Il Cairo - Piazza Tahrir, luogo simbolo di quella che è stata chiamata - a torto o a ragione - Primavera araba, si ribella a quella che è stata la più evidente conseguenza della propria protesta, ossia la caduta di Mubarak e la successiva elezione alla presidenza dell'islamista Mohamed Morsi. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il decreto presidenziale che amplia i poteri del capo dello Stato."Diciamo a Morsi - spiega una manifestante - di stare attento alla rabbia della gente, che sta montando e non si fermerà . Questo tentativo dittatoriale ci ha fatto infuriare". "Noi - aggiunge un uomo - siamo terrorizzati dall'idea che anche l'Egitto possa tramutarsi in uno Stato confessionale. Quando mi guardo in giro vedo esempi come il Sudan o l'Iran, e stiamo per imboccare un tunnel oscuro. Io sono convinto che gli egiziani si batteranno per far cambiare idea al presidente Morsi".Le manifestazioni sono poi degenerate in scontri con la polizia, che hanno lasciato sul terreno un morto e diversi feriti. E oggi è difficile non ripensare al detto, nato con la Rivoluzione francese e Robespierre, che "la rivoluzione divora sempre i suoi figli", sperando che si faccia ancora in tempo a evitare il ricorso massiccio, per restare nella metafora francese, alla ghigliottina.
uno spazio politico e organizzativo comune che ha come obiettivo la costruzione sul territorio di un’area politico riformista plurale aperta al contributo di tutte le espressioni laiche e liberali
Pensare Globale e Agire Locale
PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE
mercoledì 28 novembre 2012
EGITTO – Caos, piazza Tahrir cuore della nuova protesta anti Morsi
Decine di migliaia in piazza
per dire no ai poteri ampliati
Il Cairo - Piazza Tahrir, luogo simbolo di quella che è stata chiamata - a torto o a ragione - Primavera araba, si ribella a quella che è stata la più evidente conseguenza della propria protesta, ossia la caduta di Mubarak e la successiva elezione alla presidenza dell'islamista Mohamed Morsi. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il decreto presidenziale che amplia i poteri del capo dello Stato."Diciamo a Morsi - spiega una manifestante - di stare attento alla rabbia della gente, che sta montando e non si fermerà . Questo tentativo dittatoriale ci ha fatto infuriare". "Noi - aggiunge un uomo - siamo terrorizzati dall'idea che anche l'Egitto possa tramutarsi in uno Stato confessionale. Quando mi guardo in giro vedo esempi come il Sudan o l'Iran, e stiamo per imboccare un tunnel oscuro. Io sono convinto che gli egiziani si batteranno per far cambiare idea al presidente Morsi".Le manifestazioni sono poi degenerate in scontri con la polizia, che hanno lasciato sul terreno un morto e diversi feriti. E oggi è difficile non ripensare al detto, nato con la Rivoluzione francese e Robespierre, che "la rivoluzione divora sempre i suoi figli", sperando che si faccia ancora in tempo a evitare il ricorso massiccio, per restare nella metafora francese, alla ghigliottina.
Il Cairo - Piazza Tahrir, luogo simbolo di quella che è stata chiamata - a torto o a ragione - Primavera araba, si ribella a quella che è stata la più evidente conseguenza della propria protesta, ossia la caduta di Mubarak e la successiva elezione alla presidenza dell'islamista Mohamed Morsi. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il decreto presidenziale che amplia i poteri del capo dello Stato."Diciamo a Morsi - spiega una manifestante - di stare attento alla rabbia della gente, che sta montando e non si fermerà . Questo tentativo dittatoriale ci ha fatto infuriare". "Noi - aggiunge un uomo - siamo terrorizzati dall'idea che anche l'Egitto possa tramutarsi in uno Stato confessionale. Quando mi guardo in giro vedo esempi come il Sudan o l'Iran, e stiamo per imboccare un tunnel oscuro. Io sono convinto che gli egiziani si batteranno per far cambiare idea al presidente Morsi".Le manifestazioni sono poi degenerate in scontri con la polizia, che hanno lasciato sul terreno un morto e diversi feriti. E oggi è difficile non ripensare al detto, nato con la Rivoluzione francese e Robespierre, che "la rivoluzione divora sempre i suoi figli", sperando che si faccia ancora in tempo a evitare il ricorso massiccio, per restare nella metafora francese, alla ghigliottina.
