità commesse dall’esercito ungherese in Unione sovietica.

IRLANDA - “No, ma...” al trattato fiscale

L’Europa chiede agli irlandesi di pronunciarsi su un patto di cui ancora non si sa quasi niente. La risposta migliore sarebbe prendere tempo in attesa che la situazione si chiarisca.
Fintan O’ Toole 30 maggio 2012 THE IRIS TIMES DUBLINO
Ipotizziamo che vi arrivi una telefonata di sollecito da parte di una certa Angela, che vi convoca nel suo ufficio. Vi mostra la clausola penale di un contratto, quella che specifica le sanzioni alle quali si può andare incontro qualora si venga meno ai termini dell’accordo. Vi dice di firmare, subito, altrimenti passerete dei guai. E voi chiedete: “Ma dov’è il resto del contratto?” Risposta: “Ci stiamo ancora lavorando. Non vi riguarda. Firmate e basta”.
Questa è un’analogia abbastanza calzante con l’assurda situazione nella quale ci troviamo con il trattato fiscale, che – come ammettono ormai tutti – non è il nuovo trattato politico in grado di traghettare l’Unione europea fuori da una crisi potenzialmente letale. Il fatto è che è costituito soltanto da una clausola penale che non ha senso se non si conosce l’accordo vero e proprio. Chiederci di firmarlo prima ancora di sapere che cosa conterrà è un gesto di totale disprezzo.
L’unica reazione intelligente che può avere il popolo irlandese è quella di ricorrere una volta di più alle proprie notevoli risorse: l’arte del ripiego, dell’equivoco e del sotterfugio. L’ora dell’astuzia è finalmente arrivata!
In 1066 and all that, un libro umoristico di storia britannica, gli autori osservano che ogni volta che gli inglesi pensavano di avere una risposta alla “questione irlandese”, gli irlandesi cambiavano la questione. Nell’ambito delle relazioni anglo-irlandesi, la battuta è spiritosa. Ma anche in Europa cambiare le carte in tavola è una pratica irlandese molto collaudata: l’abbiamo già fatto due volte, con il trattato di Nizza del 2001-2002 e con il trattato di Lisbona del 2008-2009.
Dovendo scegliere tra votare “sì” e “no”, abbiamo optato per il “no, ma sì”, come dire “andate a farvi un giro, tornate, rivolgeteci una domanda un po’ diversa e vi risponderemo sì”. Non si tratta certamente degli episodi più eroici nella storia della democrazia irlandese, ma pur sempre di casi esemplificativi della nostra cultura politica. Forse, però, è arrivata l’ora di accettare e abbracciare il nostro lato esitante. Può anche darsi che “no, ma sì” in realtà sia la risposta più sensata all’assurdità offensiva con cui abbiamo a che fare.
La cosa più ovvia per il governo sarebbe stata rimandare il referendum, perché la crisi europea rende quanto mai variabile il suo significato. Ma neppure questo sarebbe stato particolarmente coraggioso: non soltanto la Francia si è rifiutata di firmare il trattato “così come è”, perfino la Germania ha dovuto rimandarne la ratifica. Il governo è così intimorito dalla prospettiva di allontanarsi di pochi centimetri da quella che viene ritenuta la retta via che ormai sta andando avanti in automatico.
Questo lascia l’elettorato alle prese con un vero dilemma. Le opzioni “sì” e “no” non si avvicinano neppure lontanamente a esprimere quello che prova l’opinione pubblica. La maggioranza dei votanti, immagino, si colloca al momento in uno di questi due campi: a) “sì, perché non c’è alternativa”; b) “no, ma ripassate pure a chiedercelo più avanti, quando avrete una strategia per la crescita funzionante”.
La prima opzione – dobbiamo acconsentire per forza – in realtà non costituisce una valida ragione per votare “sì”. Farlo significa sprecare il proprio voto. Se non c’è alternativa, il referendum è una sceneggiata. È una parodia di democrazia. L’unico modo di conservare un piccolo senso di dignità civile sarebbe uno spreco in massa del voto.
Cambio di direzione
La seconda opzione – “no, però chissà…” – implica che possa esserci un contesto nel quale il trattato fiscale assume un significato. Se per esempio ci fosse un serio impegno nei confronti di un investimento europeo a lungo termine per la crescita, allora gli irlandesi potrebbero fare i loro calcoli in modo radicalmente diverso. E altrettanto accadrebbe con un’adeguata risoluzione europea per le banche, in grado di sgravare le spalle dei contribuenti delle ingenti spese legate al salvataggio delle banche. Peccato non sapere se o in che misura il riaffiorare della crisi ci costringerà a simili radicali cambiamenti di strategia.
Votare “no” con un implicito invito a ripassare più avanti, quando tutti i dettagli della situazione si saranno palesati, potrebbe essere la risposta più onesta alla pretesa di prendere una decisione senza avere le debite informazioni. Oltretutto sarebbe un gesto responsabile da parte di veri cittadini europei incoraggiare un cambiamento di direzione, senza il quale l’Ue si distruggerà da sola.
Cambiare le carte in tavola è una specialità irlandese. Capita che ora questa specialità diventi una necessità vitale per l’Europa. (Traduzione di Anna Bissanti)

