Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


martedì 26 febbraio 2013

ITALIA – Fine della seconda repubblica


Fine della seconda repubblica: ...e fine del petulante bipolarismo, fine dei governi tecnici che si sostituiscono ai politici inetti e dissipatori, dei commentatori politici che non capiscono niente al di fuori dei giochini di palazzo. Esattamente come alle regionali in Sicilia, ma con una % più alta , i grillini sono il primo partito d'Italia. Il ceto politico, giornalistico , affaristico e burocratico sta già pensando come passare sopra a questa evidenza, esattamente come è passato sopra alla vittoria del referendum sull'acqua. Quel che secondo lor signori non è politicamente corretto non esiste, perchè non deve esistere.
La soluzione c'è, per tirare avanti: la tempra morale degli eletti di Berlusconi è tale che ci vorrà pochissimo per mettere insieme una pattuglia di senatori che assicuri la maggioranza al Senato. Chiederanno di essere pagati, ma in fondo gli basta tirare in lungo a stipendio pieno l'ultima legislatura che una legge elettorale demenziale gli assicura. Come d'altra parte sono rimasti a stipendio pieno le centinaia di direttori generali dei ministeri, moltiplicatisi come un tumore durante la seconda repubblica, e che essendo così tanti assicurano l'impossibilità di fare delle riforme, perchè sono in troppi per redigere i necessari regolamenti applicativi, che sarebbe la parte di loro competenza.
Quest'anno i risultati elettorali sona arrivati in ritardo perchè il materiale consegnato ai seggi era pieno di errori, le scritte sulle buste non corrispondevano ai moduli che bisognava firmare mille volte, le buste non erano adatte a quello che tassativamente dovevano contenere. Non abbiate timore, i responsabili di questo carnevale saranno tutti promossi, per questo abbiamo un governo dei tecnici, cioè fatto da quelli di loro che garantiscono l'applicazione degli ordini di Bruxelles, anche e soprattutto se basati su ipotesi sbagliate.
La modesta soddisfazione che ci è data è la sparizione dei tanti petulanti imbecilli che affollavano i contorni della politica della seconda repubblica: quelli che senza di loro non si può fare un telegiornale ( come l'insopportabile Casini), quelli che senza di loro non si può essere di sinistra, quelli che non essendo capaci di fare i magistrati ci fanno vedere che non sono neanche capaci di fare politica, e tanto meno gli amministratori locali, quelli che vivono di nostalgie, dai vetero socialisti ai neoborbonici, alle badanti di Pannella, ai rifondatori di ogni cavolata seppellita dalla storia.
Non ci resta che sperare in una difficile capacità di autoriforma del partito miracolato da queste elezioni che per 120.000 voti di differenza ha l'onere di indirizzare il paese, dove raccoglie solo il 30% dei voti e una % molto maggiore di antipatie.
Avrà il PD la capacità di indirizzare se stesso al di fuori degli interessi delle lobby di un apparato di potere, fondamentalmente tosco-emiliano, con propaggini laziali, fatto da dirigenti di enti locali e di servizi pubblici di ridotte attitudini ma di elevate pretese, idem per i cooperatori, che pensa di poter governare con i suoi staffisti, i "tecnici della società civile" che spacciano derivati e ricette della tecnocrazia europea senza capirne una mazza, e gli intellettuali di contorno che organizzano recite su temi arcadici : un giaguaro difficile da smacchiare, soprattutto da autosmacchiare? Dove trovare le forze per un ricambio, in un contesto in cui chi cerca di emergere viene abbattuto, sempre con ipocrisie democraticiste: facciamo le primarie a velocità controllata, immettiamo donne e giovani purchè delle nostre famiglie, collaboriamo col sindacato purchè si comporti come noi e lo aiutiamo a coprire le magagne dei centri di formazione che formano solo stipendi per i formatori e tangenti per i loro dirigenti, collaboriamo con chi ci aiuta a sostenere che non c'entriamo con Penati e Monte Paschi?
..Eppure questa autoriforma in tempi brevi e con un massiccio ricambio è la sola speranza che ci resta, prima del tracollo generale alla prossima puntata: ma bisogna entrare a sporcarsi le mani, non si può star seduti al bar sport a commentare e segnare i punti. Anche perchè i commenti li scrivono loro e i loro amici giornalisti che sperano di sopravvivere alla crisi della carta con un posto in RAI.

ITALIA – Elezioni: i socialisti tornano in parlamento e Di Pietro è fuori, ma il voto genererà ingovernabilità.


lunedì 25 febbraio 2013. I socialisti, dopo cinque anni, tornano in Parlamento. 
Sono stati eletti Riccardo Nencini al Senato, Marco Di Lello, Oreste Pastorelli, Pia Locatelli e Lello di Gioia alla Camera.
Dopo un pomeriggio caratterizzato da notizie contraddittorie e spesso prive di fondamento in cui la confusione e l'imprecisione dei dati forniti dagli istituti demoscopici è stata evidente, il segretario nazionale del Psi, Riccardo Nencini commentando i dati dei risultati delle elezioni politiche e il risultatato del Psi ha sottolineato che: "C'è la conferma del desiderio di un forte cambiamento, ma questo genererá ingovernabilità.
Da socialisti - prosegue Nencini - dovremmo gioire: noi torniamo in parlamento, Di Pietro è fuori- continua.
Da italiani siamo preoccupati. C'era bisogno di stabilità, gli italiani hanno scelto ingovernabilità- conclude

ITALIA - La notte dell’incredulità in cui misurammo l’Italia


Incredulità. Questo il sentimento che serpeggia nella Casa dell’Architettura, il quartier generale allestito dal Pd che ospita i giornalisti di mezzo mondo. C’erano la Tv svizzera, la radio francese, i cinesi e una selva di telecamere ad attendere l’esito delle elezioni che promettevano di consegnare l’Italia alla “Terza Repubblica”. E, invece, dopo le prime proiezioni, i volti si sono fatti tesi e quella che prometteva essere una festa si è tramutata in un’attesa estenuante fatta di numeri, conferme, smentite, poi ancora conferme e, di nuovo, smentite. Ma, alla fine, il quadro che prima sembrava fumoso è apparso chiaro a tutti. Ingovernabilità. Questa l’ombra che si allunga, sinistra, sull’Italia. Il Pd è la prima forza politica del Paese. Ma, non basta per governare. E’ stato difficile spiegare ai giornalisti stranieri incollati ai monitor che, pur avendo più voti, il centrosinistra ha strappato meno seggi al Senato: poi, dopo il primo smarrimento, anche loro hanno capito di cosa sia fatto il “porcellum”.
L’ARABA FENICE - Quello che nessuno, invece, è riuscito a spiegarsi, né gli stranieri, né gli italiani, è come sia stato possibile il risultato del Pdl, di Berlusconi. Sembrava davvero finita. In tanti credevamo di esserci messi finalmente alle spalle quell’anomalia politica, culturale, democratica e giudiziaria, rappresentata dalla figura di Silvio Berlusconi. E, invece, eccolo risollevarsi dalle ceneri con i suoi trucchi da prestigiatore e il suo fare da guitto. Ha illuso, avvelenato, intrattenuto, ingannato e ce l’ha fatta ancora. Davvero, a questo punto, sarà dovere improrogabile della sinistra quello di interrogarsi profondamente e cercare di dare una risposta ad una domanda difficile anche da formulare.
INGOVERNABILITA’ – Certo è che, come ha affermato il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, «andiamo incontro ad una situazione che il Paese non ha mai vissuto». Letta si è appellato all’unica figura che fino ad ora è riuscita ad incarnare un punto fermo nel bailamme della realtà politica italiana: «Ad oggi, la prospettiva di un voto immediato non pare essere una buona strada da seguire. Spero che il presidente della Repubblica possa aiutare a trovare delle soluzioni migliori di questa in un momento complesso».
NATALIE, LA SOCIALDEMOCRATICA SVEDESE - «Quello che vedo mi lascia esterrefatta e mi spaventa. Per tante ragioni. Non mi aspettavo un risultato di questo tipo. Non riesco davvero a capire: sembra che il voto italiano apra la porta ad una situazione d’instabilità che pone un’economia importante per l’Europa come quella italiana in grave rischio di finire in una situazione greca». Lo dice Natalie Sial, una giovane ragazza che lavora nel dipartimento web and social media del Partito socialdemocratico svedese, venuta in Italia per presenziare al voto: «davvero non riesco a raccapezzarmi di come sia possibile che il partito di Berlusconi sia riuscito ad ottenere ancora tanti voti. In Europa si è molto parlato delle elezioni italiane e, unanimemente, si vedeva nella coalizione di centrosinistra la sola in grado di offrire un po’ di stabilità». Natalie si dice anche «sorpresa per quello che riguarda la discrepanza tra i sondaggi, gli instant polls e le proiezioni: ho visto tre differenti esiti e non capisco come sia possibile. Sicuramente credo che anche il centrosinistra alla luce di questo scenario debba rivedere qualcosa». Rispetto al futuro dell’Italia afferma: «temo che un ritorno al voto possa creare molta instabilità e danneggiare l’Italia come l’Europa, ma non riesco davvero ad immaginare cosa possa accadere visto che i risultati non sono ancora definitivi. E, comunque, per me è molto difficile comprendere a fondo quando si tratta di politica italiana». Da stasera non solo per Natalie.
Roberto Capocelli

