L’Europa chiede agli irlandesi di pronunciarsi su un
patto di cui ancora non si sa quasi niente. La risposta migliore sarebbe
prendere tempo in attesa che la situazione si chiarisca.
Fintan O’ Toole 30 maggio 2012 THE
IRIS TIMES DUBLINO
Ipotizziamo che vi arrivi una telefonata di sollecito
da parte di una certa Angela, che vi convoca nel suo ufficio. Vi mostra la
clausola penale di un contratto, quella che specifica le sanzioni alle quali si
può andare incontro qualora si venga meno ai termini dell’accordo. Vi dice di
firmare, subito, altrimenti passerete dei guai. E voi chiedete: “Ma dov’è il
resto del contratto?” Risposta: “Ci stiamo ancora lavorando. Non vi riguarda.
Firmate e basta”.
Questa è un’analogia abbastanza calzante con l’assurda
situazione nella quale ci troviamo con il trattato fiscale, che – come
ammettono ormai tutti – non è il nuovo trattato politico in grado di
traghettare l’Unione europea fuori da una crisi potenzialmente letale. Il fatto
è che è costituito soltanto da una clausola penale che non ha senso se non si
conosce l’accordo vero e proprio. Chiederci di firmarlo prima ancora di sapere
che cosa conterrà è un gesto di totale disprezzo.
L’unica reazione intelligente che può avere il popolo
irlandese è quella di ricorrere una volta di più alle proprie notevoli risorse:
l’arte del ripiego, dell’equivoco e del sotterfugio. L’ora dell’astuzia è
finalmente arrivata!
In 1066 and all that, un libro umoristico di
storia britannica, gli autori osservano che ogni volta che gli inglesi
pensavano di avere una risposta alla “questione irlandese”, gli irlandesi
cambiavano la questione. Nell’ambito delle relazioni anglo-irlandesi, la
battuta è spiritosa. Ma anche in Europa cambiare le carte in tavola è una
pratica irlandese molto collaudata: l’abbiamo già fatto due volte, con il
trattato di Nizza del 2001-2002 e con il trattato di Lisbona del 2008-2009.
Dovendo scegliere tra votare “sì” e “no”, abbiamo
optato per il “no, ma sì”, come dire “andate a farvi un giro, tornate,
rivolgeteci una domanda un po’ diversa e vi risponderemo sì”. Non si tratta
certamente degli episodi più eroici nella storia della democrazia irlandese, ma
pur sempre di casi esemplificativi della nostra cultura politica. Forse, però,
è arrivata l’ora di accettare e abbracciare il nostro lato esitante. Può anche
darsi che “no, ma sì” in realtà sia la risposta più sensata all’assurdità offensiva
con cui abbiamo a che fare.
La cosa più ovvia per il governo sarebbe stata
rimandare il referendum, perché la crisi europea rende quanto mai variabile il
suo significato. Ma neppure questo sarebbe stato particolarmente coraggioso:
non soltanto la Francia si è rifiutata di firmare il trattato “così come è”,
perfino la Germania ha dovuto rimandarne la ratifica. Il governo è così
intimorito dalla prospettiva di allontanarsi di pochi centimetri da quella che
viene ritenuta la retta via che ormai sta andando avanti in automatico.
Questo lascia l’elettorato alle prese con un vero
dilemma. Le opzioni “sì” e “no” non si avvicinano neppure lontanamente a
esprimere quello che prova l’opinione pubblica. La maggioranza dei votanti,
immagino, si colloca al momento in uno di questi due campi: a) “sì, perché non
c’è alternativa”; b) “no, ma ripassate pure a chiedercelo più avanti, quando
avrete una strategia per la crescita funzionante”.
La prima opzione – dobbiamo acconsentire per forza –
in realtà non costituisce una valida ragione per votare “sì”. Farlo significa
sprecare il proprio voto. Se non c’è alternativa, il referendum è una
sceneggiata. È una parodia di democrazia. L’unico modo di conservare un piccolo
senso di dignità civile sarebbe uno spreco in massa del voto.
Cambio di direzione
La seconda opzione – “no, però chissà…” – implica che
possa esserci un contesto nel quale il trattato fiscale assume un significato.
Se per esempio ci fosse un serio impegno nei confronti di un investimento
europeo a lungo termine per la crescita, allora gli irlandesi potrebbero fare i
loro calcoli in modo radicalmente diverso. E altrettanto accadrebbe con
un’adeguata risoluzione europea per le banche, in grado di sgravare le spalle
dei contribuenti delle ingenti spese legate al salvataggio delle banche.
Peccato non sapere se o in che misura il riaffiorare della crisi ci costringerà
a simili radicali cambiamenti di strategia.
Votare “no” con un implicito invito a ripassare più
avanti, quando tutti i dettagli della situazione si saranno palesati, potrebbe
essere la risposta più onesta alla pretesa di prendere una decisione senza
avere le debite informazioni. Oltretutto sarebbe un gesto responsabile da parte
di veri cittadini europei incoraggiare un cambiamento di direzione, senza il quale
l’Ue si distruggerà da sola.
Cambiare le carte in tavola è una specialità
irlandese. Capita che ora questa specialità diventi una necessità vitale per
l’Europa. (Traduzione di Anna Bissanti)
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