LITUANIA-RUSSIA: Vilnius chiede i danni dell’occupazione sovietica


30 maggio 2012 Lietuvos Rytas

A pochi mesi dalle elezioni legislative il governo lituano ha deciso di creare una commissione per valutare i danni subiti dalla Lituania durante l’annessione all’Unione sovietica (1944-1991). Vilnius intende chiedere un risarcimento a Mosca per mezzo secolo “di occupazione”. Lietuvos Rytas ricorda che una legge adottata nel 2000 obbliga il governo a impegnarsi in tal senso. Negli ultimi anni la presidente Dalia Grybauskaite aveva promesso di migliorare le relazioni con la Russia, “ma la politica estera della Lituania è stata allo stesso tempo passiva e conflittuale”, si legge nell'editoriale del quotidiano, secondo cui

È un peccato che negli ultimi anni la Russia si sia rifiutata di riconoscere i termini dell’accordo siglato all’epoca dal presidente Boris Eltsin, e che continui a negare sempre più nettamente l’occupazione sovietica della Lituania. […] In ogni caso è difficile credere che la creazione della commissione non serva solo a mascherare l’immobilità del governo conservatore e compiacere gli elettori, che sperano sinceramente nella giustizia storica e in un risarcimento per i danni inflitti alla Lituania. […] Per guardare in faccia il doloroso passato sovietico non resta che attendere pazientemente un clima politico più propizio in Russia.

Sondaggio: Gli europei perdono fiducia nell’Ue

30 maggio 2012 - “La crisi mina la fiducia degli europei nell’Ue”, titola EL PAIS all’indomani della pubblicazione di un rapporto del Pew Research Center a conclusione di un’indagine condotta a marzo e aprile in otto paesi europei (Regno Unito, Francia, Italia, Germania, Spagna, Grecia, Polonia, Repubblica Ceca). Secondo l’indagine soltanto un europeo su tre pensa che l’integrazione economica sia stata positiva per l’economia del suo paese, mentre il 37 per cento è convinto che l’euro non ha avuto alcuna incidenza positiva. Il sondaggio mostra inoltre che

Germania e Grecia sono i due poli dell’Ue attuale. Nei confronti della Germania e dei tedeschi, inclusa la cancelliera [Angela Merkel], l’opinione è largamente favorevole (il paese più ammirato, il leader politico più rispettato, il popolo che lavora di più, i più accaniti sostenitori dell’integrazione economica e dell’Ue, i meno corrotti), mentre nessuno ha un’idea positiva della Grecia, tranne i greci.