ITALIA - Ilva nel caos, Monti pensa a un decreto
Taranto, indagati sindaco e
sacerdote.
Indagati sindaco e un
sacerdote
Martedì, 27
Novembre 2012 - L'inchiesta
della procura di Taranto per disastro ambientale a carico dell'Ilva di Taranto
si è allargata a macchia d'olio e gli scenari sembrano essere ben lontani da una
conclusione.
Altre cinque persone sono state iscritte nel registra degli indagati il 27 novembre, mentre i militari della guardia di finanza hanno eseguito accertamenti a Bari e Roma sulla vecchia Autorizzazione integrata ambientale, rilasciata il 4 agosto 2011 e riesaminata dopo oltre un anno.
TENSIONE IN FABBRICA. Nel frattempo, la tensione tra i lavoratori è salita alle stelle e gli uffici della direzione sono stati occupati da alcune centinaia di operai dopo la proclamazione dello sciopero iniziato di primo mattino.
INCONTRO MONTI-NAPOLITANO. Forte è stata la risposta del governo, che ha allestito un incontro al Quirinale tra il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il premier, Mario Monti. Secondo quanto si è appreso, in vista del prossimo Consiglio dei ministri dovrebbe essere approntato un decreto legge. Un provvedimento inteso a recepire per intero la nuova Aia e a innalzare i livelli delle emissioni inquinanti, consentendo all'Ilva di continuare a produrre e al governo di venire a capo di una situazione che rischia di sfuggire di mano.
CANCELLIERI PREOCCUPATA. «C'è un clima molto delicato e abbiamo motivo di ampia preoccupazione», ha confessato il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri, «c'è un rischio notevole di problemi per l'ordine pubblico, perché i posti di lavoro messi in discussione sono tantissimi, non sono solo quelli di Taranto».
Il ministro dell'Ambiente Corrado Clini, invece, ha alzato i toni nei confronti della magistratura tarantina. «È evidente che l'obiettivo è bloccare l'attuazione dell'Aia e arrivare alla chiusura dello stabilimento. Stanno creando le condizioni per cui l'Aia non sia applicabile, ma questo non è legale».
«Siamo di fronte a una situazione paradossale», ha concluso Clini, «c'è un rischio di convergenza di interessi per cui, fra l'iniziativa, della magistratura e l'interesse dell'azienda a non investire, avremmo il risultato pratico di un'area inquinata pericolosa e la perdita di lavoro per migliaia di persone. Questa convergenza negativa va spezzata».
BADGE RIABILITATI. L'azienda, intanto, ha annunciato di non voler ricorrere alla cassa integrazione annunciata nei confronti di 1.942 operai dell'area a freddo, che potranno usufruire delle ferie o comunque rimanere a carico dell'azienda. Sono stati, inoltre, riabilitati, i badge dell'area a freddo, disattivati contestualmente all'annuncio che gli impianti sarebbero stati chiusi.
L'Ilva ha, poi, avviato al tribunale del riesame il ricorso contro l'ultimo intervento della magistratura: fino al suo pronunciamento gli impianti di Taranto rimarranno chiusi. «Spero in un pronunciamento rapido, entro pochi giorni», ha spiegato il presidente dell'Ilva, Bruno Ferrante.
Altre cinque persone sono state iscritte nel registra degli indagati il 27 novembre, mentre i militari della guardia di finanza hanno eseguito accertamenti a Bari e Roma sulla vecchia Autorizzazione integrata ambientale, rilasciata il 4 agosto 2011 e riesaminata dopo oltre un anno.
TENSIONE IN FABBRICA. Nel frattempo, la tensione tra i lavoratori è salita alle stelle e gli uffici della direzione sono stati occupati da alcune centinaia di operai dopo la proclamazione dello sciopero iniziato di primo mattino.
INCONTRO MONTI-NAPOLITANO. Forte è stata la risposta del governo, che ha allestito un incontro al Quirinale tra il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il premier, Mario Monti. Secondo quanto si è appreso, in vista del prossimo Consiglio dei ministri dovrebbe essere approntato un decreto legge. Un provvedimento inteso a recepire per intero la nuova Aia e a innalzare i livelli delle emissioni inquinanti, consentendo all'Ilva di continuare a produrre e al governo di venire a capo di una situazione che rischia di sfuggire di mano.
