Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


giovedì 21 agosto 2014

ITALIA - Vita, morte, rinascita (?) del Partito Socialista Italiano


QUALCUNO SI RICORDA DEL PSI? Dopo il rovinoso naufragio in Tangentopoli sembrava niente più che un relitto del passato, un ricordo buono solo per i nostalgici della Prima Repubblica e gli amanti dei garofani. Giampaolo Pansa l’aveva annoverato tra i ”Cari Estinti” del pre – Mani pulite, in un suo libro di qualche anno fa. Nel 2007, però, è avvenuto il miracolo: dopo una sepoltura di 15 anni è resuscitato, con tanto di garofano e alla faccia del Pansa. Ma di questo gran ritorno non sembrano essersene accorti in molti. Oggi il Partito Socialista Italiano, guidato da Riccardo Nencini, non raggiunge l’1%. Probablimente, la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica non sa nemmeno chi sia questo Nencini e che è pure Viceministro dei trasporti. Non sa che, alleandosi con il PD, i socialisti sono riusciti ad ottenere in questa legislatura quattro seggi in Parlamento, a differenza che in quella precedente, in cui avevano corso senza alleati e non avevano raggiunto neanche per sogno la soglia di sbarramento. Non sa, insomma, nemmeno che il PSI esista.

UN CREPUSCOLO BEN POCO GLORIOSO per un partito che è il più antico d’Italia ―lo fondò nel 1892 Filippo Turati ― e protagonista fin dall’inizio della sua storia di lotte, campagne e vittorie per gli interessi dei lavoratori. Per l’introduzione della giornata di otto ore, per la ratificazione dell’età minima lavorativa, dobbiamo ringraziare il PSI. E non può essere nemmeno sottovalutato il suo ruolo sia nella resistenza ― cominciando dal sacrificio di Giacomo Matteotti e dei fratelli Rosselli fino all’organizzazione attiva in formazioni partigiane durante il conflitto ― sia il successivo contributo alla costituente. Alle fatidiche elezioni del ’48 si allea con i comunisti nel Fronte Popolare: dopo la sonora sconfitta della coalizione, il PSI si trova a cedere il ruolo di prima forza di sinistra al sempre più potente PCI. Il segretario, Pietro Nenni, rompe definitivamente coi comunisti nel 1956, all’indomani dell’invasione sovietica di Budapest. E il partito, durante gli anni Sessanta, diventa sempre più istituzionale partecipando alla formazione di vari governi di centrosinistra, molti dei quali presieduti dal democristiano Aldo Moro. Sono anni difficili, in cui il partito cambia più volte nome e alleanze, fino a toccare il suo minimo storico nel 1976: quando, come fondo di un progressivo declino, il PSI scende sotto la soglia del 10%. Ma nel congresso successivo viene eletto segretario Bettino Craxi, figlioccio di Nenni, il quale imporrà una svolta radicale al futuro del partito.

CAPIRE L’ERA CRAXI è fondamentale per comprendere non solo il partito che da quelle ceneri è resuscitato, ma soprattutto per la vicenda di tangentopoli e della politica contemporanea nel suo insieme ― la famosa Seconda Repubblica, che pure molti danno già per estinta. Pierpaolo Pecchiari, segretario provinciale milanese del partito rifondato, oggi descrive così quegli anni:

«Per primi avevamo compreso il cambiamento della società e avevamo cominciato a darle una lettura diversa, che non fosse quella classica marxista. Il periodo più creativo è stato dal ’76 all’84, fino alla formazione del primo governo. Oggi l’eredità di quegli anni è soprattutto sentimentale, anche se sono convinto che alcuni spunti politici siano ancora validi: ad esempio, sulla questione palestinese appoggiammo prima di ogni altro in Italia la politica dei due stati. Erano tempi molto ideologizzati e sul terreno dottrinario iniziammo un aspro confronto con il PCI».

Craxi è il secondo capo del governo non democristiano nel dopoguerra, dal 1984 al 1987: comprende che in Italia l’unica alternativa di sinistra allo strapotere della Democrazia Cristiana non può venire dal Partito Comunista, troppo abbracciato all’unione Sovietica, ma da una forza di centrosinistra più moderna e diversa, che prova a costruire. Nel 1985 toglie addirittura la falce e il martello dal simbolo del partito, sostituendoli con il garofano rosso. Il partito si sposta progressivamente più al centro, secondo alcuni addirittura a destra. Non più un partito operaio, ma pensato e portato avanti dal ceto medio, dagli impiegati nel settore dei servizi, quando la globalizzazione è ancora alle porte. La città più socialista d’Italia è Milano, la Milano da bere. Alle elezioni del 1989, il partito fa registrare una ripresa e San Bettino ne è il padre padrone incontrastato.

LA DIASPORA DEL POPOLO NON ELETTO comincia con Tangentopoli, che ha in Craxi uno dei pesci più grossi nella sua rete. Il segretario viene condannato per Corruzione e finanziamenti illeciti al partito. Condannato in contumacia, visto che prima del verdetto si dà alla latitanza in Tunisia, ad Hammamet, dove morirà nel 2000. Questi avvenimenti sfasciano il partito e quello che restava della sua reputazione ― è il periodo in cui vengono coniate battute come ”Scatta l’ora legale. Panico tra i socialisti.”

Alle elezioni del 1994, col nuovo segretario Del Turco, non riesce ad andare oltre il 2,5%.

Nel congresso successivo, preso atto del tracollo e dell’indebitamento sempre più pesante del partito, se ne decreta la soppressione. A conferma dell’ormai scarsa aderenza di una certa parte dei militanti con i valori della sinistra classica, vari ”compagni” decidono di schierarsi con i nuovi allineamenti di centrodestra. «A partire dagli anni ’80, il conflitto col PCI è stato così forte da far entrare nel sangue del partito l’anticomunismo. Dopo tangentopoli, poi, in cui gli eredi del PCI non vennero toccati mentre il PSI venne fatto a pezzi, questo conflitto se possibile si è estremizzato. Molti ancora oggi non sono riusciti a dimenticare questo ”sgarbo”». Ancora più netto è stato il ”compagno” Renato Brunetta: «Sono un socialista riformista. Guardo dove sono i comunisti e sto dall’altra parte». Dopo queste vicende segue un interregno di quindici anni, in cui chi decide di non confluire direttamente in uno dei due poli dà vita a una serie di partitini destinati a null’altro che all’ onanismo politico. Socialisti Italiani, Partito Socialista Riformista, Federazione Laburista, Alleanza Democratica, tutti organismi che hanno scarsa o nulla rilevanza. Se ne accorgono anche gli interessati e, a un certo punto, l’aria di reunion tira sempre più intensa.

REUNION che viene preceduta da alcune iniziative. Nel 2006, una farraginosa commistione di socialisti e radicali dà vita alla Rosa nel pugno che, dopo gli scarsi risultati elettorali, si scioglie. Enrico Boselli, segretario dei Socialisti Democratici Italiani e membro del progetto, propone l’avviamento di una Costituente Socialista per rifondare lo storico partito. Nel 2007 vengono aperti i lavori; in qualche modo il congresso fondativo vero e proprio del nuovo partito incomincia il 4 luglio 2008 e Il 7 ottobre il neonato viene ribattezzato Partito Socialista Italiano. Subito salta fuori la solita croce e inconfessabile delizia del socialismo e della sinistra italiana, quella del litigio in famiglia: Bobo Craxi, figlio di Bettino, aderisce con i suoi Socialisti Italiani ma la sorella Stefania decide di stare fuori con il suo movimento dei Riformisti Italiani. E questa è solo una delle innumerevoli trame, lotte interne, tragedie greche recitate da bambini a cui piace sentirsi grandi e che non c’è spazio per elencare qui, ma che somigliano molto alla lotta tra due calvi per un pettine visto che alle elezioni del 2008 il neonato PSI raggiunge uno sconsolante 0,98%. Paradossalmente, il partito aveva più margine di manovra come sciame di gruppuscoli separati che gruppo ‒ forse ‒ unitario.