Il quotidiano madrileno sottolinea infine che

la Spagna, storicamente filoeuropea, è insieme all’euroscettica Repubblica Ceca il paese più deluso dall’Unione. Oggi soltanto poco più della metà degli spagnoli crede che l’Ue abbia fatto del bene al paese. A livello europeo l’euro continua ad essere apprezzato dalla popolazione, che lo vede come il male minore: meglio conservarlo che abbandonarlo.

Irlanda: Perché vogliamo il trattato fiscale

Il 31 maggio gli irlandesi votano il referendum sul patto voluto dalla Germania. Il quotidiano di Dublino si schiera per il sì, guardando all’interesse del paese più che alle dispute politiche.

 THE IRISH TIMES DUBLINO

30 maggio 2012- Domani, al termine di una campagna aspra e spesso non molto illuminante, voteremo sul trattato fiscale europeo. Ma non ci esprimeremo sulla performance del governo, e neppure sull’austerity. Decideremo se consentire o meno al governo di ratificare il trattato fiscale ed emendare la nostra Costituzione di conseguenza. Per gli standard dell’Ue si tratta di un’occasione democratica inconsueta e importante, ma che comporta per gli elettori la responsabilità di esprimersi soltanto in merito alla questione in oggetto. Ma forse è troppo sperare che sia così.
Come abbiamo fatto in occasione di quasi tutti i sette referendum sull’integrazione alla Cee/Ce/Ue che sono stati proposti al popolo irlandese, l’Irish Times raccomanda di nuovo di votare “sì”. E questo non per un’incurabile e acritica eurofilia, bensì per una pragmatica valutazione degli interessi vitali dell’Irlanda e per la sensazione, soprattutto, che ci siano cose che facciamo meglio da soli e altre che possono essere fatte soltanto insieme ai nostri partner europei.

La realizzazione dell’unione monetaria è un caso molto esemplificativo. Il voto di domani verte proprio su questo compito lasciato a metà – un uccello non può spiccare il volo con un’ala sola – quello che ci fornirà le premesse fiscali per una solidità su scala europea che dovrà garantire la sicurezza dei capitali, in cui i paesi dell’euro saranno in grado di ottenere prestiti a tassi di interesse sostenibili. E questo non è uno strano concetto di matrice tedesca, ma un fatto reale della vita economica.

Non esiste niente di gratuito. I soldi facili comportano un prezzo che tutti gli stati membri dell’euro dovranno pagare – con disciplina fiscale, solida gestione e anche qualche sacrificio. Questa è la motivazione di fondo sia del trattato che siamo chiamati a votare sia del carattere condizionale dell’accesso ai fondi dell’Esm, il Meccanismo per la stabilità europea, di cui potremmo benissimo tornare ad avere bisogno.

Questo non è – come i sostenitori del no vorrebbero farci credere – un “trattato delle banche” o un “trattato degli speculatori”, ma un trattato che consentirà agli stati europei di associarsi tutti insieme contro i capricci degli speculatori, per dar vita a una valuta di peso e stabilità sufficienti a resistere ai loro attacchi.

Il costo del denaro – il tasso di interesse – è prima di tutto un indice del rischio e dell’incertezza percepiti. L’anno prossimo l’inevitabile ricorso al mercato obbligazionario, che vinca il sì o il no, porterà il ritorno di un mare di incertezze, e i tassi di interesse potrebbero arrivare alle stelle, portandoci fuori dal porto relativamente sicuro dei tassi dei bailout più bassi della zona euro. Perché, in nome della ragione, dovremmo volerci privare di proposito e di nostra volontà di tale sistema di protezione?

Nella campagna di questo referendum buona parte delle prese di posizione a favore del si sono rimaste sulla difensiva, con argomentazioni ambiguamente negative, basate sulle conseguenze di una vittoria del no. Eppure occorre ascoltare gli argomenti positivi a favore di un trattato che è una sorta di indispensabile e prezioso mattone per costruire la nostra valuta.