CANCELLIERI PREOCCUPATA. «C'è un clima molto delicato e abbiamo motivo di ampia preoccupazione», ha confessato il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri, «c'è un rischio notevole di problemi per l'ordine pubblico, perché i posti di lavoro messi in discussione sono tantissimi, non sono solo quelli di Taranto».
Il ministro dell'Ambiente Corrado Clini, invece, ha alzato i toni nei confronti della magistratura tarantina. «È evidente che l'obiettivo è bloccare l'attuazione dell'Aia e arrivare alla chiusura dello stabilimento. Stanno creando le condizioni per cui l'Aia non sia applicabile, ma questo non è legale».
«Siamo di fronte a una situazione paradossale», ha concluso Clini, «c'è un rischio di convergenza di interessi per cui, fra l'iniziativa, della magistratura e l'interesse dell'azienda a non investire, avremmo il risultato pratico di un'area inquinata pericolosa e la perdita di lavoro per migliaia di persone. Questa convergenza negativa va spezzata».
BADGE RIABILITATI. L'azienda, intanto, ha annunciato di non voler ricorrere alla cassa integrazione annunciata nei confronti di 1.942 operai dell'area a freddo, che potranno usufruire delle ferie o comunque rimanere a carico dell'azienda. Sono stati, inoltre, riabilitati, i badge dell'area a freddo, disattivati contestualmente all'annuncio che gli impianti sarebbero stati chiusi.
L'Ilva ha, poi, avviato al tribunale del riesame il ricorso contro l'ultimo intervento della magistratura: fino al suo pronunciamento gli impianti di Taranto rimarranno chiusi. «Spero in un pronunciamento rapido, entro pochi giorni», ha spiegato il presidente dell'Ilva, Bruno Ferrante.
Indagati sindaco e un
sacerdote
Nel
frattempo, le indagini sono andate avanti. I cinque indagati sono andati ad
aggiungersi ai vertici e ai dirigenti dell'Ilva, nonché agli ex amministratori
e imprenditori locali già oggetto delle due ordinanze cautelari eseguite il 26
novembre dalle Fiamme gialle. Tra loro anche il sindaco, Ippazio Stefano, un
sacerdote e un poliziotto.
Atto dovuto, hanno tenuto a precisare fonti giudiziarie, dopo la denuncia presentata in procura dal consigliere comunale Filippo Condemi.
IPOTIZZATA OMISSIONE D'UFFICIO. Nei confronti del primo cittadino sarebbero state ipotizzate omissioni in atti d'ufficio. «Lungi dall' intervenire nelle vicende che riguardavano le emissioni tossiche del siderurgico con la fermezza e incisività che le esigenze di tutela della salute pubblica imponevano - ha scritto il gip Todisco nella sua ordinanza - «il sindaco di Taranto appariva incline ad assumere posizioni ed iniziative piuttosto accondiscendenti e solidali nei riguardi dell'Ilva».
Il sacerdote è don Marco Gerardo, segretario dell'ex arcivescovo di Taranto, monsignor Benigno Luigi Papa: è accusato di false dichiarazioni al pm perché avrebbe riferito agli inquirenti, quando è stato ascoltato, che la Curia tarantina era solita ricevere elargizioni dall'Ilva. Il riferimento giudiziario è alla presunta mazzetta da 10 mila euro che l'ex dirigente Ilva Girolamo Archinà avrebbe consegnato in un autogrill della A14 all'ex consulente del tribunale ed ex preside del politecnico di Taranto Lorenzo Liberti per ammorbidire la perizia sulle fonti di inquinamento.
Atto dovuto, hanno tenuto a precisare fonti giudiziarie, dopo la denuncia presentata in procura dal consigliere comunale Filippo Condemi.
IPOTIZZATA OMISSIONE D'UFFICIO. Nei confronti del primo cittadino sarebbero state ipotizzate omissioni in atti d'ufficio. «Lungi dall' intervenire nelle vicende che riguardavano le emissioni tossiche del siderurgico con la fermezza e incisività che le esigenze di tutela della salute pubblica imponevano - ha scritto il gip Todisco nella sua ordinanza - «il sindaco di Taranto appariva incline ad assumere posizioni ed iniziative piuttosto accondiscendenti e solidali nei riguardi dell'Ilva».