lunedì 25 febbraio 2013

ITALIA - IL CENTROSINISTRA STRAPPA UNA MAGGIORANZA RISICATA SOLO ALLA CAMERA, MA IL PDL NON CI STA. CAOS AL SENATO


Boom di Grillo, centrosinistra avanti nelle percentuali e con in mano la golden share del premio di maggioranza a Montecitorio, anche se al fotofinish, Bersani che rivendica una vittoria alla Camera seppur risicata e il centrodestra che con il segretario Pdl contesta il risultato e si appella alla Cancellieri: i dati del Viminale, rivendica Alfano, sono “solo ufficiosi” e visto “lo scarto irrisorio” invita il ministro a non ufficializzare i risultati. Molti si dicono vincitori di queste elezioni ma il primo partito è quasi ovunque il Movimento Cinque Stelle che ha terremotato il quadro politico. E il dato centrale e’ che nessuna coalizione ha al Senato i numeri per governare da sola. Sul fronte Palazzo Madama infatti il centrosinistra conquista il premio di maggioranza in 11 regioni; il centrodestra in 7. In Molise c’e’ il pareggio. Il seggio della Valle d’Aosta e’ andato alla lista Vallee d’Aoste. Il centrosinistra vince in Piemonte, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Basilicata, Sardegna. Il centrodestra vince in Lombardia, Veneto, Abruzzo, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia. Anche Grillo e Monti hanno conquistato seggi.
TESTA A TESTA ALLA CAMERA – I dati ufficiali affluiti finora al Viminale da 61.368 sessioni scrutinate sulle 61.446 totali pari al 98% danno il leader della coalizione di centrosinistra al 29,55% e il capo della coalizione di centrodestra al 29,18%. Beppe Grillo con il Movimento 5 Stelle e’ al 25,54% e la coalizione centrista guidata da Mario Monti al 10,56% mentre la Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia con il 2,24% e’ esclusa dalla Camera. Per quanto riguarda il risultato finora conseguito dai singoli partiti, la prima formazione politica e’ M5S con il 25,54% mentre il Pd ottiene finora il 25,41% e il Pdl il 21,56%. Seguono nell’ordine Scelta Civica di Monti con 8,30, Lega Nord con 4,09, Sel con 3,20, Fratelli d’Italia con 1,95 e Udc con 1,78% mentre non superano la soglia di sbarramento La Destra di Storace con 0,64 e il Fli di Fini con lo 0,46%.
L’ANASI AMARA DI BERSANI - La coalizione di Pierluigi Bersani ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Quando restano da scrutinare solo 134 sezioni, il vantaggio della coalizione di Bersani e’ incolmabile (124.899 voti sul centrodestra). Il segretario dei democratici: “Il centrosinistra ha vinto alla Camera e per numero di voti anche al Senato. E’ evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il paese. Gestiremo le responsabilita’ che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell’Italia”. Pier Luigi Bersani dopo una intera giornata di silenzio interviene e avverte: ‘gestiremo il risultato nell’interesse dell’Italia’. Il segretario del Pd mette quindi un paletto sul ruolo dei democrats detentori, insieme ai Psi di Nencini e Sel, della maggioranza assoluta a Montecitorio. Un concetto ripreso, sia pure con diverse sfumature, dal partito di Nichi Vendola che, insieme al Pd, fa una netta apertura a Beppe Grillo, portando ad ipotizzare scenari di governo totalmente inediti. Un risultato inferiore alle attese per il Pd ma soprattutto un exploit, solo in parte previsto, di Beppe Grillo e un recupero oltre le aspettative di Silvio Berlusconi. E’ un’analisi amara per Pier Luigi Bersani che sperava di ‘smacchiare il giaguaro’ ed invece ora si trovera’ a dover discutere proprio con il Cavaliere per uscire dal cul de sac dell’esito elettorale.
NENCINI, DESIDERIO CAMBIAMENTO SARA’ INGOVERNABILITA – “C’e’ la conferma del desiderio di un forte cambiamento, ma questo generera’ ingovernabilita”. E’ il commento di Riccardo Nencini, segretario nazionale del Psi, ai dati parziali dei risultati delle elezioni politiche. ‘Da socialisti dovremmo gioire: noi torniamo in Parlamento, Di Pietro e’ fuori- continua. Da italiani siamo preoccupati. C’era bisogno di stabilita’, gli italiani hanno scelto ingovernabilita”, conclude.
DI LELLO “DARE RISPOSTE ALLA PIAZZA DI GRILLO” - “Non si possono eludere le domande che arrivano dalla piazza di Grillo se non vogliamo ritrovarci a combattere contro una nuova forma di demagogia populista”. E’ il commento di Marco Di Lello, coordinatore della segreteria del Psi. “Dobbiamo dare – prosegue – delle risposte serie e credibili anche a quegli elettori che hanno votato Cinque Stelle. Questo non vuol dire prendere per buone tutte le proposte di Grillo, ma discuterle si’, e quando e’ giusto anche condividerle e portarle avanti. Se saremo maggioranza terremo conto di quanto chiedono gli elettori del movimento, altrimenti si dovra’ tornare al voto e domandare nuovamente la fiducia agli elettori”.
GRILLO COL BOTTO – Il risultato piu’ eclatante e’ certamente quello di Beppe Grillo. Gli elettori hanno premiato il movimento cinque stelle che registra un boom che va oltre ogni aspettativa. L’M5S e’ primo alla Camera ballando attorno al 25% con un infinitesimale vantaggio rispetto al Pd (dati ancora parziali del Viminale). Il centrosinistra arrivera’ al premio di maggioranza alla Camera solo grazie all’alleanza con Vendola, che gli porta un altro 3,2 e ritorna in parlamento dopo l’assenza di una legislatura. Sia il Pd che Sel cominciano a mettere i loro paletti avvertendo che la prima mossa deve spettare a chi ottiene il premio di maggioranza alla Camera. Berlusconi, va detto, e’ autore di una netta rimonta; partito da sondaggi che due mesi fa assegnavano al Pdl percentuali inferiori al 20%, oggi grazie alla campagna elettorale giocata su temi caldi come la restituzione dell’Imu, al Senato e’ sopra il 21 e con la Lega e gli altri alleati si avvicina al 30% strappando al Pd i premi di maggioranza in Lombardia, Campania e Sicilia e Veneto, impedendo cosi’ a Bersani di vincere a Palazzo Madama. Il suo alleato leghista sconta l’attivismo del Cav fermandosi sotto il 4 per cento.
MONTI AMARI - Le urne hanno un sapore amaro per Mario Monti, che non raggiunge il 10 per cento alla Camera: i suoi alleati centristi Udc e Fli escono con le ossa rotte dalla prova elettorale. Fini restera’ fuori dal Parlamento mentre Casini, che ammette la sconfitta, dovrebbe invece farcela al Senato. Con questo risultato (appena migliore al Senato) il progetto centrista non puo’ nemmeno giocare il ruolo di ago della bilancia: i voti del professore non danno la maggioranza ne’ al centrosinistra ne’ al centrodestra. Fallimentare l’esperimento di Rivoluzione Civile: la lista messa insieme da Antonio Ingroia non raggiunge il quorum, e l’insuccesso trascina fuori dal Parlamento anche Antonio Di Pietro. Con questi risultati l’incertezza sul nuovo governo e’ totale. Dal Pd, dopo la doccia fredda che ha gelato le speranze di Bersani alimentate dai primi instant poll, sono immediatamente arrivate una serie di precisazioni per escludere la possibilita’ delle larghe intese e di ‘inciuci’ con il pdl.
MAL DI PANCIA DEMOCRATICI – Per Stefano Fassina l’unica strada da percorrere e’ quella che porta a nuove elezioni dopo l’approvazione di una nuova legge elettorale. Enrico Letta in un primo momento si era pronunciato per il ritorno alle urne, poi si e’ corretto. Ma nel Pd c’e’ anche chi pensa che sarebbe il caso di avviare un dialogo con il Movimento cinque stelle. Nel Partito democratico sotto choc per una vittoria sfuggita sul filo di lana, tace Matteo Renzi, lo sfidante di Bersani alle primarie: sono in molti oggi a pensare che con lui alla guida del centrosinistra il risultato sarebbe stato diverso. Il Pdl non sembra disposto ad avallare la richiesta di nuove elezioni : un’idea ‘irresponsabile’ sostiene il Fabrizio Cicchitto. Angelino Alfano rinvia il momento delle proposte a dopo lo spoglio completo della Camera e intanto parla del ‘risultato straordinario’ ottenuto da Berlusconi contro tutte le aspettative.
GRILLO RIDENS – A ridersela sotto i baffi e’ Beppe Grillo. Il leader delle cinque stelle, che ha spettato i risultati elettorali nel suo orto, si gode il successo e festeggia l’exploit con un tweet: ‘L’onesta’ andra’ di moda’. Niente altro. E avverte, comunque niente ‘inciuci’. Tutti gli occhi sono puntati sulle decine di suoi deputati che sbarcheranno a Montecitorio, per capire come si muoveranno. Rabbiosa, invece, l’amarezza di Ingroia che ha accusato Bersani di aver ‘consegnato il paese alla destra’ rifiutando ogni accordo con Rivoluzione Civile.
Lucio Filipponio