Soprattutto, in ogni caso, andate a votare! Qui si parla della vostra Costituzione, della vostra valuta, del vostro futuro. Non permettete che a prendere una decisione che riguarda voi sia qualcun altro. (Traduzione di Anna Bissanti)

Fronte del no

Il Sinn Féin punta sul malcontento


Anche se secondo gli ultimi sondaggi il referendum sul trattato fiscale dovrebbe passare con il 57 per cento dei voti, i nazionalisti irlandesi "rifiuteranno la frusta tedesca", titola De Volkskrant. Il quotidiano olandese ha incontrato i militanti e gli elettori del Sinn Féin, sostenitori del no. Uno di loro spiega le sue ragioni:

Vorremmo essere noi a risolvere i nostri problemi, senza essere assillati dai nostri amici europei. Per me e per molti miei amici si tratta di amore per il proprio paese.

Un sentimento condiviso da molti irlandesi, osserva De Volkskrant. Secondo i sondaggi il Sinn Féin, l'unico partito che fa campagna contro il trattato fiscale, è oggi la seconda forza del paese. Questo grazie anche alle critiche nei confronti delle misure introdotte dal governo, per rispettare i suoi impegni con Bruxelles, come le tasse sull’acqua e i nuclei familiari (Household Tax).

mercoledì 30 maggio 2012

ITALIA - Stragi nazifasciste, eccidi di Fivizzano, nessun risarcimento


Cassazione, ricorso tedesco accolto.


di Charlotte Matteini

Mercoledì, 30 Maggio 2012 - Nessun diritto al risarcimento per i familiari delle vittime civili della barbarie nazifascista uccisi dalle rappresaglie del Reich alla fine della Seconda guerra mondiale in Italia.
Lo ha decretato la Cassazione, accogliendo un ricorso della Repubblica federale tedesca, recependo l'orientamento espresso a febbraio dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja.

LA PRIMA SENTENZA CONDANNÒ’ LA GERMANIA. La prima sezione penale della Suprema Corte ha annullato, senza rinvio, il verdetto emesso il 20 aprile 2011 dalla Corte militare di Appello di Roma che dichiarava la Germania responsabile civile dell'eccidio di 350 civili uccisi nell'agosto del 1944 tra Fivizzano e Fosdinovo, in provincia di Massa.
La sentenza riconosceva agli oltre 60 familiari delle vittime un risarcimento complessivo di circa cinque milioni di euro e alla Regione Toscana, costituitasi parte civile assieme ai due Comuni, era invece stata accordata una provvisionale di 40 mila euro.
Stessa cifra liquidata, come acconto su un totale da determinare, anche alle amministrazioni comunali di Fivizzano e Fosdinovo.

Annullati i risarcimenti previsti per i familiari delle vittime


Negli anni passati, invece, la Cassazione aveva confermato il diritto dei familiari delle vittime a essere risarcite e lo stesso discorso valeva anche per i cosiddetti 'schiavi di Hitler', gli italiani - militari e civili - deportati in Germania a lavorare nell'industria bellica.
«Le stragi di civili sono un crimine mostruoso per il quale la Germania riconosce la sua responsabilità morale e chiede perdono al popolo italiano e ai familiari delle vittime, questa é la prima cosa che voglio dire con chiarezza», ha affermato l'avvocato Augusto Dossena, che ha presentato il ricorso della Repubblica federale tedesca in Cassazione.
«Con questa decisione» ha spiegato Dossena «credo che la Cassazione abbia recepito la sentenza de L'Aja che ha dichiarato che anche per i crimini di guerra vale il principio della immunità civile degli Stati».
«Questo non vuol dire che la Germania non pagherà indennizzi perché la Corte non ha detto questo: ha detto, invece, che questa materia» ha proseguito il legale «deve essere definita con gli strumenti diplomatici, dunque con un dialogo tra Stati, e non per vie giudiziali. Contatti in tal senso già ci sono stati tra Roma e Berlino».

