QUALCUNO
SI RICORDA DEL PSI?
Dopo il rovinoso naufragio in Tangentopoli sembrava niente più che un relitto
del passato, un ricordo buono solo per i nostalgici della Prima Repubblica e
gli amanti dei garofani. Giampaolo Pansa l’aveva annoverato tra i ”Cari
Estinti” del pre – Mani pulite, in un suo libro di qualche anno fa. Nel 2007,
però, è avvenuto il miracolo: dopo una sepoltura di 15 anni è resuscitato, con
tanto di garofano e alla faccia del Pansa. Ma di questo gran ritorno non
sembrano essersene accorti in molti. Oggi il Partito Socialista Italiano,
guidato da Riccardo Nencini, non raggiunge l’1%. Probablimente, la stragrande
maggioranza dell’opinione pubblica non sa nemmeno chi sia questo Nencini e che
è pure Viceministro dei trasporti. Non sa che, alleandosi con il PD, i socialisti
sono riusciti ad ottenere in questa legislatura quattro seggi in Parlamento, a
differenza che in quella precedente, in cui avevano corso senza alleati e non
avevano raggiunto neanche per sogno la soglia di sbarramento. Non sa, insomma,
nemmeno che il PSI esista.
UN
CREPUSCOLO BEN POCO GLORIOSO per un partito che è il più antico d’Italia
―lo fondò nel 1892 Filippo Turati ― e protagonista fin dall’inizio della sua
storia di lotte, campagne e vittorie per gli interessi dei lavoratori. Per
l’introduzione della giornata di otto ore, per la ratificazione dell’età minima
lavorativa, dobbiamo ringraziare il PSI. E non può essere nemmeno sottovalutato
il suo ruolo sia nella resistenza ― cominciando dal sacrificio di Giacomo
Matteotti e dei fratelli Rosselli fino all’organizzazione attiva in formazioni
partigiane durante il conflitto ― sia il successivo contributo alla
costituente. Alle fatidiche elezioni del ’48 si allea con i comunisti nel
Fronte Popolare: dopo la sonora sconfitta della coalizione, il PSI si trova a
cedere il ruolo di prima forza di sinistra al sempre più potente PCI. Il
segretario, Pietro Nenni, rompe definitivamente coi comunisti nel 1956,
all’indomani dell’invasione sovietica di Budapest. E il partito, durante gli
anni Sessanta, diventa sempre più istituzionale partecipando alla formazione di
vari governi di centrosinistra, molti dei quali presieduti dal democristiano
Aldo Moro. Sono anni difficili, in cui il partito cambia più volte nome e
alleanze, fino a toccare il suo minimo storico nel 1976: quando, come fondo di
un progressivo declino, il PSI scende sotto la soglia del 10%. Ma nel congresso
successivo viene eletto segretario Bettino Craxi, figlioccio di Nenni, il quale
imporrà una svolta radicale al futuro del partito.
CAPIRE
L’ERA CRAXI è fondamentale per comprendere non
solo il partito che da quelle ceneri è resuscitato, ma soprattutto per la
vicenda di tangentopoli e della politica contemporanea nel suo insieme ― la
famosa Seconda Repubblica, che pure molti danno già per estinta. Pierpaolo
Pecchiari, segretario provinciale milanese del partito rifondato, oggi descrive
così quegli anni:
«Per primi avevamo compreso il cambiamento della società e avevamo
cominciato a darle una lettura diversa, che non fosse quella classica marxista.
Il periodo più creativo è stato dal ’76 all’84, fino alla formazione del primo
governo. Oggi l’eredità di quegli anni è soprattutto sentimentale, anche se
sono convinto che alcuni spunti politici siano ancora validi: ad esempio, sulla
questione palestinese appoggiammo prima di ogni altro in Italia la politica dei
due stati. Erano tempi molto ideologizzati e sul terreno dottrinario iniziammo
un aspro confronto con il PCI».
Craxi è il secondo capo del governo
non democristiano nel dopoguerra, dal 1984 al 1987: comprende che in Italia
l’unica alternativa di sinistra allo strapotere della Democrazia Cristiana non
può venire dal Partito Comunista, troppo abbracciato all’unione Sovietica, ma
da una forza di centrosinistra più moderna e diversa, che prova a costruire.