Il sacerdote è don Marco Gerardo, segretario dell'ex arcivescovo di Taranto, monsignor Benigno Luigi Papa: è accusato di false dichiarazioni al pm perché avrebbe riferito agli inquirenti, quando è stato ascoltato, che la Curia tarantina era solita ricevere elargizioni dall'Ilva. Il riferimento giudiziario è alla presunta mazzetta da 10 mila euro che l'ex dirigente Ilva Girolamo Archinà avrebbe consegnato in un autogrill della A14 all'ex consulente del tribunale ed ex preside del politecnico di Taranto Lorenzo Liberti per ammorbidire la perizia sulle fonti di inquinamento.
NAZIONI UNITE - Mazen va al compromesso
Il leader dell'Anp Abu Mazen chiede
lo status di osservatore all'Onu. Il Paese schiacciato dalla pace armata di Gaza.
Fuori dalla Corte
dell'Aja e niente moratorie sui coloni: le clausole per il sì
Francia, Spagna e
Gran Bretagna con Abu Mazen. E Hamas
di Barbara
Ciolli
Mercoledì,
28 Novembre 2012 - Due
popoli e due Stati. Ma, almeno uno dei due, con confini molto ridimensionati e
senza poteri reali.
L'ultima chance di Mahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen, è il riconoscimento della Palestina come osservatore permanente dell’ONU. Una richiesta ridimensionata, rispetto a quella di Stato membro, che approda il 29 novembre 2012 all'Assemblea nazionale del Palazzo di Vetro, a New York.
La data non è casuale. Alla vigilia dell'attacco israeliano contro la Striscia di Gaza, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) aveva annunciato la sua decisione di porre al voto la questione nello stesso mese e giorno in cui 65 anni prima, con 33 sì e 13 no, le Nazioni unite approvarono la divisione della Palestina in due Stati, riconoscendo il diritto di esistere sia agli arabi sia - soprattutto - agli israeliani.
IL TRAMONTO DELL'ANP. Ma la guerra di Gaza, fermata dalla labile tregua tra il governo di Benjamin Netanyahu e Hamas, ha poi disegnato Abbas come l'ultimo dei vincitori, o il primo degli sconfitti: il leader politico che, complice il legame privilegiato tra Fratelli musulmani e Hamas, è rimasto escluso dalla grande reunion panaraba avviata al Cairo.
E dire che, tra i motivi che avevano spinto all'offensiva Israele, alla vigilia delle elezioni anticipate del 22 gennaio 2013, c'era anche la necessità di ridimensionare le ambizioni palestinesi all'Onu.
L'ASSEMBLEA È CON ABBAS. Con il sì di due terzi dell'Assemblea (130 voti su 193 Stati assicurati, tra i quali almeno 12 Paesi dell'Unione europea, incluso il sì deciso di Francia e Spagna e -adesso - anche l'inedita disponibilità della Gran Bretagna) praticamente in tasca, l'Anp era infatti pronta a bussare al Tribunale penale internazionale dell'Aja (Tpi), per citare Israele per crimini di guerra e internazionali.
Ma, avvitata la spirale di tensioni, dopo l’omicidio mirato del capo militare di Hamas Ahmed al Jaabari, la Palestina è diventata un'osservata speciale. E i toni di Abbas si sono invitabilmente smussati.
L'ultima chance di Mahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen, è il riconoscimento della Palestina come osservatore permanente dell’ONU. Una richiesta ridimensionata, rispetto a quella di Stato membro, che approda il 29 novembre 2012 all'Assemblea nazionale del Palazzo di Vetro, a New York.
La data non è casuale. Alla vigilia dell'attacco israeliano contro la Striscia di Gaza, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) aveva annunciato la sua decisione di porre al voto la questione nello stesso mese e giorno in cui 65 anni prima, con 33 sì e 13 no, le Nazioni unite approvarono la divisione della Palestina in due Stati, riconoscendo il diritto di esistere sia agli arabi sia - soprattutto - agli israeliani.
IL TRAMONTO DELL'ANP. Ma la guerra di Gaza, fermata dalla labile tregua tra il governo di Benjamin Netanyahu e Hamas, ha poi disegnato Abbas come l'ultimo dei vincitori, o il primo degli sconfitti: il leader politico che, complice il legame privilegiato tra Fratelli musulmani e Hamas, è rimasto escluso dalla grande reunion panaraba avviata al Cairo.
E dire che, tra i motivi che avevano spinto all'offensiva Israele, alla vigilia delle elezioni anticipate del 22 gennaio 2013, c'era anche la necessità di ridimensionare le ambizioni palestinesi all'Onu.