«LA CASSAZIONE HA TENUTO CONTO DELL'AJA». In attesa di conoscere le motivazioni dei supremi giudici - entro 90 giorni - Dossena ha aggiunto che «per ora, posso solo dire che la procura della Cassazione, senza entrare nel merito del 'giusto' o 'sbagliato', ha sostenuto, che era necessario tenere conto di quanto stabilito dalla Corte Internazionale».
Sul fronte delle responsabilità penali dei militari nazisti, Dossena ha sottolineato che «sono passate in giudicato, e dunque, sono definitive, le condanne all'ergastolo dei quattro imputati: Joseph Bauman, Wilhelm Kusterer, Max Schneider e Helmut Wulf».
L'avvocato ha però notato che i quattro «non hanno nemmeno fatto ricorso contro la sentenza di appello, forse sono deceduti, come è accaduto per altri quattro coimputati».

Sono 60 le cause risarcitorie pendenti in Italia


Sono circa 60 le cause risarcitorie pendenti, in diverso grado, nelle aule di giustizia italiane per crimini di guerra commessi dai militari nazisti.
A Como, il tribunale civile deve riprendere il procedimento con il quale la Germania chiede la liberazione di Villa Vigoni, il prestigioso centro di studi tedesco sul lago di Como, dall'iscrizione ipotecaria chiesta dai parenti delle vittime della strage di Civitella.

GERMANIA CONTRO ROMA. Invece a Roma, il tribunale, a settembre, deve decidere sulla richiesta di opposizione avanzata sempre dalla Germania contro il tentativo di «esecuzione presso terzi» con il quale i greci dell'eccidio di Distomo chiedono il sequestro di circa 40 milioni di euro che le Ferrovie tedesche avrebbero, secondo i legali dei greci, sotto forma di credito presso le Ferrovie dello Stato italiane.
Finora il tentativo di esecuzione non è andato a buon fine perché non è risultato alcun credito.
A ogni modo, in giudizio si sono costituite, oltre alla Germania, anche le ferrovie tedesche e quelle italiane.

GRECIA - Dominique Strauss-Kahn batte Lagarde

Perché la direttrice fa rimpiangere Strauss-Khan.


di Giovanna Faggionato
Mercoledì, 30 Maggio 2012 - Ora forse i greci lo rimpiangeranno,  Dominique Struss-Kahn. E con loro, magari tutti gli europei. Il 14 maggio 2011, quando è stato arrestato per stupro ai danni di una cameriera del Sofitel di New York, l'ex direttore del Fondo monetario internazionale stava volando a Berlino da Angela Merkel.
I due avrebbero dovuto discutere del pacchetto di aiuti alla Grecia e della possibilità di rivedere il memorandum imposto ad Atene dalla Troika di creditori internazionali.
Ma dopo l'arresto degno di una sequenza cinematografica, all'aeroporto John Fitzgerald Kennedy, con lui in manette sotto gli occhi increduli delle hostess e dei turisti, tutti gli equilibri sono cambiati.
LA SOTTILE CRUDELTÀ DI CHRISTINE. Ha preso il suo posto l'ex ministro delle Finanze francesi, Christine Lagarde, elegante 56enne dal fisico asciutto da ex campionessa di nuoto sincronizzato. Che è riuscita a superare indenne le iniziali critiche per la sua vicinanza a Nicolas Sarkozy.
Al timone dell'organizzazione di Washington, Lagarde si è allineata (o è stata costretta ad allinearsi) alle posizioni americane, favorevoli al sostegno pubblico allo sviluppo. Ma con i greci ha mostrato una sottile crudeltà. Ha negato solidarietà a bambini e giovani ellenici indigenti, in quanto figli di evasori impenitenti e l'ha detto dalla posizione scomoda di una che guadagnando quasi 500 mila dollari non paga nemmeno un centesimo di tasse sul suo lauto stipendio