GLI ULTIMI ANNI sono trascorsi cercando di darsi un senso, di sopravvivere alle spinte centrifughe ― che come abbiamo visto sono sempre frizzanti ― e a fronteggiare dei problemi nuovi. Dice sempre Pecchiari:

«Negli anni ’80, ogni sede di Milano aveva 400 iscritti. Oggi 400 è grossomodo il totale dei tesserati di tutta la città. E poi l’età media è troppo, troppo alta. Si parla di moltissimi tesserati over ’70». Con questi numeri è difficile pensare di organizzare una militanza attiva. Anche gli altri partiti italiani hanno problemi simili, ma meno gravi.

Eppure il PSI le infrastrutture le avrebbe ancora: la sede milanese di via Andrea Costa sembra rimasta agli anni ’80 ma è ben utilizzabile, con un busto di Pietro Nenni che scruta benevolo la sala centrale; è stato rifondato lo storico giornale Avanti! (anche se solo online). Sembra però che manchi del tutto la capacità di mettere un minimo il naso fuori dal proprio cortile. Alle ultime amministrative a Bergamo, il partito ha ottenuto lo 0,38%. Non è esagerato dire, considerata la partecipazione e gli aventi diritto al voto, che hanno votato PSI solo i membri del partito e tutti i parenti e gli amici che si sono lasciati convincere a farlo. «Va anche detto che il bilancio annuale del PSI è di 780 000 euro, mentre ad esempio il PD spende 5 milioni l’anno solo in comunicazione. Con queste differenze è difficile competere».

MA A QUESTO PUNTO non sarebbe meglio confluire alla fine nel calderone democratico? «Attualmente, la base del PSI è più a sinistra del PD. Allo scioglimento del partito, è rimasta come base soprattutto la corrente mancina, che pure negli anni ’80 era minoritaria. Il direttivo nazionale invece non lo è; a dire il vero è spaccato in una corrente filogovernativa capeggiata da Nencini e una più ”di lotta”». Essere troppo filogovernativi, però, può essere un grosso rischio ― specie per un movimento di sinistra. E l’abbraccio mortale del renzismo sta schiacciando un po’ tutti i partiti di quell’area, con il 5 Stelle a far da incudine al suo martello. Come se non bastasse, il PSI non può nemmeno più fregiarsi del titolo di ”unico rappresentante del socialismo europeo in Italia”, visto che il PD è da poco entrato nel PSE. «Il PD però non sta facendo abbastanza nei confronti delle politiche di austerità. Certo, ci sono dei punti in comune: con la sinistra dei democratici stiamo raccogliendo firme per il referendum sulla legge 243. Se il PD avesse una struttura diversa, federativa come quella del Labour inglese, si potrebbe poi pensare a una confluenza, ma oggi non mi sembra che il partito sia intenzionato ad ammettere al suo interno voci autonome».

IN ITALIA LA SINISTRA VINCE QUANDO SCIVOLA AL CENTRO e questo slittamento può aprire spazio alla creazione di una forza sinistra che riempia quel vuoto. Il PSI potrebbe coltivare l’intenzione di candidarsi a polo attrattivo di quest’area: certo, non si vede all’orizzonte una forza in grado di federare il bacino elettorale senza litigare dopo tre mesi ― basti vedere l’esperienza della Lista Tsipras e l’incipiente disgregazione di SEL ― ma dato il suo passato burrascoso e il suo remoto di cattiva fama presso l’elettorato più rosso ― in larga parte certissimo che i socialisti siano tutti ladroni che tengono in casa un ritratto di Craxi e aspirano a diventare yuppies ― sembra difficile che il PSI possa ambire a diventare qualcosa di più che una cartolina inviata dal 1984 e un monumento alla litigiosità accecante dei rossi nostrani.

Forse, però, c’è un errore di fondo: l’idea stessa di creare un partito come collage di tante piccole forze in crisi d’identità, che non può funzionare.


Si chiami PSI o in qualsiasi altro modo ― SEL, Sinistra Democratica, chi più ne ha più ne metta. «Magari aggregandosi di volta in volta, come sul referendume per la legge 243, ci si può mettere d’accordo e sperare di costruire qualcosa». Prima il contenuto del contenitore, insomma. Ma il contenitore può essere un corpo centenario riesumato dopo 15 anni? «Oggi dobbiamo scegliere se il PSI diventerà un partito residuale, perso nel suo passatismo e nel culto del suo passato, o minoritario». C’è una bella differenza.

Stefano Colombo

martedì 19 agosto 2014

SPAGNA - Pedro Sánchez: i socialisti spagnoli scelgono il rinnovamento contro il populismo


Pedro Sanchez Castejon è il nuovo leader dei socialisti spagnoli. Nella sua prima intervista ad,”El Pais” ha detto di ispirarsi a Felipe Gonzalez e Matteo Renzi, leader con due qualità: essere di sinistra e riformisti. La sinistra spagnola prova a ripartire da un giovane e poco conosciuto deputato di Madrid per provare a vincere di nuovo e sconfiggere il populismo progressista nati dopo lo scoppio della crisi-

PEDRO SÀNCHEZ E IL PSOE - Un anno e mezzo fa Pedro Sánchez Castejon era un giovane ex deputato del partito socialista spagnolo, Psoe, che era tornato all’insegnamento universitario in economia  vista l’esclusione dal Congresso dei Deputati iberico.  Collocato all’undicesimo posto nella circoscrizione di Madrid, la drammatica sconfitta dei socialisti di Zapatero alle elezioni dominate dal Pp di Rajoy aveva provocato la sua esclusione per un solo seggio. Nella capitale spagnola la sinistra riformista aveva ottenuto solo dieci mandati, un numero di diversi seggi al di sotto delle previsioni. Rientrato in parlamento grazie alle dimissioni di una ex ministra nominata in un’authority, Sánchez si è poco dopo lanciato nelle prime elezioni congressuali decise direttamente dagli iscritti nella storia del socialismo spagnolo. Una svolta nell’organizzazione del partito favorita dall’esplosione elettorale del movimento di protesta Podemos, la lista che ha ottenuto il successo più rilevante alle ultime elezioni europee. Una lunga campagna elettorale lanciata sui temi del rinnovamento generazionale e del riformismo, che ha gradualmente conquistato una formazione politica scossa da anni di continui insuccessi, e recentemente oscurata dalla crescita dei movimenti anti austerity che hanno ottenuto brillanti risultati alle ultime europee.  Docente universitario in Storia dell’Economia e consigliere comunale a Madrid dopo un esordio al Parlamento europeo, Pedro Sánchez è  stato uno dei più stretti collaboratori dell’influente responsabile dell’organizzazione del Psoe Josè Blanco. Il nuovo segretario dei socialisti era stato eletto per la prima volta al parlamento spagnolo nel settembre del 2009, quando Pedro Solbes, il ministro dell’Economia dei governi Zapatero, decise di lasciare anche il Congresso dopo l’esclusione dal governo. I sussulti politici provocati dalla crisi economica hanno  permesso a Pedro Sánchez di entrare per la prima volta al Congresso dei deputati, e grazie a questi ora il 42enne parlamentare iberico è diventato leader di una delle formazioni socialiste più importanti d’Europa.

PEDRO SÀNCHEZ E LA CRISI DEI SOCIALISTI - Nei decenni scorsi i socialisti hanno sempre espresso posizioni di grande rilievo all’interno del Parlamento europeo. Il Psoe conseguiva risultati brillanti a queste consultazioni, e la sua delegazione era una delle più numerose all’interno della famiglia socialista europea. Nel 2014 invece la formazione guidata da Alfredo Rubalcaba è sprofondata al 23%, il peggior risultato della storia, un vero e proprio collasso per un partito che di solito raccoglieva percentuali nell’ordine del 40%. La sconfitta delle elezioni europee non è stata una sorpresa, anche se inaspettate sono state le sue dimensioni catastrofiche. Nel 2011 i socialisti, che hanno governato la Spagna prima nel momento di massima espansione economica, e poi durante lo scoppio della crisi economica che ha portato al raddoppio del debito pubblico e delle percentuali  disoccupazione, sono stati espulsi dal potere con la peggior sconfitta della storia. 3 anni fa i socialisti sprofondarono al 28,8%, perdendo circa 4 milioni di voti rispetto alla vittoria del 2008. Nel 2012 la flessione della sinistra riformista è continuata anche nelle regionali della Catalogna e dell’Andalusia, due comunità autonome tradizionalmente legate al Psoe. Le elezioni europee hanno evidenziato quanto sia profonda ancora la frattura tra l’elettorato progressista e i socialisti ora guidati da Pedro Sánchez. Il Pp di Mariano Rajoy ha subito un netto arretratamento, con una flessione dei consensi di poco meno di 20 punti rispetto al risultato delle politiche, ma è rimasta prima forza del sistema politico iberico grazie all’emorragia del Psoe. I voti persi dai socialisti hanno portato la sinistra radicale di Izquierda Unida ai suo massimi storici, mentre la sorpresa delle europee è stato il movimento Podemos, la lista erede della protesta anti crisi degli Indignados.  Benchè il movimento abbia un posizionamento anti sistema di contrapposizione all’establishment politico ed economico della Spagna non distante dal nostro M5S, la collocazione a sinistra di Podemos è abbastanza definita, vista l’adesione al gruppo europeo di Tsipras e l’ambizione più volte dichiarata di essere la Syriza iberica.

