A parte quei quattro
grulli che a Siena hanno atteso l’ex presidente MPS e ABI, Giuseppe Mussari con
le loro offese e relativo lancio di monetine, il tintinnare di manette che
accompagna la campagna elettorale è fortunatamente ben diverso rispetto alla
Tangentopoli dei primi anni novanta.
Non c’è, questa
volta, il clima da stadio che accompagnava la notizia del nuovo arresto di un
potente: una vera e propria “ola” con il pubblico esultante che si alzava in
piedi per sedersi, poi, in attesa del prossimo giro. La gente sembra più
riflessiva e meno incline a dare credito incondizionato ai magistrati e alle
manette facili. A spiegare questo diverso atteggiamento degli italiani
concorrono molti fattori.
Innanzitutto il
bilancio di quella stagione che scardinò gli equilibri politici che avevano
dominato il Paese per quasi mezzo secolo. Dopo venti anni siamo caduti molto
più in basso. Abbiamo avuto un sistema ed una classe politica al confronto dei
quali la stagione precedente era oro purissimo.
Abbiamo poi potuto
toccare con mano quanto mirate e parziali fossero state le inchieste dei vari
pool che si adoprarono, senza freni per la liquefazione della politica, nella
caccia e messa all’indice di ladri veri e presunti. I discorsi, si dice dalle
nostre parti, stanno in poco posto. O, se preferite, le chiacchiere stanno a
zero. Venti anni fa le inchieste lasciarono intatte alcune forze politiche. Era
talmente evidente l’intento selettivo di quelle inchieste, che i presunti ladri
che ci consegnano le inchieste in corso appartengono in massima parte a quei
partiti che allora la fecero franca: PDS e Sinistra DC (confluiti nel PD), la
Lega, gli eredi del MSI. In compagnia, tutti costoro, del “nuovo” originato
dalle inchieste: i berlusconiani (prima di Forza Italia, poi del PDL) e i
seguaci del “leggendario” eroe di Mani Pulite, aduso a sfidare parimenti
sintassi e decenza e approdato in politica per mettere all’incasso la
popolarità discutibilmente conquistata.
Fortunatamente oggi
tutti questi elementi condizionano il giudizio su ciò che sta avvenendo. E
aiutano a porre attenzione a particolari che venti anni fa vennero sopraffatti
dal formidabile schieramento di forze e di interessi che contribuì al Big Bang della
prima repubblica.
Intanto: il
comportamento non omogeneo dei magistrati e dei giornali. Ci sono inchieste che
corrono e altre nelle quali chi mena la danza impone un singolare “andamento
lento”. Ci sono inchieste caratterizzate da encomiabile e doveroso riserbo nel
rispetto delle garanzie ed altre delle quali tutto viene messo in piazza e si
può leggere sui giornali non sempre legittimamente.
Proprio i giornali ed
i loro editori meritano di essere tenuti sotto osservazione. Le inchieste
coinvolgono le più grandi aziende italiane, dunque quelle che attirano i
maggiori appetiti anche dall’estero. In questa occasione si percepisce tutta
l’assurdità di non avere mai affrontato seriamente il colossale problema del
conflitto di interessi in Italia. Non lo ha fatto Berlusconi, non Bersani e
meno che mai Monti con il suo governo che di conflitti se ne trascinava in
quantità industriale. Una legge decente per regolamentarlo dovrebbe occuparsi
non solo di Berlusconi ma di tutta la cupola della nostra Finanza e delle
maggiori imprese, con le loro partecipazioni incestuose e proprietà di organi
di informazione. Per questo una legge così, mille volte promessa, non è mai
stata seriamente nemmeno discussa.
Ma non sarebbe male,
oggi, allargare l’orizzonte fuori dai nostri confini. Grandissime aziende
controllate dalla mano pubblica sono accusate di corruzione internazionale,
cioè di avere versato, all’estero, tangenti per ottenere appalti. A parte
l’esile confine che separa il concetto di tangente da quello di provvigione per
mediazioni, è giusto perseguire i reati ove esistenti. E lasciare lavorare i
magistrati senza interferenze. Ma su un aspetto è da pretendere chiarezza,
senza minare l’autonomia delle toghe: la cosidetta notizia di reato. Come
nascono le inchieste che mettono fuori gioco, per i grandi appalti
internazionali, le nostre più grandi imprese? Possiamo escludere l’azione dei
servizi di qualche paese amico? La storiella di qualche lettera anonima o di
qualche pentito di turno, francamente non è più spendibile.
Infine, da tutte
queste inchieste emerge nuovamente una delle più grandi anomalie del nostro
sistema giustizia: l’abuso aberrante della custodia cautelare. Senza gli
arresti il più delle volte ingiustificati, il clamore non sarebbe così
devastante (per l’interesse pubblico). Pericolo di fuga, reiterazione del
reato, inquinamento delle prove, dovrebbero essere reali, non individuabili per
teoremi. E, invece, la custodia cautelare è quasi l’unica pena certa che il
sistema riesca a comminare. Peccato che sia illegittima (in quanto pena).
Nicola
Cariglia
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