Lagarde: uno stipendio netto da 470 mila dollari

Dalle colonne del quotidiano britannico Guardian, il numero uno del Fondo monetario ha spiegato di preferire i bambini africani a quelli ellenici. I primi infatti sarebbero assolutamente innocenti, i secondi, invece, sono indirettamente responsabili, perché la colpa della loro povertà ricade sui genitori evasori.
Le sue parole hanno scatenato reazioni politiche indignate – nonché 20 mila commenti sulla sua pagina Facebook -, ma soprattutto hanno solleticato la curiosità dei cronisti sulla dichiarazione dei rediti della lady dalla chioma candida.
RIBORSO DA 83 MILA DOLLARI. E le indagini hanno dato risultati, perché la Lagarde dà lezioni, ma non l'esempio. L'articolo 34 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche la esenta, infatti, da ogni obbligo fiscale sul compenso, come accade al personale delle Nazioni unite.
L'amica di Angela Merkel percepisce uno onorario di 467.940 mila dollari netti, più un rimborso annuo di altri 83.760. Inoltre, stando al suo contratto quinquennale, ogni anno a luglio può ottenere un aumento. Insomma, una posizione un po' scomoda per impartire lezioni.

Le pressioni di Strauss-Kahn sulla Germania

Anche Strauss-Kahn, da direttore dell'Fmi non pagava le tasse sul reddito, ma per Atene sarebbe stato un creditore più comprensivo.
Lo dimostra il fatto che nel dicembre del 2010 propose di allungare i termini di restituzione del debito greco. E fece pressione sull'Unione europea e in particolare sulla Germania, per modificare il memorandum sottoscritto tra la Troika e il primo ministro George Papandreou, socialista come lui.
Per convincere i tedeschi della bontà della sua linea, andò a Berlino a incontrare i più importanti azionisti europei: i parlamentari del Reichstag. Parlava già di affiancare i sacrifici a misure per stimolare la crescita.
DIFESA ALL'AUTONOMIA POLITICA. Durante una sua visita in Grecia, chiarì che quelle del Fondo monetario erano linee guida, ma che le decisioni politiche sarebbero rimaste nelle mani del governo di Atene. Quando i greci lo accolsero come un nemico e scesero in piazza per protestare contro le sue ricette, commentò al quotidiano ellenico Kathimerini: «È una dimostrazione di sana democrazia».

Lo scheletro nell'armadio della direttrice dell'Fmi

Col senno di poi, l'arresto scenico di Strauss-Kahn - specie considerata la sua successiva liberazione  con la caduta di ogni capo di imputazione - suona sinistro. Anche senza avvallare le accuse di un complotto da lui sollevate, il destino dell'Europa avrebbe potuto prendere una piega differente.
Non che l'ex direttore fosse senza macchia: attualmente è imputato a Lille per sfruttamento della prostituzione organizzato: imbarcava sul suo aereo stuoli di prostitute professioniste. Ha altri processi in corso per violenza sessuale. Lo descrivono ossessionato dal sesso e, quantomeno, ha un rapporto controverso con le donne.
Ma anche l'attuale direttrice ha le sue ombre, anche se di tutt'altro genere. Riguardano, infatti, i suoi rapporti con i big del business, mentre era al ministero dell'Economia di Parigi.
I LEGAMI COL MAGNATE TAPIE. Ex avvocato di grido a Chicago, Lagarde è sotto inchiesta in Francia con l'accusa di aver favorito il magnate Bernard Tapie in un arbitrato tra l'uomo d'affari e la banca pubblica Crédit Lyonnais sulla vendita di Adidas: il capo di imputazione è «complicità nell'accaparramento di denaro pubblico». E c'è anche una sentenza del 2 dicembre 2010 che definisce illegale la decisione del suo ministero di bloccare un'indagine su Euronext, il principale operatore della Borsa di Parigi. A dimostrazione che anche i buoni maestri hanno qualche scheletro di troppo nell'armadio.