ITALIA - Il Pdl contesta il voto e si gioca la carta del “ricorso all’americana”


Dopo aver condotto una campagna elettorale “all’italiana”, a notte inoltrata il Pdl invoca il sistema americano per evitare che venga proclamata la vittoria del centrosinistra alla Camera. È quasi l’una di notte quando il segretario Angelino Alfano annuncia di aver chiesto al ministro dell’Interno Cancellieri di non proclamare il vincitore prima che si pronuncino gli Uffici circoscrizionali e l’ufficio centrale presso la Cassazione. Il principio a cui si appella per questa sorta di ricorso è ciò che in Usa viene definito il “too close to call” e deriva, spiega il delfino del Cav, “dall’impossibilità di dichiarare il vincitore considerato lo stato irrisorio di voti a livello percentuale ed assoluto”.
RICORSO ALL’AMERICANA – Tradotto: visto che a Montecitorio sono in gioco 340 seggi, il Pdl, prima di perderli, darà battaglia come nel 2006, quando fece ricontare le schede finché non dovette arrendersi all’evidenza che i voti erano maggiori per gli avversari. I dati ufficiosi del Viminale, infatti, danno la coalizione di Bersani in vantaggio con il 29,56% contro il 29,17 del centrodestra. Ricorso o non ricorso, il Pdl fa finta di aver vinto le elezioni e le tenta tutte per rimandare l’appuntamento con la verità, cioè che il partito di Berlusconi riesce solo a evitare un clamoroso flop. Anzi, sarebbe tecnicamente corretto dire che lo attenua, visto che la base di partenza era un misero 15%, anche se il clima che si è respirato per tutto il giorno al quartier generale azzurro è stato di grande euforia.
INSTABILITA’ E IL SOGNO BERLUSCONIANO – Da Cicchitto ad Alfano, da Bruno a Gasparri, tutti gli esponenti del partito sono passati davanti telecamere e taccuini non hanno mai voluto ammettere che ora si apre una fase di totale instabilità per il Paese. Sarebbe, però, ingeneroso non tributare un elogio a Berlusconi, che in un tour de force televisivo vissuto con intensità encomiabile a sparare a zero contro il governo tecnico e la Germania di Angela Merkel, ha saputo riaccendere l’entusiasmo del suo elettorato deluso dagli scandali, dalla corruzione e dalle beghe interne al partito e alla coalizione che stravinsero le elezioni del 2008 raggiungendo quasi il 40% dei consensi.
UN POMERIGGIO IN CASA PDL – Eppure il pomeriggio più intenso del ventennio berlusconiano era iniziato con pochi cronisti e ancor meno esponenti del partito, in giro per la microtendopoli allestita dal partito nel cortile interno di via dell’Umiltà. Nella sede storica che fu di Forza Italia, l’aria sembrava fredda, e non solo per le gelide temperature dell’inverno romano e la totale assenza di un sistema di riscaldamento. Il clima – almeno fino all’uscita delle prime proiezioni – era di speranza, ma con poca convinzione. Man mano che arrivavano i dati ufficiali dal Viminale, la fiammella negli occhi gli esponenti del Pdl si riaccendeva. A tenere le briglia di un partito che stava rialzando la testa ci pensava però Daniele Capezzone, che richiamava tutti all’ordine “aspettando i numeri veri”. Il portavoce del Pdl, comunque, non disdegnava di elogiare il suo leader, Silvio Berlusconi, per “il Miracolo compiuto” di raddoppiare i consensi per il suo movimento in una campagna elettorale senza esclusione di colpi. Verso sera toccava poi a Fabrizio Cicchitto ergersi a portavoce della grande gioia di tutto il partito per un risultato che sembrava insperato soltanto due mesi fa. Non disdegnando una stoccata al rivale del Pd, Enrico Letta, che definisce “irresponsabile” perché a metà pomeriggio anticipava la possibilità di nuove elezioni dato il quadro di totale ingovernabilità che si andava profilando. Anche il capogruppo alla Camera, infatti, chiedeva di attendere l’esito dell’ultimo seggio scrutinato prima di cantare vittoria o chiedere nuove consultazioni.
UN PAREGGIO PER UNA VITTORIA – Quando nella sala stampa allestita in via dell’Umiltà entrava il segretario Angelino Alfano, il pareggio era ormai una realtà. Ma il numero due del Pdl escludeva categoricamente l’ipotesi di governissimi o di un ritorno alle urne nei prossimi mesi. Anzi, rilanciava con delle stoccate a chi “diceva eravamo morti”. Dimenticando, però, che i primi a pensarla così erano proprio lui e alcuni big del partito, che volevano a gran voce l’indizione delle primarie per evitare di essere “barzellettati”. Ma ora che Grillo ha definitivamente scompaginato gli equilibri politici del nostro paese, per il Pdl si apre la sfida più grande: trovare un futuro senza Berlusconi. E se scambiare un pareggio per una vittoria è il primo passo di questo processo di rinnovamento, in via dell’Umiltà, i sorrisi di questa giornata, saranno presto sostituiti da musi lunghi e mani nei capelli.
Dario Borriello

venerdì 22 febbraio 2013

FRANCIA - Lione, attacco antisemita ai tifosi del Tottenham


Aggressione in un pub da parte di 30 ultras lionesi: tre feriti

Giovedì, 21 Febbraio 2013 - Nuova aggressione, a sospetto sfondo antisemita. contro un gruppo di tifosi del Tottenham. È avvenuta a Lione, dove la sera del 21 febbraio il team inglese affronterà l'Olympique in Europa League.
Secondo la ricostruzione della polizia, un gruppo di 30 ultras lionesi armati di bottiglie e mazze ha dato l'assalto la sera del 20 febbraio a un pub dove erano radunati alcuni supporter inglesi.
Tre gli aggressori fermati, uno è aderente a un gruppo di stampo neonazista. Lo scorso novembre i tifosi del Tottenham avevano subito analoga aggressione a Roma.
«Ho notato tre uomini camminare davanti al locale, ovviamente controllando dove fossero i tifosi del Tottenham», - ha raccontato a Reuters Tv il buttafuori del pub, Liam Kirwin, «hanno capito che erano tutti all'interno, e dopo dieci minuti è arrivata la prima ondata dell'assalto. Era un attacco organizzato, di almeno 50 persone. Si sono fermati fuori dal pub, hanno fatto tutti nello stesso momento il saluto nazista e poi hanno lanciato la carica. Hanno cercato di entrare dalla porta principale, ma sono riuscito a respingerli con una sedia».
TRE ASSALTI CONTRO IL LOCALE. Al primo assalto, però, ne è seguito un secondo. «Sono tornati dopo cinque minuti», ha detto ancora Kirwin, «stavolta erano un gruppo più piccolo, tra i 20 e i 30, però armati, con mazze e bottiglie e armi che potevano davvero fare male».
L'invasione non è riuscita, ma sono scoppiati tafferugli con alcuni dei sostenitori inglesi che erano nel locale, che hanno fatto tre feriti e sette feriti leggeri. «Se fossero tornati una terza volta, non saremmo riusciti a fermarli», ha concluso il buttafuori, «siamo stati fortunati, molto fortunati».

ITALIA - Voto, Italia lo spauracchio del mondo


Crisi economica, misoginia e instabilità. Le nostre elezioni spaventano Ue e Usa. E la Francia ci bolla: «Paese malato».

di Giovanna Faggionato

Giovedì, 21 Febbraio 2013 - Il puzzle italiano preoccupa il mondo. A tre giorni dalle elezioni politiche, gli occhi della stampa internazionale sono tutti puntati sull'Italia.
Gli analisti si dividono tra la paura del ritorno di Silvio Berlusconi, quella del populismo anti-euro di Beppe Grillo o della Lega Nord e i soliti fenomeni italiani: corruzione e similia.
PROF E CLOWN AL POTERE. I giornali passano in rassegna l'originale galleria di nuovi aspiranti leader - dal professore Mario Monti al burocrate Pier Luigi Bersani, dall'evasore miliardario Berlusconi al clown Grillo, come li ha chiamati Der Spiegel - e ipotizzano improbabili combinazioni di governo.
Tanto che persino la stampa greca si lascia andare all'inquietudine, sollevando dubbi sulla futura stabilità economica del Paese.
Comunque vada, la vita politica italiana sembra ancora una volta destinata a stupire e a preoccupare. Perché da Roma, concordano tutti, dipende il futuro dell'Europa.