PEDRO SÀNCHEZ,  IL RINNOVAMENTO CONTRO IL POPULISMO - Nella sua prima intervista da segretario del Psoe al quotidiano El Pais, il più importante tra i quotidiani spagnoli di simpatie progressiste, Pedro Sánchez Castejon ha enfatizzato la necessità di contrastare i populismi di sinistra caratterizzati da alcune posizioni di Podemos, come quella di non pagare più il debito pubblico. Il nuovo leader socialista ha però rimarcato l’esigenza di una transizione economica che muti il corso della politica europea di austerità, così come ha definito centrale la necessità di rigenerazione democratica per proseguire il rinnovamento di una classe politica screditata dalla crisi e da numerosi casi di corruzione. I due modelli citati da Pedro Sánchez Castejon come suoi riferimenti sono Felipe Gonzales, primo ministro socialista della Spagna dal 1982 al 1996, e Matteo Renzi. Il segretario del Psoe non è un «rottamatore» che ha combattuto l’establishment del partito, visto che i maggiorenti del Psoe lo hanno sostenuto al congresso contro i suoi due avversari, Eduardo Madina, il segretario del gruppo parlamentare,  e il candidato della sinistra interna José Antonio Pérez Tapias. Particolarmente rilevante per il suo successo è stato l’appoggio della presidente dell’Andalusia Susana Díaz. In questa regione tradizionale roccaforte del socialismo spagnolo Sánchez Castejon ha ottenuto il 60% delle preferenze degli iscritti al Psoe, così costruendo uno dei margini più importanti per la sua vittoria finale. Secondo diversi osservatori Susana Díaz avrebbe sostenuto il nuovo segretario al fine di ottenere il suo appoggio alle primarie aperte a tutti gli elettori per scegliere il candidato socialista alla presidenza del governo spagnolo prima delle elezioni del 2015. Le voci su uno scioglimento anticipato della legislatura sono però ricorrenti, come ha scritto recentemente il quotidiano finanziario El Economista.

PEDRO SÀNCHEZ E LA SFIDA AL PP – Mariano Rajoy potrebbe convocare elezioni anticipate rispetto alla scadenza normale della legislatura, ovvero novembre 2015, anche per evitare oppure oscurare il referendum sull’indipendenza della Catalonia. I popolari al governo hanno presentato una manovra di bilancio in chiaro deficit, con una significativa riduzione della pressione fiscale sui redditi di persone fisiche e aziende non coperta da tagli di spesa o aumenti di imposte indiretta. Una sfida al rigore di Bruxelles, anche se lanciata da fedele alleato della Germania, visto che il primo ministro iberico ha appoggiato sin dall’inizio Berlino sulla candidatura di Jean-Claude Juncker, così come non ha mai messo in discussione il Patto di stabilità. Pedro Sánchez Castejon, rompendo con il tradizionale europeismo del Psoe ha consigliato ai suoi parlamentari di non votare per l’elezione di Juncker alla presidenza della Commissione. Una scelta di chiara distinzione del Pp, che ha suscitato numerosi dissensi interni ed esterni al Psoe.  Il no a Juncker ha rappresentato una chiara frattura con la storia di un partito che negli ultimi quindici anni ha espresso alcuni degli esponenti più importanti delle istituzioni comunitarie, come l’ex Mr. Pesc Javier Solana e il commissario Almunia, prima responsabile degli Affari economici e poi dell’ancora più centrale Antitrust. La rottura impressa da Pedro Sánchez è stata impressa non solo per lanciare un messaggio di radicale alternativa a Mario Rajoy, ma anche per contenere la crescita poderosa di Podemos. L’ultimo sondaggio realizzato dalla società Demoscopia ha rilevato il primo, clamoroso, e al momento non confermato, sorpasso di Podemos sul Psoe. In media i sondaggi rilevano un vantaggio piuttosto solido del Pp, anche se l’opposizione progressista, al momento divisa, ha molti più consensi dei conservatori. La sfida del nuovo segretario è recuperare la fiducia dell’elettorato che ha abbandonato il Psoe, il partito di governo della Spagna democratica travolto però dalla crisi che ne sta ridefinendo il perimetro politico e sociale.

Andrea Mollica

ITALIA - Il voto di preferenza, grande assente in Europa


Nei sistemi elettorali dei maggiori paesi UE i parlamentari sono eletti via collegi o liste bloccate, o con voti personali vincolati


Le preferenze sono tornate protagoniste nel dibattito politico italiano in relazione alla riforma del sistema elettorale. Nei più grandi paesi europei la selezione dei parlamentari avviene tramite collegi uninominali oppure liste bloccate, e i sistemi elettorali dove sono presenti le preferenze vengono vincolate a soglie piuttosto alte per far rispettare l’ordine deciso dai partiti.

LE PREFENZE E LA NUOVA LEGGE ELETTORALE – La bocciatura del Porcellum e il mantenimento delle liste bloccate nell’Italicum hanno risvegliato la passione per le preferenze come metodo di selezione dei parlamentari in diversi partiti del nostro sistema politico. In Italia i deputati ed i senatori sono stati eletti con il voto di preferenza a partire dal 1948 fino al 1992. Le ultime elezioni svoltesi con il sistema proporzionale registrano la novità del voto di preferenza unica, introdotto con il referendum del 1991, diventato celeberrimo per l’invito di andare al mare rivolto da diversi leader politici come Craxi agli italiani al fine di difendere il vecchio sistema con un massimo di tre voti di preferenza ad elettore. Nelle elezioni politiche del 1994, 1996 e 2001 i deputati e i senatori sono stati eletti con il voto maggioritario nell’uninominale, più una quota di parlamentari scelti con le correzioni proporzionali presenti nel Mattarellum. Il Porcellum ha però previsto l’elezione in Parlamento tramite liste anche molto lunghe, fino ad un massimo di 45 candidati nelle circoscrizioni più popolose, che sono state bocciate come incostituzionali dalla Corte Costituzionale. La legge elettorale che è rimasta in vigore dopo l’intervento della Consulta è così diventata un proporzionale con diverse soglie di sbarramento (4% per liste singole alla Camera, 3% al Senato) e preferenze per selezionare i parlamentari. Nelle motivazioni la Consulta ha però rimarcato come la riduzione della lunghezza delle liste al fine di favorire la conoscibilità dell’eletto all’elettore, sarebbe costituzionalmente legittima. Per ovviare invece alla limitazione delle liste bloccate nella nuova legge elettorale approvata in prima lettura alla Camera dei Deputati sono stati disegnati 120 collegi plurinominali, dove al massimo possono essere eletti sei deputati, ed ogni lista o coalizione deve stampare sulla scheda i propri candidati.