ALBANIA - Presidenziali partono in salita, Ue teme nuova crisi

Dopo violenze 2011, maggioranza e opposizione ancora spaccate

Belgrado, 30 mag. - Il parlamento albanese ha fallito il primo tentativo di eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Un passaggio delicatissimo, sul quale l'Unione europea vigila con attenzione, temendo la nuova ondata di tensione politica che potrebbe sfociarne. In tale quadro, all'appuntamento odierno, le due principali forze albanesi - il Partito democratico del premier di centro-destra Sali Berisha e il Partito socialista albanese all'opposizione, guidato Edi Rama - sono arrivate senza alcuna convergenza sul nome del candidato a succedere a Bamir Topi.

Ciononostante, per Costituzione è comunque valida questa tornata di votazione, la prima delle cinque complessive che si concluderanno a luglio. Nelle prime tre il candidato vince con 84 voti, i tre quinti dei 140 totali. Negli ultimi due turni è sufficiente, invece, una maggioranza semplice di 71 voti. Diversamente, si deve sciogliere l'Assemblea e convocare elezioni anticipate. Il secondo turno è fissato per il 4 giugno, scrivono i media locali.

"Spero sinceramente che sarete in grado di mantenere l'atmosfera costruttiva per uno svolgimento sereno delle elezioni presidenziali" è stato l'auspicio del commissario Ue all'Allargamento, Stefan Fule. Memore delle violenze di piazza di inizio 2011, quando quattro manifestanti dell'opposizione morirono, probabilmente, sotto il fuoco aperto dalle forze governative.

LONDRA 2012 - Stampa britannica: Putin non sarà a inaugurazione

Il presidente russo irritato con Gb intende inviare Medvedev

Londra, 30 mag.  - Vladimir Putin non sarà alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Londra, il 27 luglio, e probabilmente invierà Dmitri Medvedev. Lo sostiene il quotidiano britannico The Guardian, evidenziando di avere ottenuto "conferma" da fonti sicure. Come per il G8 di Camp David, dove Putin ha mandato il primo ministro, la defezione del leader del Cremlino viene vista come una sottolineatura diplomatica, "un segnale di costante irritazione e scontento del presidente" russo nei confronti della Gran Bretagna.

L'assenza dal G8, il 18 e 19 maggio, è stata giustificata con la necessità di restare in patria per completare la formazione del nuovo governo. Malgrado sia stato proprio il primo ministro a sostituirlo, la Casa Bianca ha detto di "comprendere" le ragioni del capo del Cremlino. Per il forfait - ancora da confermare - londinese non vi sono per ora spiegazioni ufficiali, mentre è ben nota la lunga lista di frizioni tra Mosca e Londra, dal rifiuto britannico di estradare il leader ceceno Akhmed Zakayev o il miliardario Boris Berezovsky, alle critiche che spesso arrivano dal Regno in materia di diritti umani. Di recente la stampa russa ha evidenziato molto la mozione parlamentare per una black list di funzionari russi implicati nella morte in carcere nel 2009 dell'avvocato Sergey Magnitski. Il Foreign Office ha ignorato la richiesta dei deputati, ma la questione irrita molto Mosca. Oggi, tra l'altro, le agenzie russe hanno dato rilievo a una simile iniziativa da parte di deputati italiani.

L'assenza di Putin all'apertura dei Giochi olimpici sarebbe davvero eclatante, anche alla luce del fatto che la Russia ospiterà nel 2014 le Olimpiadi invernali. Per la cerimonia londinese del 27 luglio sono attesi 120 capi di Stato, ben più degli 87 presenti a Pechino nel 2008.