Kathimerini: il Cav ha sparigliato i piani delle élite europee


Il quotidiano greco Kathimerini non nasconde la tensione: dopo sette manovre di austerity, la Grecia torna a tremare per l'avvicinarsi delle elezioni italiane.
«Una volta pensavo di vivere in un Paese piuttosto noioso, durante un periodo storico inspido, senza particolari crisi, grandi sorprese e disastri. Ora non ne sono più così sicuro», ha scritto, con una buona dose di autoironia, l'editorialista Alexis Papachelas.
UN NUOVO RUOLO PER BERLUSCONI. La sua analisi parte da lontano: nei movimenti tettonici che stanno agitando l'economia globale ci sono Paesi come la Cina che riescono a programmare a lungo termine e altri come l'Europa che hanno una complessa e disfuzionale serie di democrazie.
L'Italia, per il giornalista greco, è un perfetto esempio del sistema: «Le élite europee avevano pianificato per la svolta europea un governo guidato dalla coalizione di centrosinistra o dal serio centrodestra di Mario Monti».
Poi è arrivato Silvio Berlusconi, con i suoi spettacoli, le sue promesse e le sue boutade. E ha sparigliato le carte, facendo «collassare» i piani delle élite. Adesso il Cavaliere è destinato comunque ad avere un ruolo chiave nella partita politica italiana: «L'Italia gioca con i fuochi d'artificio».

Libération: un Paese in crisi etica


Il 19 febbraio il quotidiano francese progressista Libération ha dedicato all'Italia uno speciale di 12 pagine: un viaggio lungo l'austrada del Sole che ha ripercorso le tappe del miracolo economico degli Anni 60. Ma dove una volta c'era il boom economico Libé ha trovato le aziende cinesi di Prato, una capitale assediata dalla criminalità organizzata e i muri crollati di Pompei.
La vera crisi, però, sembra partire da Milano, la città più produttiva e più europea d'Italia. Ed è una crisi etica: nel capoluogo lombardo, ha scritto il giornale, i credenti non hanno più fede nella politica. La società cattolica si trova senza bussola, sfiduciata e delusa da una classe dirigente che si è dimostrata sprovvista di morale.
L'ITALIA È ORMAI MALATA. Per il foglio di sinistra, la diagnosi è senza appello: l'Italia è «un Paese malato». E «l'eterno ritorno» di Berlusconi lo dimostra. Ma il Cavaliere, è il sintomo di una patologia complessiva, che non risparmia alcun figurante. Da Antonio Ingroia, «un giudice divenuto tribuno che confonde la giustizia con la politica», a Monti «che pensa che il suo talento non debba confrontarsi con la democrazia».

Guardian: l'Italia archivi il Cav e riscopra le donne


Un'economia stagnante, la misoginia, una giustizia inefficiente, corruzione e criminalità, apatia politica, disoccupazione e divario Nord-Sud.
Il giornale britannico progressista Guardian ha riepilogato i guai italiani, partendo dalla crisi economica, la recessione peggiore in oltre 20 anni, ma andando ben oltre.
«La persona che verrà eletta il prossimo weekend ha una lista formidabile di cose da fare», ha avvertito il quotidiano inglese. Ma le priorità non sono scontate.
DOPO L'ECONOMIA, LA MISOGINIA. Al secondo posto, infatti, dopo il dossier economico, il Guardian punta i riflettori sulle donne, escluse dalla vita economica e politica. Le proteste contro il bunga bunga hanno portato alla luce una questione strutturale: «L'Italia ha un tasso di occupazione femminile del 46,5% (dati Ocse): 12 punti percentuali sotto la media europea. E tra i Paesi Ocse fanno peggio solo Grecia, Turchia e Messico».
L'Italia dovrebbe liberare le sue energie migliori, spiega il Guardian, ma l'instabilità politica del Paese, «la nazione europea che ha avuto più governi dal Dopoguerra», mette ancora una volta a rischio l'impegnativa agenda.

Der Spiegel sogna Monti e Grillo insieme all'opposizione


I candidati a Palazzo Chigi descritti dall’ex vicedirettore del Financial Times, Wolfgang Munchau, sul settimanale tedesco Der Spiegel, suonano così: «Un clown, un evasore fiscale miliardario condannato in primo grado, un uomo dell'apparato politico di sinistra che non capisce nulla dell'economia, e un professore di economia conservatore che non sa nulla di politica».
Secondo l'editorialista la campagna italiana è «una delle elezioni più interessanti che abbiamo avuto in Europa da decenni. Perché è una decisione sul futuro dell'euro».
IL FRONTE NO EURO. Con il successo annunciato di Grillo, è il ragionamento di Der Spiegel, un grande partito anti euro è destinato a entrare in parlamento. E pure Berlusconi, nonostante gli anni al governo e l'esperienza da leader europeo, solletica l'euroscetticismo attaccando la Germania.
GRANDE COALIZIONE PD-PDL. La conclusione del giornalista però è originale. Secondo Munchau il risultato migliore sarebbe un trionfo della sinistra. Ma nel caso si dovesse arrivare a un'alleanza, allora sarebbe preferibile la vittoria dei democratici alla Camera e del Pdl al Senato. In modo da portare al governo una grande coalizione tra i due maggiori partiti. «Con Angelino Alfano come candidato, Berlusconi dovrebbe giocare di retroguardia», precisa Munchau. E con Monti insieme a Grillo all'opposizione, si eviterebbe di creare un fronte compatto anti euro: «Si potrebbe avere un governo forte e una opposizione divisa - e non viceversa».

Wall Street Journal: sfumature di panico tra centro e sinistra


Tanto rumore, nervosismo e sfumature di panico. Vista dal Wall Street Journal l'Italia sembra un Paese sull'orlo di una crisi di nervi. Lo dimostrano gli interventi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per mettere fine alla ridda di dichiarazioni di Bersani e Monti sulle future alleanze. E anche la comparsa a sorpresa dell'ex commissario europeo, Romano Prodi, sul palco della manifestazione del centrosinistra in piazza del Duomo a Milano.
Secondo il quotidiano americano, invitando l'ex primo ministro il leader del Partito democratico ha voluto lanciare una sfida al Professore. Secondo il giornale Usa Prodi è stato candidato a «futuro capo dello Stato al posto di Monti». Un modo per rispondere con le stesse armi: un altro professore stimato in Europa e capace di dare un segnale forte ai mercati.

ITALIA: La generazione trasparente


La precarietà e la mancanza di prospettive degli under 30 sono tra i problemi più gravi del paese. Eppure la campagna elettorale ha largamente ignorato l’argomento.