I GRANDI PAESI EUROPEI E LA MANCANZA DI PREFERENZE – La legge elettorale ribattezzata Italicum è stata approvata in prima lettura alla Camera dei Deputati nella prime settimane di marzo, ma da allora è rimasta sostanzialmente bloccata viste le divisioni interne al PD ed anche alla maggioranze acuite dal tormentato percorso del superamento del Senato della Repubblica. Il ritorno delle preferenze è stato reclamato sia delle forze di opposizione – Lega Nord, MoVimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia – sia da alcuni settori della maggioranza. L’emendamento Gitti sulle preferenze di genere è stato bocciato, col voto segreto, per soli 20 voti, contro i più di 100 dell’approvazione definitiva dell’Italicum, avvenuta a scrutinio palese. In questi mesi da più parti si è sentita l’evocazione delle preferenze come indispensabile correzione dell’Italicum, visto che questo metodo di selezione degli eletti è già in vigore per i consigli comunali così come quelli regionali. Guardando però all’esterno dell’Italia si nota però come il voto di preferenza sia praticamente assente nei più grandi paesi europei, mentre dove è in vigore viene spesso vincolato a quorum che permettono il superamento dell’ordine di lista deciso dai partiti. Il voto di preferenza manca nei due grandi paesi membri dell’UE, Regno Unito e Francia, dove vige un sistema elettorale maggioritario, che a dispetto del nome è assolutamente minoritario in Europa. L’elezione alla Camera dei Comuni si svolge nel collegio uninominale. Ogni partito presenta un singolo candidato, e chi riceve il maggior numero dei voti diventa deputato. Il sistema è simile in Francia, anche se la competizione nel collegio uninominale si svolge di norma in due turni. Per essere eletti all’Assemblea Nazionale – il Senato ha un’elezione di secondo grado – il candidato deve superare il 50% dei voti validi espressi. Se questo non succede, due settimane dopo si svolge un ballottaggio tra i candidati che hanno superato una soglia minima – che si traduce nel 20% circa dei voti validi -, dove di norma ci sono alleanze tra diversi partiti di simile ispirazione politica oppure rinunce vista l’impossibilità del successo.

I SISTEMI PROPORZIONALI A LISTA BLOCCATA – Nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione Europea sono in vigore sistemi proporzionali, e il voto di preferenza «puro» senza ordini di lista vincolanti è minoritario. In Germania, la nazione più grande ed importante, i deputati del Bundestag sono eletti per metà in collegi uninominali maggioritari, dove prevale il candidato del partito che ottiene il maggior numero dei voti espressi. Il criterio di assegnazione dei seggi è però proporzionale, per quanto corretto da una soglia di sbarramento al 5%, e l’altra metà dei MdB, i membri del Bundestag, è eletto nelle 16 circoscrizioni statali che corrispondono ad ognuno dei 16 Bundesland che formano la Repubblica federale di Germania. Nelle federali del 2013 gli elettori hanno votato per liste bloccate composte anche da più di 60 candidati, come per esempio in Nordreno-Vestfalia, il Bundesland più popoloso. Le liste bloccate più corte si trovano nella città stato di Brema, 5, e nel piccolo Bundesland della Saaland, 7.

In Spagna il Congresso dei Deputati, la camera che concede e ritira la fiducia al governo, viene eletto con un sistema proporzionale su liste bloccate, formate da un numero normalmente piuttosto ristretto di candidati. Le circoscrizioni plurinominali sono 50, divise su base provinciale, con le province meno popolose che hanno diritto ad un minimo di due seggi. I collegi più popolosi sono Madrid e Barcellona, che nel 2011 hanno eletto 36 e 31 deputati, su liste bloccate come nelle circoscrizioni più piccole da 2 o 3 seggi. Il nuovo leader dei socialisti, Pedro Sánchez, è entrato al Congresso dei Deputati grazie alla rinuncia di un parlamentare del Psoe. Nelle disastrose elezioni del 2011 Sánchez era stato collocato in 11°posizione, ma i socialisti erano riusciti a conquistare solo 10 deputati nella circoscrizione di Madrid. Nel vicino Portogallo c’è un simile sistema, proporzionale con soglia di sbarramento e liste bloccate per l’Assemblea della Repubblica.

I SISTEMI PROPORZIONALI CON PREFERENZA, SPESSO VINCOLATA -
La Polonia è l’unico tra i più grandi paesi europei a prevedere un voto di preferenza per i deputati della Sejm, l’unica camera che concede la fiducia al governo. I membri del Senato polacco invece sono eletti in 100 collegi uninominali maggioritari. La proporzionalità del sistema elettorale della Sejm è stata inserita all’interno della Costituzione del più grande paese dell’Europa dell’Est. In altre nazioni europee, come Paesi Bassi, Austria, Belgio o Svezia ad esempio, i sistemi proporzionali consentono all’elettore l’espressione di una preferenza per il candidato preferito, ma esistono dei vincoli alla sua validità. In Austria il candidato deve ottenere un voto di preferenza pari al 7% del totale conseguito dal partito nella sua circoscrizione al fine di poter essere eletto, così da “superare” l’ordine di lista che altrimenti disciplina la distribuzione dei deputati del Nationalrat. Nei Paesi Bassi invece un candidato può essere eletto con il voto di preferenza, Voorkeurstemmen in olandese, se i suoi consensi personali raggiungono il 25% del quorum che fa scattare il seggio per i propri partiti. Un obiettivo praticamente impossibile da raggiungere, riuscito finora a pochissimi deputati. Per questo motivo l’elettorato olandese tende ad esprimere il proprio voto di preferenza per il capolista. In Svezia esiste il voto di preferenza, ma esso consente di superare l’ordine di presentazione della lista per essere eletti al Riksdag solo se un candidato ottiene l’8% dei consensi totali ottenuti dalla lista nella sua circoscrizione. In Belgio la Camera dei Deputati viene eletta con un simile sistema: gli elettori ricevono due liste. Se votano quella con i simboli dei partiti, confermano l’ordine dei candidati da loro presentato, altrimenti possono scegliere di esprimere una preferenza con l’altra scheda che ricevono. Per superare però l’ordine di elezione un candidato deve ottenere una quota rilevante del seggio. Diversi vincoli al voto di preferenze esistono anche in Danimarca, Slovacchia o Repubblica Ceca. Un quadro articolato, che rimarca come la sacralità assunta dal voto di preferenza nel dibattito politico del nostro paese sia quantomeno una peculiarità tutta italiana.

Andrea Mollica

ITALIA - Se avanzo non gettatemi


Il brutto di essere le avanguardie della generazione a perdere, i pionieri della dorata indigenza. Quando si parla di generazione a perdere si pensa ai venti-trentenni. Giusto, ma c’è anche un folto gruppo di quaranta-cinquantenni. Mal comune, niente gaudio. Comunque è davvero meraviglioso far parte del magico mondo di coloro che non sanno ancora bene se servono a qualcosa, che non è ancora chiaro se si siano ben inseriti nella società, se stiano producendo qualcosa e soprattutto se siano destinati ad avere il privilegio di continuare a produrre qualcosa. Guadagnandosi magari anche il pane con onestà, cosa che non guasterebbe. Eventualmente. Malgrado l’avanzare delle primavere (e degli inverni del nostro scontento) e le molte cose fatte, nel bene e nel male (e perlopiù nel discreto e nel mediocre), c’è gente di molte età che si domanda ogni giorno se potrà avere (appunto) il privilegio di lavorare. Privilegio non è parola scelta a caso, ma termine assai consono ai tempi e alla presente situazione. I concetti di lavoro come dovere e come (ahaha) diritto sono molto cambiati, di recente. Non sono invece cambiati i concetti di capriccio, di preferenza, di volubilità di chi il lavoro te lo dà o meglio, come si potrebbe ormai dire secondo le tendenze verbali dei tempi moderni, te lo concede. Trattasi di concetti (tritissimi e vecchi come il mondo) che hanno ricevuto un frizzo di giovinezza per merito di questa disastrosa crisi. Che bello, vero? Meno sono le certezze più l’arbitrio imperversa, ci mancherebbe altro. I cretini hanno sempre imperversato, si sa, ma sembra proprio che questo per loro sia un momento d’oro.