Nel 1985 toglie addirittura la falce e il martello dal simbolo del partito,
sostituendoli con il garofano rosso. Il partito si sposta progressivamente più
al centro, secondo alcuni addirittura a destra. Non più un partito operaio, ma
pensato e portato avanti dal ceto medio, dagli impiegati nel settore dei
servizi, quando la globalizzazione è ancora alle porte. La città più socialista
d’Italia è Milano, la Milano da bere. Alle elezioni del 1989, il partito fa
registrare una ripresa e San Bettino ne è il padre padrone incontrastato.
LA DIASPORA
DEL POPOLO NON ELETTO comincia
con Tangentopoli, che ha in Craxi uno dei pesci più grossi nella sua rete. Il
segretario viene condannato per Corruzione e finanziamenti illeciti al partito.
Condannato in contumacia, visto che prima del verdetto si dà alla latitanza in
Tunisia, ad Hammamet, dove morirà nel 2000. Questi avvenimenti sfasciano il
partito e quello che restava della sua reputazione ― è il periodo in cui
vengono coniate battute come ”Scatta l’ora legale. Panico tra i socialisti.”
Alle elezioni del 1994, col nuovo segretario Del Turco, non riesce ad
andare oltre il 2,5%.
Nel congresso successivo, preso atto
del tracollo e dell’indebitamento sempre più pesante del partito, se ne decreta
la soppressione. A conferma dell’ormai scarsa aderenza di una certa parte dei
militanti con i valori della sinistra classica, vari ”compagni” decidono di
schierarsi con i nuovi allineamenti di centrodestra. «A partire dagli anni ’80,
il conflitto col PCI è stato così forte da far entrare nel sangue del partito
l’anticomunismo. Dopo tangentopoli, poi, in cui gli eredi del PCI non vennero
toccati mentre il PSI venne fatto a pezzi, questo conflitto se possibile si è
estremizzato. Molti ancora oggi non sono riusciti a dimenticare questo
”sgarbo”». Ancora più netto è stato il ”compagno” Renato Brunetta: «Sono un
socialista riformista. Guardo dove sono i comunisti e sto dall’altra parte».
Dopo queste vicende segue un interregno di quindici anni, in cui chi decide di
non confluire direttamente in uno dei due poli dà vita a una serie di partitini
destinati a null’altro che all’ onanismo politico. Socialisti Italiani, Partito
Socialista Riformista, Federazione Laburista, Alleanza Democratica, tutti
organismi che hanno scarsa o nulla rilevanza. Se ne accorgono anche gli
interessati e, a un certo punto, l’aria di reunion tira sempre più intensa.
REUNION che viene preceduta da
alcune iniziative. Nel 2006, una farraginosa commistione di socialisti e
radicali dà vita alla Rosa nel pugno che, dopo gli scarsi risultati elettorali,
si scioglie. Enrico Boselli, segretario dei Socialisti Democratici Italiani e
membro del progetto, propone l’avviamento di una Costituente Socialista per
rifondare lo storico partito. Nel 2007 vengono aperti i lavori; in qualche modo
il congresso fondativo vero e proprio del nuovo partito incomincia il 4 luglio
2008 e Il 7 ottobre il neonato viene ribattezzato Partito Socialista Italiano.
Subito salta fuori la solita croce e inconfessabile delizia del socialismo e
della sinistra italiana, quella del litigio in famiglia: Bobo Craxi, figlio di
Bettino, aderisce con i suoi Socialisti Italiani ma la sorella Stefania decide
di stare fuori con il suo movimento dei Riformisti Italiani. E questa è solo
una delle innumerevoli trame, lotte interne, tragedie greche recitate da
bambini a cui piace sentirsi grandi e che non c’è spazio per elencare qui, ma
che somigliano molto alla lotta tra due calvi per un pettine visto che alle
elezioni del 2008 il neonato PSI raggiunge uno sconsolante 0,98%.
Paradossalmente, il partito aveva più margine di manovra come sciame di
gruppuscoli separati che gruppo ‒ forse ‒ unitario.