Beppe Severgnini 21 febbraio 2013 CORRIERE DELLA SERA Milano

[Esplora il significato del termine: Nessuno potrà accusare il futuro governo di non aver mantenuto le promesse verso i giovani italiani: perché queste promesse nemmeno sono state fatte. I nuovi elettori, almeno fino a oggi, sono i grandi esclusi della campagna elettorale. Come se la politica fosse una discoteca, e gli energumeni sulla porta non volessero lasciarli entrare. Troppo educati, ragazzi, questo posto non fa per voi.
Le cinque alleanze in competizione sembrano ispirate a Gangnam Style : si agitano, gesticolano, si divincolano, spingono cercando la luce del riflettore. I giovani connazionali guardano, attraverso i vetri del televisore, e commentano amari sui social network. Molti sono tentati di non votare, e farebbero male: è quello che i buttafuori della politica aspettano, in modo da controllare il gioco con facilità. Le tradizionali reti sociali – quelle che hanno mantenuto finora la pace precaria nelle strade – si stanno progressivamente strappando.
Le famiglie hanno esaurito la pazienza e stanno finendo i soldi: lo dimostrano i negozi «compro oro», il mercato immobiliare e l’andamento dei consumi di beni durevoli. La disoccupazione giovanile (15-24 anni) tra chi cerca un lavoro è al 37%, mai così alta dal 1992. E se questa è la media nazionale, immaginate cosa (non) accade nell’Italia del sud. La percentuale di laureati italiani che cercano fortuna all’estero, in dieci anni, è passata dall’11% al 28%. Non è più sana voglia di esplorare; è una diaspora, pagata con risorse pubbliche.
Davanti a fenomeni di questa portata, a cinque settimane dal voto, uno s’aspetta che la politica rifletta, decida, proponga piani precisi e misure concrete: un Paese non può, infatti, giocarsi un’intera generazione. Ma non accade. I candidati discutono appassionatamente di imposte e di pensioni. Parlano, quindi, a chi un lavoro ce l’ha o l’ha avuto. Chi rischia di non averlo non conta, pare.
Gli italiani con meno di trent’anni stanno diventando una generazione trasparente. Li attraversiamo con lo sguardo, anche quando diciamo di tenere a loro. Un atteggiamento pericoloso: la frustrazione potrebbe trasformarsi in rabbia e avere conseguenze drammatiche. Le avvisaglie ci sono. Gli spaccatutto non hanno trovato alleati. Per adesso. Ma ne cercano sempre, e le cose potrebbero cambiare.
La bulimia televisiva degli stagionati protagonisti – Silvio Berlusconi 63 ore, Mario Monti 62 ore, Pier Luigi Bersani 28 ore (dal 2 dicembre al 14 gennaio) – rischia di diventare una provocazione. Antonio Ingroia va in televisione e subito s’azzuffa; Beppe Grillo s’azzuffa senza andarci. Solito spettacolo, soliti discorsi. L’Italia politica del 2013 sembra la cittadina del film Groundhog Day – Ricomincio da capo . Il protagonista, Bill Murray, ogni mattina si sveglia ed è sempre lo stesso giorno. I proclami giovanilistici del governo Monti si sono ridotti alla reintroduzione dell’apprendistato e a un’Agenda digitale di difficile applicazione. Il Movimento 5 Stelle propone «un sussidio di disoccupazione garantito», ma non spiega con quali soldi finanziarlo. La destra non parla di giovani e non li candida, per far posto ai pretoriani del capo. Neppure la sinistra, che pure qualche volto nuovo lo presenta, propone misure radicali per i giovani connazionali. Il prestito d’onore, suggerito da Anna Finocchiaro, è un cerotto su una frattura. Occorrono flessibilità in entrata e in uscita, semplicità normativa, vantaggi fiscali e contributivi.
Un’assunzione, oggi, è un atto di eroismo; deve diventare un’operazione conveniente per tutti. Se, per far questo, occorre tagliare la spesa pubblica, si tagli: dicendo dove, come e quando. Lasciando stare l’istruzione, che costa allo Stato italiano quanto gli interessi sul debito pubblico, 4,5% del prodotto interno. Con una differenza: gli interessi sul debito servono a tappare le falle del passato, l’istruzione è il motore per costruire il futuro. Se vogliamo mani nuove e robuste sul volante italiano, non offendiamo i guidatori di domani: altrimenti ci lasceranno a piedi, e avranno ragione. Soprattutto, non diciamo di volerli aiutare, quando per loro non siamo disposti a rinunciare a niente. «L’amore trasparente non so cosa sia», cantava Ivano Fossati.] Nessuno potrà accusare il futuro governo di non aver mantenuto le promesse verso i giovani italiani: perché queste promesse nemmeno sono state fatte. I nuovi elettori, almeno fino a oggi, sono i grandi esclusi della campagna elettorale. Come se la politica fosse una discoteca, e gli energumeni sulla porta non volessero lasciarli entrare. Troppo educati, ragazzi, questo posto non fa per voi.
Le cinque alleanze in competizione sembrano ispirate a Gangnam Style : si agitano, gesticolano, si divincolano, spingono cercando la luce del riflettore. I giovani connazionali guardano, attraverso i vetri del televisore, e commentano amari sui social network. Molti sono tentati di non votare, e farebbero male: è quello che i buttafuori della politica aspettano, in modo da controllare il gioco con facilità.
Le tradizionali reti sociali – quelle che hanno mantenuto finora la pace precaria nelle strade – si stanno progressivamente strappando. Le famiglie hanno esaurito la pazienza e stanno finendo i soldi: lo dimostrano i negozi «compro oro», il mercato immobiliare e l'andamento dei consumi di beni durevoli. La disoccupazione giovanile (15-24 anni) tra chi cerca un lavoro è al 37%, mai così alta dal 1992. E se questa è la media nazionale, immaginate cosa (non) accade nell'Italia del sud. La percentuale di laureati italiani che cercano fortuna all'estero, in dieci anni, è passata dall'11% al 28%. Non è più sana voglia di esplorare; è una diaspora, pagata con risorse pubbliche.
Davanti a fenomeni di questa portata, a cinque settimane dal voto, uno s'aspetta che la politica rifletta, decida, proponga piani precisi e misure concrete: un Paese non può, infatti, giocarsi un'intera generazione. Ma non accade. I candidati discutono appassionatamente di imposte e di pensioni. Parlano, quindi, a chi un lavoro ce l'ha o l'ha avuto. Chi rischia di non averlo non conta, pare.
Gli italiani con meno di trent'anni stanno diventando una generazione trasparente. Li attraversiamo con lo sguardo, anche quando diciamo di tenere a loro. Un atteggiamento pericoloso: la frustrazione potrebbe trasformarsi in rabbia e avere conseguenze drammatiche. Le avvisaglie ci sono. Gli spaccatutto non hanno trovato alleati. Per adesso. Ma ne cercano sempre, e le cose potrebbero cambiare.
La bulimia televisiva degli stagionati protagonisti – Silvio Berlusconi 63 ore, Mario Monti 62 ore, Pier Luigi Bersani 28 ore (dal 2 dicembre al 14 gennaio) – rischia di diventare una provocazione. Antonio Ingroia va in televisione e subito s'azzuffa; Beppe Grillo s'azzuffa senza andarci. Solito spettacolo, soliti discorsi. L'Italia politica del 2013 sembra la cittadina del film Groundhog Day – Ricomincio da capo . Il protagonista, Bill Murray, ogni mattina si sveglia ed è sempre lo stesso giorno.
I proclami giovanilistici del governo Monti si sono ridotti alla reintroduzione dell'apprendistato e a un'Agenda digitale di difficile applicazione. Il Movimento 5 Stelle propone «un sussidio di disoccupazione garantito», ma non spiega con quali soldi finanziarlo. La destra non parla di giovani e non li candida, per far posto ai pretoriani del capo. Neppure la sinistra, che pure qualche volto nuovo lo presenta, propone misure radicali per i giovani connazionali. Il prestito d'onore, suggerito da Anna Finocchiaro, è un cerotto su una frattura. Occorrono flessibilità in entrata e in uscita, semplicità normativa, vantaggi fiscali e contributivi.
Un'assunzione, oggi, è un atto di eroismo; deve diventare un'operazione conveniente per tutti. Se, per far questo, occorre tagliare la spesa pubblica, si tagli: dicendo dove, come e quando. Lasciando stare l'istruzione, che costa allo Stato italiano quanto gli interessi sul debito pubblico, 4,5% del prodotto interno. Con una differenza: gli interessi sul debito servono a tappare le falle del passato, l'istruzione è il motore per costruire il futuro.
Se vogliamo mani nuove e robuste sul volante italiano, non offendiamo i guidatori di domani: altrimenti ci lasceranno a piedi, e avranno ragione. Soprattutto, non diciamo di volerli aiutare, quando per loro non siamo disposti a rinunciare a niente. «L'amore trasparente non so cosa sia», cantava Ivano Fossati.

giovedì 21 febbraio 2013

TUNISIA - si è dimesso il primo ministro Jebali


Fallito il tentativo di governo tecnico.
Mercoledì 20 febbraio - Il primo ministro tunisino Hamadi Jebali si è dimesso.
Lo ha annunciato lui stesso nel corso di un intervento su Hannibal Tv.
GIORNATA CONVULSA. Le dimissioni sono giunte a conclusione di una convulsa giornata, ma che lasciava prevedere che epilogo avrebbe avuto. E che infatti è culminata nell'incontro, nemmeno tanto lungo, tra lo stesso Jebali e il presidente della Repubblica Marzouki, al quale il premier ha esposto le sue motivazioni, dicendo che aveva annunciato che, in caso di fallimento del suo tentativo di governo tecnico, avrebbe lasciato l'incarico. Una proposta che il premier aveva fatto nella speranza di arginare la crisi che soffoca il Paese in campi come l'economia, la sicurezza e la stessa politica. Ma invano. Per questo il premier in tivù è apparso molto provato, ma soprattutto deluso, come se solo in pochi avessero avuto fiducia nella sua iniziativa.
NON SI RICANDIDA. Con una dichiarazione destinata a tenere banco, Jamadi Jebali ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni, ma che resterà in politica. Annuncio da interpretare, viste le fortissime frizioni che lo hanno diviso dal suo partito, Ennahda, di cui è segretario generale, che di fatto ha creato le condizioni per il fallimento del suo tentativo.
ENNHADA SPACCATO. La non-ricandidatura alle politiche (di cui ha auspicato l'indizione a breve, sollecitando l'Assemblea costituente a finire finalmente il suo lavoro) vede solo due possibili sbocchi: o Jebali ha intenzione di cercare spazi lontano da Ennahda, oppure vuole restare nel partito. E questo significa schierarsi contro il presidente Rached Gannouchi, di cui era fino a poche settimane fa il delfino. La legge elettorale prevede che l'incarico sia conferito al partito di maggioranza relativa, che nonostante il calo dei consensi, resta ancora Ennahda, con i suoi 89 deputati su 217.
LAARAAYEDH O BHIRI A CAPO DEL GOVERNO. Intanto è già il momento del toto-nomine. Potrebbe essere Ali Laarayedh, potente ministro dell'Interno ed esponente di primissimo piano di Ennahda, a ricevere dal presidente della Repubblica tunisina, Moncef Marzouki l'incarico di formare il nuovo governo, posto che tale incombenza ricada su qualcuno espressione del partito di maggioranza relativa. È questa la voce raccolta in ambienti del partito, insieme a quella che vorrebbe, in alternativa, il ministro della Giustizia, Noureddine Bhiri. Sia Laarayedh che Bhiri, peraltro, sono da tempo nel mirino delle opposizioni, che ne chiedono la sostituzione con “laici”, ritenendo la gestione dei due dicasteri assolutamente deficitaria. Accuse montate all'inverosimile per la gestione di eventi delicati (l'uccisione di due esponenti dell'opposizione, Lotfi Naguedh e Chokri Belaid) e per la lentezza delle risposta della giustizia.
UN FUTURO POLITICO COMPLICATO. Ma ufficialmente, né potrebbe essere altrimenti, è compito di Marzouki dipanare il groviglio di interessi politici che sta bloccando ogni iniziativa in Tunisia e non è impresa facile. Prima o poi, le elezioni politiche si devono tenere e il quadro che ne esce è destinato ad essere certamente molto diverso da quello che ha determinato la composizione dell'Assemblea costituente, con Ennahda partito di maggioranza relativa, ma che sta perdendo la fiducia di parte del suo elettorato, al di là delle certezze granitiche espresse dai suoi dirigenti. Gannouchi in testa, che, appena sabato 16 febbraio, ha parlato del suo partito come se investito da Allah del compito di salvare la Tunisia.