IL RITORNO DEI CRETINI VIVENTI – Insomma, bisogna, come si dice dalle mie parti, “sbasà il cò” (abbassare la testa) e accettare le condizioni. In alcuni casi bisogna anche farsele piacere, le condizioni. Volendo, e anche non volendo, si rende necessario, a fini auto-gastronomici (in breve per coniugare il pranzo con la cena), sottostare ed esporsi quotidianamente alla stanca replica del film “Il ritorno dei cretini viventi”. Questo è uno dei molti lati negativi di essere una generazione a perdere, ma non è nemmeno il peggiore, a ben vedere. Il lato che consuma di più è sentirsi eternamente sospesi, come se si fosse sempre sul punto di raggiungere un traguardo il quale invece, quando si arriva, ci si accorge che era spostato un po’ in là, accidenti. E a furia di inseguire baldanzosi un traguardo sfuggente si finisce, quasi senza accorgersene (ma anche accorgendosene benissimo, malgrado i fallimentari tentativi di far finta di niente), per avere i capelli bianchi, le gengive che si ritirano, il presbitismo incipiente e la pelle che raggrinzisce. Certo, invecchiare sperando è meglio che invecchiare disperati, senescere lottando è più stimolante che stando seduti sull’impiego fisso. Il fatto è che ci sono generazioni che dovranno morire lavorando, proprio come accadeva nei secoli scorsi, all’epoca ruggente della rivoluzione industriale. Diciamo che noi siamo le prime sorridenti vittime dell’involuzione industriale dei nostri tempi. Felici, si potrebbe dire. Se così fosse. È vero che avremo l’occasione di non rimbambire facendo i vecchietti in pensione che guardano l’orizzonte dalle panchine della passeggiata a mare, però sarebbe stato bello almeno provare. Invece l’esperienza di trascorrere anni in ozioso declino ci sarà risparmiata e dovremo cercare di inventarci qualcosa fin ben oltre l’epoca della nostra prima dentiera. Che fortunelli! La pensione più che un sogno è proprio una cosa a cui non si pensa proprio, né da svegli né da addormentati. Intanto però gli anni passano e s’invecchia con la sgradevole sensazione che la saggezza resti sempre lontana, così come la sicurezza economica.

SINISTRAMENTE SOSTITUIBILI – Altro lato molesto di far parte della generazione a perdere è l’impressione di essere in qualche modo di troppo e che prima o poi si finirà per incespicare in una di quelle riconfigurazioni, in uno di quei rinnovamenti, in una di quelle rottamazioni che sono per definizione una solenne fregatura. Insomma, l’idea generale che si riceve dalla propria vita (si fa per dire) professionale è di non essere ritenuti indispensabili, anzi di essere sostituibili, sinistramente sostituibili. Perché è proprio così che questo mondaccio vuole farti sentire, pur facendo di tutto perché tu ti illuda di essere speciale. Sei speciale fino alla prossima svendita per rinnovo locali, dove tu farai la parte del comò della nonna che ha preso le tarme (il comò, non la nonna, che ha 95 anni ed è a Miami a godersi la pensione).

DORATA INDIGENZA – Comunque il lato più negativo di tutti (chi l’avrebbe mai immaginato che i soldi avessero una qualche rilevanza nella nostra bella società?) non è la frustrazione (un lusso per gente assunta a tempo indeterminato), ma il perenne stato di necessità economica. Bisognerebbe coniare un nuovo termine per definire la disgraziata capacità di guadagno e l’altrettanto disgraziata capacità di spesa della generazione a perdere, che spesso ha studiato e viene da famiglie che, con aggettivo demodé, si potrebbero definire borghesi (di regola prima ci va l’aggettivo “piccolo”, perché chi viene da famiglie con i soldi questi problemi non ce li ha e ai rampolli delle casate benestanti, anche se non combinano un tubo nella vita, non si nega mai la qualifica di imprenditore, anche se del menga). Come si potrebbe chiamare lo stato esistenziale di tutti costoro? Forse l’espressione che più s’attaglia è dorata indigenza. Ecco, la generazione a perdere è destinata a vivere in uno stato di dorata indigenza, con la seconda casa al mare dei genitori ma senza la certezza di potersi permettere di mandare i figli all’università, con il costante timore di essere d’avanzo e di conseguenza votata a convivere con la paura di essere gettata via alla prima occasione. Bello, vero? Converrà prima o poi parlarne, ma non adesso, perché quando si fa parte di una generazione a perdere scappa anche la voglia di finire i discorsi

Clementina Coppini.

domenica 17 agosto 2014

UE - Come l’Europa finanzia Al Qaeda a colpi di riscatti


Al Qaeda rapisce principalmente dei cittadini di paesi europei perché i loro governi sono suscettibili di pagare i riscatti, rivela un’inchiesta di The New York Times pubblicata di recente.

Basandosi su interviste di ex ostaggi, negoziatori, diplomatici e rappresentanti dei governi europei, africani e mediorientali, il giornale ha scoperto che

Al Qaeda e le sue filiali hanno incassato almeno 125 milioni di dollari [93 milioni di euro] dai rapimenti compiuti dal 2008, 66 dei quali sono stati pagati soltanto l’anno scorso. […] Questi pagamenti sono stati fatti quesi esclusivamente da governi europei, che hanno fatto pervenire i soldi attraverso una rete di intermediari e mascherandola addirittura a volte da aiuti allo sviluppo.

La Francia è allo stesso tempo il paese più colpito e quello che ha pagato il numero più alto di riscatti negli ultimi cinque anni, con almeno 43,4 milioni di euro versati ad Al Qaeda nel Maghreb islamico attraverso società partecipate come il gruppo nucleare Areva, per la liberazione di dieci ostaggi (sia Areva che il governo francese smentiscono).

Secondo il rapporto anche l’Austria, la Germania, l’Italia e la Svizzera hanno pagati dei riscatti (tutte smentiscono), così come la Finlandia e la Spagna. Il Qatar e l’Oman avrebbero pagato 15,2 milioni di euro a nome di alcuni governi europei per ottenere la liberazione di cittadini finlandesi, austriaci e svizzeri detenuti nello Yemen.

Gli Stati Uniti e il Regno Unito rifiutano invece di pagare riscatti e quindi "mentre decine di europei sono stati liberati sani e salvi, pochissimi americani e britannici sono tornati a casa vivi". Il fratello di Edwin Dyer, un cittadino britannico ucciso dai suoi rapitori in Mali, dice al giornale che "un passaporto britannico equivale a un certificato di morte" per chiunque venga catturato da Al Qaeda.

I rapimenti realizzati dalla rete sono diventati più sofisticati negli ultimi dieci anni: le filiali in Nordafrica, nello Yemen e in Somalia seguono ora protocolli comuni coordinati dal Pakistan e riducono i rischi per i loro membri "subappaltando la cattura degli ostaggi a gruppi criminali che lavorano su ordinazione." Una pratica diventata molto lucrativa:

Mentre nel 2003 i rapitori ricevevano circa 200mila dollari per ostaggio [circa 149mila euro], ora incassano fino a 10 milioni di dollari [7,5 milioni di euro]. Questo denaro costituisce, secondo quanto affermato di recente dal numero due di Al Qaeda, circa metà degli introiti operativi dell'organizzazione.

Per diversi alti diplomatici intervistati dal New York Times, il dilemma posto dai rapimenti compiuti di Al Qaeda costringe i governi a fare

un angosciante calcolo: rispondere alle esigenze dei terroristi o permettere che degli innocenti vengano uccisi, spesso in modo crudele e davanti alle telecamere? Sta di fatto che l'Europa e i suoi intermediari continuino a pagare ha messo in moto un circolo vizioso.

venerdì 15 agosto 2014

ITALIA -Tutti i numeri del governo Renzi


Ecco alcuni dati che inquadrano l’attività del governo: tempistiche, questioni di fiducia, emendamenti, leggi inattuate.

Una delle accuse che più vengono mosse a Matteo Renzi in questo periodo è quella di parlare troppo e fare poco. Una critica che sicuramente il presidente del Consiglio rispedirebbe al mittente, con in tasca il primo sì alla riforma costituzionale e la promessa che “nessuno potrà più fermare il cambiamento”.

Complice la pausa estiva, può essere utile fermarsi ad analizzare qualche numero per capire meglio l’attività del governo.

IL COUNTDOWN DI VALIGIABLU
Sul blog collettivo de “Valigiablu”, c’è un impietoso countdown con tutti gli interventi promessi dal presidente del Consiglio e le relative tempistiche. Dell’ambizioso crono programma renziano, è stata rispettava la riforma della PA, le misure fiscali su Irpef e Irap e la presentazione del Jobs act. Tempo scaduto invece sulla riforma del lavoro entro marzo e la riforma del fisco entro maggio mentre le lancette corrono veloci sull’approvazione entro il primo settembre del ddl Giustizia ed entro il 30 settembre su Italicum e riforma costituzionale.