GLI ULTIMI
ANNI sono trascorsi cercando di darsi un
senso, di sopravvivere alle spinte centrifughe ― che come abbiamo visto sono
sempre frizzanti ― e a fronteggiare dei problemi nuovi. Dice sempre Pecchiari:
«Negli anni ’80, ogni sede di Milano aveva 400 iscritti. Oggi 400 è
grossomodo il totale dei tesserati di tutta la città. E poi l’età media è
troppo, troppo alta. Si parla di moltissimi tesserati over ’70». Con questi
numeri è difficile pensare di organizzare una militanza attiva. Anche gli altri
partiti italiani hanno problemi simili, ma meno gravi.
Eppure il PSI le infrastrutture le
avrebbe ancora: la sede milanese di via Andrea Costa sembra rimasta agli anni
’80 ma è ben utilizzabile, con un busto di Pietro Nenni che scruta benevolo la
sala centrale; è stato rifondato lo storico giornale Avanti! (anche se
solo online). Sembra però che manchi del tutto la capacità di mettere un minimo
il naso fuori dal proprio cortile. Alle ultime amministrative a Bergamo, il
partito ha ottenuto lo 0,38%. Non è esagerato dire, considerata la
partecipazione e gli aventi diritto al voto, che hanno votato PSI solo i membri
del partito e tutti i parenti e gli amici che si sono lasciati convincere a
farlo. «Va anche detto che il bilancio annuale del PSI è di 780 000 euro,
mentre ad esempio il PD spende 5 milioni l’anno solo in comunicazione. Con
queste differenze è difficile competere».
MA A
QUESTO PUNTO
non sarebbe meglio confluire alla fine nel calderone democratico? «Attualmente,
la base del PSI è più a sinistra del PD. Allo scioglimento del partito, è
rimasta come base soprattutto la corrente mancina, che pure negli anni ’80 era
minoritaria. Il direttivo nazionale invece non lo è; a dire il vero è spaccato
in una corrente filogovernativa capeggiata da Nencini e una più ”di lotta”».
Essere troppo filogovernativi, però, può essere un grosso rischio ― specie per
un movimento di sinistra. E l’abbraccio mortale del renzismo sta schiacciando
un po’ tutti i partiti di quell’area, con il 5 Stelle a far da incudine al suo
martello. Come se non bastasse, il PSI non può nemmeno più fregiarsi del titolo
di ”unico rappresentante del socialismo europeo in Italia”, visto che il PD è
da poco entrato nel PSE. «Il PD però non sta facendo abbastanza nei confronti
delle politiche di austerità. Certo, ci sono dei punti in comune: con la
sinistra dei democratici stiamo raccogliendo firme per il referendum sulla
legge 243. Se il PD avesse una struttura diversa, federativa come quella del
Labour inglese, si potrebbe poi pensare a una confluenza, ma oggi non mi sembra
che il partito sia intenzionato ad ammettere al suo interno voci autonome».
IN
ITALIA LA SINISTRA VINCE QUANDO SCIVOLA AL CENTRO e questo slittamento
può aprire spazio alla creazione di una forza sinistra che riempia quel vuoto.
Il PSI potrebbe coltivare l’intenzione di candidarsi a polo attrattivo di
quest’area: certo, non si vede all’orizzonte una forza in grado di federare il
bacino elettorale senza litigare dopo tre mesi ― basti vedere l’esperienza
della Lista Tsipras e l’incipiente disgregazione di SEL ― ma dato il suo
passato burrascoso e il suo remoto di cattiva fama presso l’elettorato più
rosso ― in larga parte certissimo che i socialisti siano tutti ladroni che
tengono in casa un ritratto di Craxi e aspirano a diventare yuppies ― sembra
difficile che il PSI possa ambire a diventare qualcosa di più che una cartolina
inviata dal 1984 e un monumento alla litigiosità accecante dei rossi nostrani.
Forse, però, c’è un errore di fondo: l’idea
stessa di creare un partito come collage di tante piccole forze in crisi
d’identità, che non può funzionare.
Si chiami PSI o in qualsiasi altro modo ―
SEL, Sinistra Democratica, chi più ne ha più ne metta. «Magari aggregandosi di
volta in volta, come sul referendume per la legge 243, ci si può mettere
d’accordo e sperare di costruire qualcosa». Prima il contenuto del contenitore,
insomma. Ma il contenitore può essere un corpo centenario riesumato dopo 15
anni? «Oggi dobbiamo scegliere se il PSI diventerà un partito residuale, perso
nel suo passatismo e nel culto del suo passato, o minoritario». C’è una bella
differenza.
Stefano
Colombo