ITALIA - Pd, una mancia da deputati


I parlamentari devolvono al partito appena 1.500 euro su uno stipendio da 12-13 mila. Per i candidati c'è un gettone di ingresso da 35 mila. Ma i soldi rientrano in fretta una volta eletti.
di Michele Anselmi
Il partito non è più quello di una volta. Anzi, il Partito, con la p maiuscola. Lontani gli anni in cui i parlamentari del Pci versavano un terzo dello stipendio alle Botteghe oscure. Così almeno assicuravano i deputati e l’Unità menava vanto. Oggi vigono, nel Pd, regole meno draconiane. Intervistato da Lilli Gruber su La7, il deputato capolista Enrico Letta ha confessato di staccare ogni mese un assegno di 1.500 euro: tanto devolve al partito. La cifra, pur esibita da Letta con un certo orgoglio, è parsa in realtà piuttosto bassa, almeno rispetto alla “vulgata” che resiste nel ricordo dei militanti di sezione.
Possibile che, rispetto a uno stipendio medio netto che si aggira tra i 12 e i 13 mila euro - considerando indennità, voci accessorie e tutto il resto - Letta e i suoi colleghi diano al Pd così poco? Possibile.
LA CONFERMA DI AMATI. La conferma viene dalla senatrice marchigiana uscente Silvana Amati, entrata a Palazzo Madama nel 2006, oggi al terzo posto in lista, quindi con buone se non ottime possibilità di essere rieletta. Anche lei, allarmata dagli ultimi sondaggi ufficiosi, teme «un Grillo sopra il 20%», ma questo è un altro discorso.
Amati, classe 1947, già docente universitaria di istologia, presidente del Consiglio regionale marchigiano e membro della segretaria nazionale ai tempi di Piero Fassino, conferma: «La quota è di 1.500 euro al mese, esattamente come dice Letta. Questo per quanto riguarda il partito centrale». E poi? «A seconda delle realtà territoriali, il parlamentare è tenuto a versare altre quote. Io, per esempio, do mensilmente altri 200 euro al Comitato regionale. Alcuni colleghi anche alle federazioni provinciali».
QUOTA RIMODULATA E SCARICABILE. Insomma, comunque si guardi alla questione, anche dopo i tagli recenti su vitalizi e giustificazioni spese rispetto alla legge del 1965 che equiparava gli stipendi dei parlamentari a quelli dei giudici di Corte d’appello (terzo livello), il sacrificio economico non sembra così soffocante, proibitivo. Lo riconosce francamente la stessa Amati, pur spiegando che la cifra - appunto quei 1.500 euro - è stato definita con la nascita del Pd. Prima, con i Ds, le cose andavano diversamente, ed è curioso: perché i parlamentari della Margherita, cioè gli ex democristiani, versavano appena 500 euro al mese, mentre quelli di provenienza Pds, diciamo ex comunista, circa 2.300. «Il nuovo partito non aveva i debiti del vecchio, così s’è deciso di rimodulare la quota nazionale» avverte la senatrice.
Ben inteso, una parte di quei 1.500 euro versati ogni mese sono “scaricabili” dalle tasse, per circa il 19%.
IL GETTONE DI INGRESSO PER POSIZIONI TOP. Resta invece, e qui la faccenda si fa più dolorosa, la storia del gettone di ingresso, chiesto dal Pd (pure dal Pdl) ai candidati in posizioni alte. Per l’esattezza ai primi sei nella lista al Senato e ai primi nove della Camera. «Quasi un balzello, un pegno da pagare perché tanto quei soldi, a spese dei contribuenti, rientreranno attraverso lo stipendio», ha raccontato Il Fatto Quotidiano. La differenza della pratica bipartisan starebbe solo nelle cifre: il Pd chiede mediamente 35 mila euro, il Pdl 25 mila. Cambiano i modi di pagamento: i berluscones pretendono che la somma sia cash e anticipata per intero; il partito di Bersani offre invece la possibilità di rateizzare la cifra nel corso dei cinque anni.
Anche su questa voce sentiamo il parare di Silvana Amati. «Paga solo chi si trova in cima alla lista e quindi ha buone chance di essere eletto» rivela la senatrice del Pd. La quale ricorda che la pratica è in voga dal 2006, pur variando da regione a regione. Nel caso marchigiano, lei versò 20 mila euro nel 2006 e 40 mila nel 2008.
QUOTA DILUITA NEI CINQUE ANNI DI LEGISLATURA. E adesso, in vista delle elezioni del 24 e 25 febbraio? «La cifra, a fondo perduto, è di 30 mila euro. Naturalmente ho deciso di tirar fuori di tasca mia, senza chiedere prestiti in banca, ma rateizzando».
Un sistema che è diventato ormai una tradizione. «Diamo una mano al partito sin dai tempi del Pci», ha raccontato Andrea De Maria, candidato alla Camera dopo aver sbancato alle “primarie” bolognesi raccogliendo oltre 10 mila preferenze. «Qui in Emilia Romagna la somma richiesta è 35 mila euro, da versare nei cinque anni di legislatura con un prelievo dalle indennità da parlamentari. Non c’è niente di male» aggiunge.
S’intende, che nel Pd è stato concesso uno strappo alla regola, cioè uno sconto, ai candidati più giovani e con meno disponibilità economiche.
Giovedì, 21 Febbraio 2013

GERMANIA/ITALIA - Il voto italiano spaventa la Germania


Merkel non commenta. Ma Schulz è contro il Cav. Il Ft mette in guardia da Grillo. E dal ticket Monti-Bersani.
di Pierluigi Mennitti
Giovedì, 21 Febbraio 2013 – Da Berlino - Se Angela Merkel non ha proprio nessuna voglia di essere trascinata nell'ultimo miglio della campagna elettorale italiana, altri esponenti politici tedeschi, titolari di ruoli istituzionali, non si sono tirati indietro nel suggerire agli elettori della Penisola i loro personali consigli.
Così il presidente del parlamento europeo Martin Schulz, socialdemocratico, che ha speso un paio di giorni alla convention del Partito democratico di Torino, ha pensato bene di prendersi una rivincita verbale sull'uomo che una decina di anni fa gli propose pubblicamente il ruolo cinematografico di kapò, rilasciando un'intervista alla Bild nella quale ha invitato gli italiani a non ricadere nella tela del Cavaliere.
SCHULZ SI VENDICA DI BERLUSCONI. «Alla ricerca di personali scappatoie, Silvio Berlusconi ha già portato il Paese alla rovina con azioni di governo irresponsabili e nel voto del 24 e 25 febbraio è in gioco anche la credibilità che il premier Mario Monti è riuscito a restituire all'Italia», ha scritto lo Standard che ha riportato alcune anticipazioni dell'intervista.
Schulz si è poi detto molto fiducioso «che gli italiani sapranno individuare la scelta corretta per il loro Paese».
BERLINO VUOLE RESTARE NEUTRALE. Dalle parti della cancelleria, invece, c’è stata sorpresa e irritazione per l’improvvida uscita di Monti  sullo scarso gradimento per un governo guidato dal leader del centrosinistra Pier Luigi Bersani.
Il portavoce di Merkel ha dovuto ribadire ancora una volta, via Twitter, la neutralità di Berlino di fronte alle scelte degli italiani: una dichiarazione a uso e consumo della stampa italiana, giacché dell'incidente diplomatico fra Monti e Merkel non v'è stata alcuna traccia sui quotidiani tedeschi del 21 febbraio.