IL RECORD SULLA FIDUCIA
C’è un record che caratterizza il governo Renzi ed è individuato da Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale, su Huffington post. Riguarda le questioni di fiducia poste in Parlamento. L’esecutivo in sei mesi ci è già ricorso 18 volte, una media di 3,2 al mese, di gran lunga superiore rispetto allo 0,9 al mese del suo predecessore Enrico Letta o all’1,2 del Berlusconi IV. Solo Mario Monti si è avvicinato con 3 fiducie al mese.

LE LEGGI INATTUATE
Le decisioni prese dai Consigli dei Ministri non sempre si traducono in azioni. Lo fa notare un rapporto di Openpolis: il governo Renzi è riuscito ad approvare in Parlamento poco più di un terzo di quanto deliberato in Consiglio dei Ministri. Delle 149 decisioni prese (fra decreti legge, disegni di legge e ratifiche), solamente 57 sono state approvate in via definitiva dal Parlamento (38%). 21 di esse devono ancora essere presentate in Parlamento, e ben 77 sono “incastrate” fra i banchi di Camera e Senato. Ciò è dovuto alla complessa macchina burocratica che prevede per la maggior parte delle legge emanate dei provvedimenti attuativi per farle diventare realtà. Dei 33 provvedimenti legislativi pubblicati dall’insediamento del governo, solamente 9 non prevedono provvedimenti attuativi. I restanti 24 rimandano a 133 provvedimenti attuativi che le amministrazioni centrali devono emanare.

INFLESSIBILE SUGLI EMENDAMENTI
Quello di Renzi è un governo piuttosto inflessibile sugli emendamenti presentati in Parlamento. Sempre Openpolis registra che dall’inizio della legislatura, fra i ddl con più emendamenti il tasso di approvazione è bassissimo, non supera neppure il 5%. Lo si vede per esempio a Palazzo Madama dove il ddl Boschi ha ricevuto oltre 12.000 emendamenti e il numero di quelli approvati non ha neanche raggiunto soglia 50. Se sia un bene o un male, il giudizio può divergere.

Fabrizio Argano

ITALIA - Governo Renzi, tutti i totem dell'Italia


Articolo 18. Riforme costituzionali. Giustizia. Nozze gay. Ius soli. E liberalizzazione delle droghe leggere. I temi scomodi (e intoccabili) di cui la politica del nostro Paese preferisce non parlare.

Giovedì, 14 Agosto 2014 - L’articolo 18? «È un totem, inutile discutere se abolirlo» perché «cambierà lo Statuto dei lavoratori».
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha risposto così agli alleati di governo del Nuovo centrodestra che negli ultimi giorni, per bocca del ministro dell'Interno Angelino Alfano, sono tornati a chiedere a gran voce la cancellazione della norma.
LUNGA LISTA DI «TOTEM». Si tratta, comunque, di uno dei tanti «totem» italiani, per dirla con le parole del premier. Nella lista figurano infatti numerosi altri temi. Dalla riforma della Costituzione, cui il governo ha dato una forte spinta con la prima approvazione del ddl Boschi, fino a quella della Giustizia, uno dei temi caldi dopo la fine del ventennio berlusconiano, passando per la legalizzazione delle droghe leggere e lo ius soli.   

1. Articolo 18: a destra vogliono abolirlo, ma parte della sinistra è contraria


Contenuto nello Statuto dei lavoratori in vigore dal 1970, l’articolo 18 prevede che nelle aziende con almeno 15 dipendenti in organico il licenziamento debba avvenire per una giusta causa. Senza tale condizione il giudice, in origine, era obbligato a decretare il reintegro del dipendente, stabilendo, inoltre, il versamento di tutti gli stipendi non pagati.
Nel 2012 l’esecutivo guidato da Mario Monti ha riformato il testo dell'articolo, distinguendo fra tre tipi di licenziamento - economico, discriminatorio e disciplinare - e abbassando la soglia di indennizzo per il dipendente licenziato.
NCD VUOLE TOGLIERLO. A rimettere sul tavolo l’argomento, che tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale sembrava essere caduto nel dimenticatoio, ci ha pensato Alfano, che lo ha definito un «totem della sinistra» chiedendone - insieme con gli ex alleati di Forza Italia - la cancellazione con un provvedimento da adottare nel Consiglio dei ministri convocato il 29 agosto per lo Sblocca Italia.
LE BARRICATE DELLA CGIL. Per i sindacati l’abolizione dell’articolo 18 non è all’ordine del giorno. Per capirlo è bastato leggere un tweet della numero uno della Cgil, Susanna Camusso: «Bisogna creare lavoro non discriminazione. Basta con le vecchie e fallimentari ricette della destra. Cambia verso #siart18».
E il Partito democratico? All’interno della formazione di Renzi le resistenze rimangono fortissime: il trio Fassina-Damiano-Epifani è pronto ad alzare le barricate, anche se lo stesso premier ha spiegato che a essere riscritto sarà l’intero Statuto dei lavoratori.
SE RIPARLA DOPO AGOSTO. Di sicuro l’orizzonte non è quello di fine agosto. «Temi così significativi», ha spiegato il vicesegretario dem Lorenzo Guerini, «non possono essere buttati dentro la discussione infilando un emendamento in un decreto in corso di conversione». La sede giusta potrebbe essere il Job Act. 

2. Riforma della Costituzione: ancora tre votazioni per il via libera


C’è poi l’eterno tema delle riforme costituzionali.
Dopo i cambiamenti del 2001, che hanno modificato nove articoli della Carta tutti contenuti all’interno del Titolo V, e quelli del 2005, rigettati dal referendum del 25 e 26 giugno 2006 - malgrado prevedessero la riduzione del numero dei parlamentari e l’istituzione di un sistema monocamerale per la votazione delle leggi - l’8 agosto Palazzo Madama ha approvato il ddl Boschi che segna il superamento del bicameralismo perfetto.
SPAZIO AL SENATO DEI 100. Non si chiamerà più Senato della Repubblica, ma Senato delle autonomie. E già questa è una novità. Ma non l’unica.
I senatori, infatti, non potranno essere più di 100, tutti rappresentanti dei territori, ai quali si aggiungeranno gli ex presidenti della Repubblica. Nessuna indennità prevista anche se resta l’immunità.
Il nuovo Senato manterrà la funzione legislativa per quanto riguarda le leggi di revisione costituzionale, mentre per quelle di bilancio a Palazzo Madama saranno garantiti poteri rafforzati sulle modifiche al testo (ma entro 15 giorni).
IN AUTUNNO IL TESTO ALLA CAMERA. Il ddl è comunque stato approvato solo in prima lettura. Ne mancano altre tre e può succedere di tutto.
Il provvedimento dovrebbe approdare in autunno a Montecitorio. La presidente, Laura Boldrini, ha affermato che farà la sua parte e rispetterà le istanze di tutti garantendo tempi adeguati. Ma, ha aggiunto, «bisogna intervenire anche sull’economia e sulle politiche del lavoro». Come a dire: con la riforma della Costituzione non si mangia. Non ancora, almeno.

3. Giustizia: il nodo resta la divulgazione delle intercettazioni


Il guardasigilli Andrea Orlando ha spiegato che «non sarà una passeggiata». Ma anche se ci vorrà tempo, com’è normale, stavolta potremmo esserci davvero.
Dopo anni passati a parlarne senza ottenere alcun risultato tangibile - colpa, anche ma non solo, dell’aspro scontro fra la magistratura e l’ex premier Silvio Berlusconi - il governo Renzi ha messo in agenda anche la tanto agognata riforma della Giustizia. Per il momento ci sono solo le linee guida, quanto basta per far gridare al mezzo miracolo.
TEMPI STRETTI PER IL PROCESSO CIVILE. Il 20 agosto Orlando illustrerà la riforma ai capigruppo parlamentari della maggioranza. Renzi ha battuto molto sull’eccessiva durata dei processi civili, che in Italia superano i 900 giorni, promettendo tempi più corti, al massimo un anno. Sarà riformato anche il Consiglio superiore della magistratura perché, ha spiegato il numero uno di Palazzo Chigi, d’ora in avanti gli avanzamenti di carriera dovranno avvenire per meritocrazia e non per appartenenza a una corrente.
Per quanto concerne la responsabilità civile - malgrado i malumori dell’Associazione nazionale magistrati - le toghe risponderanno agli errori commessi, anche se non in maniera diretta, così come avviene all’estero.
MODIFICHE PER LA PRESCRIZIONE. Modifiche sono previste anche per i processi penali e la prescrizione, mentre sulle intercettazioni la questione potrebbe farsi complicata. Tema da sempre caro a Forza Italia, nella riforma si dovrebbe procedere a una stretta che riguardi l’impossibilità di pubblicare quelle in cui figurano persone non indagate.
Renzi ha spiegato che i magistrati saranno liberi di intercettare. Il vero tema resta dunque quello della divulgazione.

4. Nozze gay: Renzi è favorevole alle Civil partnership


Sono consentiti in 16 nazioni, fra cui Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Sudafrica, Argentina e Brasile più in 19 Stati americani. Ma non in Italia.
Nel nostro Paese i matrimoni fra persone dello stesso sesso restano uno dei tabù più radicati e longevi. Quanto accaduto di recente a Bologna, dove è arrivato il via libera al registro per i matrimoni omosessuali - permette, a partire dalla fine dell’estate, di trascrivere nei registri di stato civile del Comune le unioni gay celebrate all’estero - sembra essere un fuoco di paglia.
CENTRODESTRA CONTRARIO. Malgrado l’iscrizione di Berlusconi, e della compagna Francesca Pascale all’Arcigay, è il centrodestra il vero «freno» del cambiamento. Ancora oggi echeggiano le parole pronunciate all’inizio del 2014 dal numero uno del Viminale: «Se il Pd propone il matrimonio gay», attaccò Alfano, «noi ce ne andiamo un attimo dopo a gambe levate». Ma anche il presidente del Consiglio è favorevole a metà.
STESSI DIRITTI SENZA ADOZIONI. Unioni civili tra persone dello stesso sesso che potranno godere di tutti i diritti riservati al matrimonio (compresa la reversibilità della pensione in caso di decesso di uno dei due coniugi) con un secco «no» alle adozioni.
Sono queste le linee guida di un ddl sul tema che dovrebbe arrivare in parlamento dopo l’estate. Renzi è favorevole alle Civil partnership sul modello tedesco. Seguendo l’istituto della Stepchild adoption, inoltre, le coppie potranno prendere sotto la loro custodia gli eventuali figli dei partner. 

5. Droghe leggere: l'Italia resta indietro rispetto al resto d’Europa


Legalizzazione sì, no, forse. Nel nostro Paese la sentenza di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, arrivata a febbraio, ha riaperto un tema ormai logoro: quello della legalizzazione delle droghe leggere.
A fine aprile, dopo il pronunciamento della Consulta, la Camera ha reintrodotto la differenza fra leggere e pesanti, con pene più basse soprattutto per i consumatori e i possessori di droghe derivanti dalla cannabis e sanzioni minori per lo spaccio di lieve entità (riducendo così la custodia cautelare in carcere).
«MAGGIORI ENTRATE PER LO STATO». A sinistra in molti, da Nichi Vendola a Pippo Civati e Luigi Manconi, sono favorevoli alla legalizzazione. Che, dicono, porterebbe dei benefici anche per le finanze pubbliche.
A questo proposito il 21 marzo, su Lavoce.info, Mario Centorrino, Pietro David e Ferdinando Ofria hanno sostenuto che «la legalizzazione del mercato delle droghe leggere determinerebbe benefici consistenti per le casse dello Stato» perché «una volta divenute legali queste attività entrerebbero nel Prodotto interno lordo, contribuendo a migliorare gli indicatori di stabilità nel nostro Paese».
IL NIET DI BORSELLINO. Dall’altra parte della barricata la pensano ovviamente in maniera diversa e di legalizzazione - presente in pochi altri Paesi del mondo a parte la Spagna e l’Olanda - non vogliono sentir parlare.
Scorrendo negli annali, però, si scopre che uno dei primi 'oppositori' sul tema fu Paolo Borsellino. «Legalizzare la droga per combattere il traffico clandestino è da dilettanti della criminologia», disse il magistrato nel 1989 in un incontro pubblico a Bassano del Grappa, tre anni prima di essere assassinato da Cosa nostra.

6. Ius soli: finito nel dimenticatoio dopo la fine del governo Letta


Di ius soli, tema caldo quando al ministero per l’Integrazione (sparito con l’arrivo a Palazzo Chigi di Renzi) sedeva Cécile Kyenge, si parla poco o nulla. Eppure nasconderlo non risolve il problema.
Poco più di un anno fa la stessa Kyenge, eletta europarlamentare alle elezioni del 25 maggio, ha rilanciato la questione proponendo una versione che ha definito «temperata». Il punto di partenza, ha spiegato l’esponente del Pd, è «il processo di integrazione dei genitori nel Paese di accoglienza» basato «sul numero degli anni che i genitori vivono in un territorio».
PASSATO IN SECONDO PIANO. Malgrado le proteste della Lega Nord, qualche mese fa proprio dalla 'sua' Firenze il presidente del Consiglio ha chiesto «al parlamento e alle autorità centrali che sia approvata la legge sullo ius soli, perché chi nasce in Italia deve essere italiano».
Fino a questo momento, però, riforma del Senato, Italicum e quant’altro hanno preso il sopravvento. I totem vanno abbattuti. Altrimenti i gufi e i rosiconi vinceranno su tutta la linea. (Giorgio Velardi)

ITALIA - Commissione europea, lettera all'Italia: a rischio 40 miliardi di fondi


Bacchettata Ue. Al governo manca strategia su ricerca, innovazione, cultura. Poi la smentita.

Mercoledì, 13 Agosto 2014 - Forse non arriverà nessuna letterina della Troika, come nel 2011.
Ma una dura missiva è stata recapitata comunque, da parte dell'Europa, all'inefficiente Italia.
E in ballo ci sono oltre 40 miliardi di fondi in sette anni.
RIMANDATI A SETTEMBRE. Si tratta dell'ultima tirata di orecchie arrivata dalla Commissione europea. Secondo cui il nostro Paese manca di strategia su ricerca, innovazione, agenda digitale, competitività, sviluppo tecnologico e cultura. Nient'altro?
Come rivelato da la Repubblica, il governo Renzi è stato rimandato a settembre. E per ottenere i finanziamenti del settennato 2014-2020 dovrà convincere l'Ue.
REPARTO PA INEFFICIENTE. Senza l'ok di Bruxelles rimane tutto congelato.
All'Italia vengono rimproverati i soliti atavici problemi, tra cui spicca una pubblica amministrazione inefficiente.
Di più, «il ruolo delle diverse istituzioni deve essere chiarito, definendo chi fa cosa, quando e come», si legge nel documento.
L'altra grave mancanza è alla voce 'Strategie di specializzazione intelligente'.
In pratica, il piano per far ripartire il Paese (anche con i soldi europei). Bene, il governo Renzi non ha «per il momento» ancora adottato queste strategie, «a livello nazionale e regionale».
Un buco nero che riguarda agenda digitale, innovazione e aziende.
BOCCIATI SU CULTURA E SCUOLA. Sulla cultura «manca un progetto strategico e cenni alle lezioni apprese (e cioè Pompei che cade a pezzi, ndr) dal periodo di programmazione 2007-2013».
Infine, l'istruzione: «Le percentuali di risorse destinate all'abbandono scolastico per le regioni meno sviluppare (12%) e di partecipazione all'istruzione superiore (2%) sembrano basse rispetto alla portata dei problemi in queste aree».
Una pagella pessima che rischia di compromettere soprattutto il futuro delle regioni meridionali, destinatarie del 71,1% delle risorse messe a disposizione dall'Europa. A Renzi il compito di migliorare lo scadente appeal del Paese.
PRECISAZIONE DI BRUXELLES. Successivamente la Commissione Ue ha fatto sapere che «i negoziati con Roma sull'accordo di partenariato per il 2014-2020 sono alla fine. Per questo non c'è rischio che l'Italia possa perdere i 41 miliardi di fondi Ue della programmazione».

martedì 12 agosto 2014

ITALIA - Articolo 18, cos'è e come funziona


Nato negli Anni 70. Riformato da Fornero. E ora nel mirino di Alfano. Cosa sapere sulla norma dello Statuto dei lavoratori.