Il risultato del voto può minare la stabilità dell'Italia

Sono stati pubblicati invece molti articoli sulle ultime battute di campagna elettorale e, in tutti, è prevalso un tono preoccupato sugli esiti che il risultato potrebbe avere sulla stabilità di un Paese chiave nella crisi dell'euro.
Wolfgang Münchau, giornalista economico del Financial Times dotato in curriculum di una vera laurea e un vero master e di una rubrica settimanale sullo Spiegel online, ha tracciato un quadro non proprio rassicurante delle opzioni che si presentano all'elettore italiano: «Immaginatevi di dover andare alle urne e di avere una scelta ristretta fra un clown, un miliardario condannato in prima istanza per evasione fiscale, un politico di apparato della sinistra che non capisce nulla di economia e un professore di economia che non capisce nulla di politica».
LA PAURA DI GRILLO, L'ANTI-EUROPEO. L'attacco dell'articolo è efficace, anche se abusato e utilizzato nel recente passato per descrivere bizzarre competizioni elettorali in alcuni Paesi fragili dell'Europa orientale. Ma ha almeno il merito di aver allargato lo spettro dell'incertezza all'intero spettro politico italiano, evitando la trappola dell’ossesione tedesca tutta concentrata su Berlusconi: «Beppe Grillo, per esempio, viaggia su percentuali che sfiorano il 20% e più viene sottovalutato più diventa insidioso. Sicuramente non vincerà le elezioni, ma per la prima volta siederà in parlamento un grande partito dichiaratamente antieuropeista».
ESALTATI I MESSAGGI POPULISTI. Münchau ha descritto le debolezze delle proposte dei quattro candidati principali, evidenziando come la campagna elettorale abbia accentuato le difficoltà di Monti e Bersani ed esaltato le qualità populistiche di Berlusconi e Grillo.
Poi ha tracciato gli scenari possibili, secondo il criterio dell'interesse europeo e della stabilità della moneta unica: «Una vittoria completa del centrosinistra di Bersani, che un mese fa appariva certa, sarebbe stato il risultato migliore. Ma una vittoria risicata, quale quella che i sondaggi oggi suggeriscono, garantirebbe il ritorno alle urne in breve tempo».
IL PERICOLO DELLA GROSSE KOALITION. Al contrario della maggior parte degli osservatori tedeschi, Münchau non ha mostrato grande considerazione per il ruolo che Monti può svolgere nei futuri equilibri politici: «Una chiara vittoria della sinistra sarebbe un buon segnale per l'Italia, così anche una chiara vittoria della destra. Ma un successo stentato per una qualsiasi delle due coalizioni è il peggior risultato possibile. Un governo Bersani-Monti non sarebbe garanzia di stabilità: è come se in Germania venisse messa in piedi una coalizione fra liberali, socialdemocratici, Linke, verdi e forse i pirati. In più dovrebbe confrontarsi con una forte opposizione antieuropeista, guidata da Berlusconi e Grillo».
Lo scenario migliore? «Allo stato dei sondaggi, l'ipotesi meno dannosa sarebbe quella di un patto fra Bersani e Berlusconi», ha azzardato il giornalista, «una sorta di Grosse Koalition guidata dallo stesso leader Pd o da Angelino Alfano, con il Cavaliere confinato ad agire nelle retrovie. Un governo stabile, votato alle riforme, che si troverebbe di fronte due opposizioni diverse, Monti e Grillo, e dunque destinate a neutralizzarsi. Il ritorno di Berlusconi sarebbe uno shock per Angela Merkel ma non il peggior incidente pensabile».
FALSE PROMESSE ELETTORALI. Le inattese incertezze del Monti politico hanno sorpreso anche il Neue Zürcher Zeitung: «Non solo il noto pifferaio Berlusconi, ma anche gli altri due candidati di spicco Monti e Bersani hanno disseminato la campagna elettorale di promesse dubbiose e regali fiscali difficilmente realizzabili nella complicata situazione finanziaria in cui versa il Paese».
Per il quotidiano svizzero è indicativo il fatto che «in tutti i programmi delle principali coalizioni in campo si punti a una maggiore solidarietà finanziaria dell'Europa come elemento centrale per affrontare la crisi nei prossimi mesi: eurobond o almeno una ripartizione dei tassi di rischio sul debito, eccezioni alla disciplina di bilancio e al Fiscal pact per incentivare investimenti pubblici mirati alla crescita».
Aiuti europei al posto delle politiche di risparmio: un terreno incerto sul quale si è finora smarrito anche François Hollande e che non sarà agevole almeno fino alle elezioni tedesche di settembre
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EGITTO - Cairo, la Primavera violata di piazza Tahrir


Escalation di violenze contro le donne in Egitto. Loro protestano in strada. Ma Morsi cerca di insabbiare gli stupri.
di Costanza Spocci
Giovedì, 21 Febbraio 2013 - Il treno del mattino che parte da Il Cairo e arriva ad Alessandria è cambiato: da mercoledì 13 febbraio, un nuovo scompartimento è riservato solamente alle viaggiatrici.
Nelle prossime settimane, altri due convogli - quelli per Zagazig (Sharqeya, nel Nord-Est della regione del Delta) e al Qanater al-Khaireyah (40 chilometri a Nord-Ovest della capitale) - verranno forniti di carrozze per signore.
I PICCHI DI VIOLENZA CONTRO LE DONNE. Il provvedimento rientra nel pacchetto di misure adottate dal governo egiziano in risposta ai nuovi picchi di violenza sulle donne registratisi nelle scorse settimane in alcuni luoghi pubblici della capitale. Ma vale solo per tre dei sette mila treni delle Ferrovie statali egiziane.
La misura è stata percepita e raccontata come un primo passo verso l’islamizzazione del Paese, dopo il travagliato arrivo al potere di Mohamed Morsi e dei Fratelli musulmani. Ma non è una novità assoluta.
METRO SEPARATI GIÀ DAL 2008. Per evitare le molestie al di fuori delle mura domestiche, nei vagoni della metro del Cairo già dal 2008 esisteva una separazione tra uomini e donne. Non imperativa per queste ultime, la suddivisione del tragitto per sessi doveva essere tassativamente rispettata dagli uomini. Pena la sollevazione femminile di tutto il vagone e una valanga di insulti che ricoprivano il malcapitato fino al momento della sua uscita (fatto salvo per i venditori ambulanti carichi di fazzoletti, biro colorate e specchietti).
Un provvedimento antipalpeggiamenti efficace, ma non certo la risoluzione al problema delle molestie sessuali, che funesta la città sovrappopolata. Tant’è che la separazione dei viaggiatori vale solo nelle ore di punta: dopo le 21 la quarta e la quinta carrozza rosa della metro, si ripopolano di uomini e ragazzi, senza sollevare alcun reclamo dalle donne presenti.
DAL 25 GENNAIO 30 STUPRI A TAHRIR. La ressa e la calca sono infatti due fattori chiave delle molestie e degli stupri. E le proteste di piazza sono – loro malgrado - un incubatore di violenza: dal 25 gennaio ci sono stati quasi 30 stupri a Tahrir.
In piazza la violenza segue un rituale preciso. Una volta individuata la ragazza, il baltagheya (ovvero teppista al soldo, termine con cui ogni fazione politica accusa i propri avversari) si incarica di far scoppiare una rissa non lontano dall’obiettivo. Contemporaneamente un altro gruppo di almeno cinque uomini si lancia sulla ragazza. Alla “prima cerchia”, seguono altri 10, 20 uomini.
In alcuni casi possono diventare anche 100. Intorno alla ragazza si formano così circoli di uomini ammassati, mentre le cerchie esterne li proteggono da chiunque cerchi di intervenire: non tutti sono sbaltaghy, alcuni approfittano semplicemente della situazione.

Il ritiro delle forze di sicurezza dalle strade

L’ondata di violenze è aumentata esponenzialmente dal febbraio 2011 con il ritiro delle forze di sicurezza dalle strade egiziane, ed è in continua crescita. L’assoldamento della baltagheya, considerata la longa manus di elementi contrari alle proteste, atta a creare disordini e panico con lo scopo di ridurre il numero delle persone in piazza, è una consuetudine mantenuta durante il governo di transizione militare e che perdura con l’attuale governo della Fratellanza.
LE MARCE DI PROTESTA DELLE DONNE. Marce di donne in protesta contro le molestie sessuali sono state attaccate a Tahrir quando in piazza c’erano anche i Fratelli musulmani e i salafiti. In tali occasioni questi ultimi, inoltre, non hanno mai garantito un servizio d’ordine (civile quando erano all’opposizione, istituzionalizzato ora che sono al governo) proprio nell’angolo della piazza tristemente famoso perché vi avvengono la maggior parte delle violenze.
MORSI NON HA RISOLTO IL PROBLEMA. Al settimo mese inoltrato di presidenza, Morsi non ha preso nessun provvedimento per ridurre gli scontri con armi bianche né le violenze sessuali.
Evitando di risolvere il problema alla radice, il governo ha delegittimato le proteste e, tramite Mervat Ebeid, donna e parlamentare della Fratellanza, ha chiesto piuttosto alle egiziane di non scendere in piazza nelle manifestazioni dell’opposizione, onde evitare di diventare facile preda di teppisti.
LA CREAZIONE DI “SPAZI APPOSITI”. In parallelo, la commissione per i diritti umani della Camera Alta del Parlamento egiziano, ha suggerito la creazione di “spazi appositi” per proteste di piazza femminili: una compartimentazione che riprende l’idea delle carrozze per signore nei treni, discriminatoria quanto di fatto cosmetica, come dimostra l’esperimento dei vagoni metro rosa dell’era Mubarak.
Proposte specifiche per arginare la violenza sulle donne ancora non sono arrivate dall’opposizione istituzionalizzata, se non una richiesta generale di riformare il settore della polizia, fortemente implicato nelle violenze di piazza di ogni genere nonché nei test di verginità ai quali sono state costrette le donne negli scorsi anni. Richiesta fino ad ora inascoltata.
I GRUPPI DI PATTUGLIA VOLONTARI. Per salvaguardarsi dall’insabbiamento del governo sugli stupri e stimolare la società civile, alcune ragazze e ragazzi in piazza si sono organizzati in gruppi di pattuglia volontari, come Tahrir Bodyguard e Operation Anti-Sexual Harassment.
E iniziano ad avanzare idee. Tra queste, la richiesta di sopprimere la divisione in classi per sesso alle scuole primarie. Come lo slogan che ha accompagnato le nelle ultime marce anti-harassment: «Invece di controllare le vostre figlie, educate i vostri figli».