Guerra all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Per il ministro dell'Interno Angelino Alfano è “un vecchio totem degli anni 70”. E dev'essere «abolito» subito, con il decreto legge Sblocca Italia, il cui esame in Consiglio dei ministri è previsto per il 29 agosto.
Ma che cos'è l'articolo 18?
Ecco di cosa si tratta e a cosa serve questa norma, da anni al centro del dibattito politico sul tema del lavoro, il cui destino sembra essere nuovamente in gioco nel confronto tra abolizionisti e difensori dello status quo.

1. Articolo 18: reintegro automatico dei licenziati senza giusta causa


L'articolo 18 è parte integrante dello Statuto dei lavoratori, ossia la legge numero 300 del 20 maggio 1970.
Nella sua forma originale, prevedeva il reintegro automatico in azienda del lavoratore licenziato senza giusta causa. Il quale aveva anche la garanzia di un risarcimento del danno, commisurato all'ultima retribuzione e calcolato su tutte le mensilità dalla data di licenziamento a quella di effettivo reintegro. Se il lavoratore rinunciava a essere reintegrato, aveva diritto a un'indennità sostitutiva pari a 15 mensilità.
VALIDO SOPRA I 15 DIPENDENTI. Questa disciplina si applicava (ancora oggi è così) a tutti i casi in cui il datore di lavoro avesse più di 15 dipendenti nell'unità produttiva (oppure 60 dipendenti sull'intero territorio nazionale) e se il licenziamento veniva dichiarato da un giudice illegittimo, ingiustificato o discriminatorio.
In quest'ultimo caso, il lavoratore aveva diritto alla tutele previste dall'articolo 18 anche a prescindere dalle dimensioni dell'azienda.

2. L'introduzione negli Anni 70 dopo le lotte dei lavoratori


La ratio dietro l'introduzione dell'articolo 18 è da ricercarsi nella storia dello Statuto dei lavoratori, che elenca le regole più importanti del diritto del lavoro in Italia e che contiene norme «sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro».
Sulla base dello Statuto, nel corso del tempo, sono state costruite le varie tipologie dei rapporti lavorativi esistenti nel nostro Paese.
SPARTIACQUE NEL LAVORO. La sua approvazione segnò uno spartiacque nella storia delle relazioni industriali italiane.
La legge arrivò dopo le agitazioni del cosiddetto 'autunno caldo' del 1969 e dopo la strage di piazza Fontana (il parlamento ne discusse durante tutto quel periodo), e da molti storici è considerata il frutto istituzionale di un'intera stagione di lotte da parte dei lavoratori.
Un giudizio condiviso dallo stesso Gino Giugni, il docente universitario che guidò la commissione incaricata di redigerlo e considerato il 'padre' dello Statuto. L'accademico lo definì infatti «il frutto di una felice congiunzione tra la cultura giuridica e il movimento di massa».
COSTITUZIONE INAPPLICATA. Il primo a sottolineare la necessità di uno Statuto dei diritti dei lavoratori fu però Giuseppe Di Vittorio, leader della Cgil del Dopoguerra, durante il congresso di Napoli del 1952.
Prima dello Statuto, infatti, secondo i suoi sostenitori, gli articoli 39 e 40 della Costituzione (quelli che tutelano la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero) risultavano di fatto inapplicati.
A disciplinare i rapporti di lavoro c'era solo il Codice civile con i contratti collettivi, ma mancava un riconoscimento formale dei diritti gradualmente conquistati dal movimento operaio nel corso degli Anni 50 e 60.

3. La riforma Fornero: nuovi criteri per applicare il diritto


La riforma dell'ex ministro del Lavoro Elsa Fornero ha modificato l'articolo 18 nel 2012, prevedendo diversi criteri di applicazione del diritto al reintegro a seconda del tipo di licenziamento, e stabilendo quattro regimi di tutela differenti: piena, attenuata, obbligatoria e obbligatoria ridotta.
TUTELA PIENA. La piena tutela si applica in tutti i casi di nullità del licenziamento perché giudicato discriminatorio, comminato in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità, oppure negli altri casi previsti dalla legge, e nei casi in cui il licenziamento sia inefficace perché avvenuto in forma orale. Vale indipendentemente dalla dimensione dell'azienda e copre anche i dirigenti.
Il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore e lo condanna al risarcimento del danno con un’indennità commisurata all’ultima retribuzione (non può essere inferiore alle cinque mensilità). In sostituzione del reintegro, il lavoratore può chiedere un’indennità pari a 15 mensilità.
TUTELA ATTENUATA. La tutela attenuata si applica in caso licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, illegittimo per insussistenza del fatto contestato, e in caso di allontanamento per giustificato motivo oggettivo se il fatto è manifestamente infondato.
Il giudice, annullando il licenziamento, ordina il reintegro del lavoratore e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno, che non può, però, superare un importo pari a 12 mensilità. Anche in questo caso, il lavoratore può decidere di chiedere un'indennità sostitutiva.
TUTELA OBBLIGATORIA. La tutela attenuata si applica in tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, se il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro.
In questo, dichiarato risolto il rapporto lavorativo con effetto dalla data del licenziamento, il datore di lavoro è condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità.
TUTELA OBBLIGATORIA RIDOTTA. La tutela obbligatoria ridotta si applica quando il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione, o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per giustificato motivo oggettivo.
In questi casi il giudice, dichiarando il licenziamento inefficace, condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità variabile tra sei e 12 mensilità, da valutarsi caso per caso in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.

4. Le modifiche hanno creato problemi d'interpretazione


Le modifiche all'articolo 18 effettuate dalla riforma Fornero, secondo la rivista Diritto delle relazioni industriali che fu diretta da Marco Biagi, hanno creato non pochi problemi d'interpretazione, che si sono manifestati subito dopo l'approvazione della legge nel 2012.
SERVE CHIAREZZA. Le principali problematiche hanno riguardato la «carenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento». Mentre per quanto riguarda i casi di licenziamento per motivo oggettivo, a un anno dalla riforma, secondo il Centro per lo studio del diritto del lavoro Massimo D'Antona, «non sembra essersi ancora consolidato un orientamento che chiarisca i presupposti per l’applicazione della tutela reintegatoria o di quella indennitaria».
VIA PER MOTIVI ECONOMICI. La riforma Fornero ha stabilito in particolare che il licenziamento può essere motivato anche da un «giustificato motivo oggettivo», cioè da ragioni inerenti «l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa». Ciò può accadere, per esempio, quando una nuova modalità produttiva, una ristrutturazione o una contrazione del mercato impongono all'azienda di ridurre il numero di addetti a una certa mansione.
DUBBI SUL «MANIFESTAMENTE». Se il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, può condannare l'azienda al pagamento di un'indennità risarcitoria secondo il regime della tutela obbligatoria.
Se, però, ritiene che il licenziamento sia «manifestamente infondato», può applicare al caso il regime previsto dalla tutela attenuata, e quindi può ordinare il reintegro del lavoratore.
Il problema è che, finora, nessuna norma ha mai spiegato nei dettagli cosa significhi l'avverbio «manifestamente», suscitando ulteriori polemiche e dibattiti, tanto a livello politico quanto a livello giurisprudenziale.

5. Scontro tra chi vuole ampliare la norma e chi vuole abolirla


La riforma Fornero del 2012 non ha dunque posto fine alla discussione sull'articolo 18.
L'arco delle posizioni va da chi ritiene che vada abolito il limite dei 15 dipendenti, applicando la norma anche per i lavoratori delle aziende che ne hanno meno, a chi ritiene invece opportuno rivedere - o eliminare del tutto - l’articolo 18, semplificando i meccanismi per i licenziamenti.
FRENO PER LE NUOVE ASSUNZIONI. Chi sostiene l'abolizione pensa che l'articolo 18 costituisca un freno per le nuove assunzioni e all’espansione delle aziende.
Molte imprese, secondo questo ragionamento, preferirebbero rimanere al di sotto dei 15 dipendenti per evitare di essere soggette alla norma dello Statuto dei lavoratori.
LA NORMA È ESSENZIALE. Chi è per il mantenimento - o per l’estensione - della norma anche al di sotto dei 15 dipendenti, ritiene invece che l'articolo 18 sia fondamentale per offrire maggiori tutele ai lavoratori e per proteggerli da licenziamenti senza giusta causa, specie in periodi di forte crisi economica.
Senza un simile 'scudo', affermano i sostenitori della norma, i datori di lavoro potrebbero licenziare molto più facilmente i loro dipendenti.