USA - Givens boia redento


Dopo 62 esecuzioni, ora lotta contro la pena di morte.

a boia ad attivista contro la pena capitale. Dopo 17 anni di professione in Virginia, durante i quali ha messo a morte 62 persone, Jerry Givens ha detto basta.
IL PASSO INDIETRO. La svolta è arrivata con l'ultima condanna che Givens si è rifiutato di eseguire all'ultimo momento. Il condannato, infatti, era innocente.
«Dalle 62 vite che ho preso, ho imparato molto», ha affermato l'ormai ex boia, che ai condannati chiedeva: «Se sapevi che uscendo e andando a compiere stupri e omicidi la conseguenza era la pena di morte, perché farlo?». Lui, insomma, lo considerava «un suicidio».
L'INVERSIONE DI TENDENZA. Il mese scorso la Virginia ha condotto la sua esecuzione numero 110 dell'era moderna e Givens ha pregato per il condannato, ma anche per la fine della pena di morte, ha raccontato il Washington Post. Il quotidiano ha poi sottolineato come la vicenda di Givens in realtà rispecchi quella della Virginia e di tutti gli Stati Uniti.
E i numeri lo confermano. L'esecuzione della condanna a morte inflitta a Robert Gelason, il 16 gennaio, è stata la prima in Virginia da un anno e mezzo. In tutti gli Stati Uniti il numero delle condanne a morte nel 2011 e 2012 ha raggiunto il record più basso, in calo del 75% rispetto al 1996, secondo il Centro di informazione sulla condanna a morte. E ben cinque Stati l'hanno messa al bando negli ultimi cinque anni.

I primi dubbi nel 1993 dopo una grazia


Ma quando Givens ha cominciato, nel 1984, l'atmosfera era ben diversa. Il primo uomo di cui ha eseguito la condanna a morte, Linwood Briley, era stato giudicato colpevole di una serie di omicidi, assieme a due suoi fratelli. Givens si ritrovò poche ore prima dell'esecuzione a pregare accanto a lui nella cappella del braccio della morte del carcere.
PRIME PERPLESSITÀ. Da allora ha eseguito una lunga serie di condanne. In quei momenti, ha raccontato, cercava di liberare la sua mente, di non pensare, per evitare ogni rammarico o paura. Poi venne il caso di Earl Washington, un ritardato mentale accusato dello stupro e assassinio di una madre di 19 anni. Pochi giorni prima dell'esecuzione nel 1985, i suoi avvocati ottennero la sospensione della condanna. Nel 1993 fu scagionato totalmente, grazie al test del dna. Fu il primo caso del genere in Virginia. Negli Stati Uniti ce ne sono stati 302.
Givens allora iniziò a riflettere. «Se metto a morte una persona innocente», pensava il boia, «non sono meglio di coloro che sono nel braccio della morte»
L'ESPERIENZA DEL CARCERE. Nonostante i dubbi, Givens ha continuato a lavorare fino al 1999, quando è finito nei guai con la giustizia e a sua volta in prigione per quattro anni. Da allora, convinto di essere stato ispirato da Dio, ha iniziato a battersi contro la pena di morte. Ma ancora oggi si chiede se tra le 37 persone che ha messo a morte con la sedia elettrica e le 25 con un'iniezione letale ci siano stati degli innocenti. «L'unica cosa che posso fare, se è accaduto, è pregare Dio che mi perdoni. Ma di certo so che non lo farò mai più»

mercoledì 20 febbraio 2013

ITALIA - Lega, scontro fratricida a Novara e crisi tra i vertici


Il partito nel ciclone Finmeccanica. La frattura tra Cota e Giordano in Piemonte. E Bobo teme per la Lombardia.
Mercoledì, 20 Febbraio 2013 - A cinque giorni dalle elezioni nazionali e regionali del 24 e 25 febbraio, trema la Lega Nord in uno dei suoi feudi, il Piemonte.
Fibrillano gli animi e si incupisce l'umore - già compromesso dalle implicazioni nello scandalo delle tangenti Finmeccanica  - mettendo a dura a prova alleanze consolidate.
La vicenda è quella dell’assessore regionale alle Attività Produttive Massimo Giordano, ex sindaco di Novara, accusato di corruzione, concussione e abuso d’ufficio. Secondo i magistrati, che il 19 febbraio hanno perquisito casa e ufficio dell'ex sindaco, Giordano era a capo
di un «sistema di corruzione» che, in più occasioni, avrebbe avvantaggiato professionisti e imprenditori amici in cambio di favori.
Un duro colpo per l'amministrazione di Roberto Cota, già in crisi per il crac della sanità.
A RISCHIO LA MACROREGIONE. Cota prova a mantenere salda la giunta, rigettando le dimissioni di Giordano. Ma è soprattutto il partito che ha bisogno di restare solido. Il problema non è tanto la difesa di Giordano ma la dimensione nazionale e la tenuta del progetto di macroregione del Nord su cui punta Roberto Maroni per conquistare la Lombardia.
In ballo ci sono i consensi su un territorio, Novara e provincia, che come ricordato dal quotidiano piemontese La Stampa con i suoi voti ha sempre regalato il premio di maggioranza al Senato al centrodestra - nel 2008 per poco più di 13 mila voti - e nel 2010 ha concesso a Cota stesso la vittoria alle regionali.
I CONTATTI TRA LE DUE INCHIESTE. «Si tenta di condizionare il voto con falsità e insinuazioni su me e la Lega: questo non è giornalismo ma terrorismo», ha commentato Maroni martedì 19 febbraio, dopo ore di silenzio, riferendosi sia agli articoli di giornale che parlano del coinvolgimento di leghisti nell’inchiesta Finmeccanica, sia al caso di Novara.
Esistono d'altronde punti di contatto come Beppe Cortese, l’ex capo della segreteria del governatore Cota, coinvolto in entrambe le vicende.

Lo scontro fratricida al vertice della Lega in Piemonte

Secondo gli osservatori politici, la vicenda di Novara chiude il decennio d'oro della Lega in Piemonte, dove il Carroccio è cresciuto fino a diventtare la terza forza politica, dopo Pd e Pdl, con il 15- 20% dei consensi.
Il nuovo filone di indagine parte proprio da Novara, dove Giordano è stato sindaco. La vicenda affonda in una serie di esposti contro il bar del teatro Coccia, di proprietà del Comune, per disturbi notturni. Era il 2006 e Giordano, stando alle carte, aveva protetto il locale diventato punto di riferimento del mondo politico leghista novarese facendo pressioni sulla polizia municipale.
IL FEUDO DI GIORDANO. Da quel bar, secondo la Procura di Novara, Giordano faceva il bello e il cattivo tempo. Una volta arrivato all’assessorato regionale, tuttavia, le sue competenze cambiarono.
L'idillio dell'ex sindaco con il governatore Cota, secondo il quotidiano piemontese, finì intorno al 2011. Dopo aver conquistato la Regione nel 2010, l'alleanza non resse quando si trattò di riconquistare anche Novara.
Giordano voleva confermare la sua posizione di potere candidando proprio il fedelissimo Beppe Cortese, ma Cota si oppose.
LA ROTTURA CON COTA. Il Carroccio presentò Mauro Franzinelli, ma le divisioni interne favorirono il centrosinistra: la città finì al renziano Andrea Ballarè.
Una storia che oggi nessuno ha voglia di rivangare, glissando sugli scontri fratricidi e sulle responsabilità del gruppo dirigente.
Ma anche l’ultimo affaire attribuito dalla procura a Giordano, quello della cordata di imprenditori «invitati» a sostenere l’avventura editoriale del quotidiano Il Nord Ovest, alimenta le polemiche. E sembra provare che le alleanze, nel feudo piemontese, traballino: pare che il quotidiano ami criticare ferocemente la riforma sanitaria varata proprio dalla giunta di Cota.
Oltre ai guai giudiziari, insomma, la Lega deve ora arginare il terremo