L'ASSEMBLEA È CON ABBAS. Con il sì di due terzi dell'Assemblea (130 voti su 193 Stati assicurati, tra i quali almeno 12 Paesi dell'Unione europea, incluso il sì deciso di Francia e Spagna e -adesso - anche l'inedita disponibilità della Gran Bretagna) praticamente in tasca, l'Anp era infatti pronta a bussare al Tribunale penale internazionale dell'Aja (Tpi), per citare Israele per crimini di guerra e internazionali.
Ma, avvitata la spirale di tensioni, dopo l’omicidio mirato del capo militare di Hamas Ahmed al Jaabari, la Palestina è diventata un'osservata speciale. E i toni di Abbas si sono invitabilmente smussati.
Fuori dalla Corte
dell'Aja e niente moratorie sui coloni: le clausole per il sì
Nel
testo presentato alle Nazioni unite, stando alle indiscrezioni dei media
israeliani, l'Anp non ha inserito accenni alla volontà di diventare membro
della Corte dell'Aja: la Palestina, una volta approvato il suo ingresso come
Stato non membro, ne avrebbe pieno diritto. Ma Abu Mazen non ha voluto urtare
le richieste di Tel Aviv.
Sempre per non urtare la suscettibilità di Israele e dell'alleato statunitense, Abbas si sarebbe infine deciso a porsi all'Assemblea come il rappresentante di uno Stato che si impegna a riprendere i negoziati diretti con Israele, senza porre precondizioni o pretendere moratorie sulla costruzione degli insediamenti israeliani nella West Bank, la Cisgiordania. Cioè chiudendo un occhio sulle colonie che la destra sionista al governo ha mandato illegalmente avanti, nonostante i moniti della comunità internazionale.
L'USCITA DI SCENA DI BARAK. In ogni caso è difficile capire, con chi, a Tel Aviv potranno mai riaprirsi e consolidarsi queste trattative, visto che, tra gli uomini del nuovo esecutivo guidato dal Likud di Netanyahu, superfavorito nei sondaggi per le elezioni anticipate di gennaio, di certo non ci sarà più l'attuale ministro della Difesa Ehud Barak.
Annunciata la sua uscita definitiva dalla scena politica, l'ex premier laburista e generale plurimedagliato era rimasto l'unico a tendere la mano ad Abbas, anche questo novembre, sostenendo la «coraggiosa presa di posizione» del leader dell'Anp, nel «riconoscere il diritto all'esistenza anche di Israele».
FUORI DA AGENZIE E TRATTATI. Secondo il Wall Street Journal, inoltre, alla fine nel testo depositato all'Onu non è stata inserita alcuna proposta di adesione ad agenzie delle Nazioni unite e di sottoscrizione di trattati internazionali.
Il livello di pressioni è stato talmente alto che, dalle voci di palazzo, un diplomatico europeo avrebbe addirittura preteso da Abbas la precisazione che la richiesta della Palestina non è finalizzata all'«adesione a fondi e programmi».
Sempre per non urtare la suscettibilità di Israele e dell'alleato statunitense, Abbas si sarebbe infine deciso a porsi all'Assemblea come il rappresentante di uno Stato che si impegna a riprendere i negoziati diretti con Israele, senza porre precondizioni o pretendere moratorie sulla costruzione degli insediamenti israeliani nella West Bank, la Cisgiordania. Cioè chiudendo un occhio sulle colonie che la destra sionista al governo ha mandato illegalmente avanti, nonostante i moniti della comunità internazionale.
L'USCITA DI SCENA DI BARAK. In ogni caso è difficile capire, con chi, a Tel Aviv potranno mai riaprirsi e consolidarsi queste trattative, visto che, tra gli uomini del nuovo esecutivo guidato dal Likud di Netanyahu, superfavorito nei sondaggi per le elezioni anticipate di gennaio, di certo non ci sarà più l'attuale ministro della Difesa Ehud Barak.
Annunciata la sua uscita definitiva dalla scena politica, l'ex premier laburista e generale plurimedagliato era rimasto l'unico a tendere la mano ad Abbas, anche questo novembre, sostenendo la «coraggiosa presa di posizione» del leader dell'Anp, nel «riconoscere il diritto all'esistenza anche di Israele».
FUORI DA AGENZIE E TRATTATI. Secondo il Wall Street Journal, inoltre, alla fine nel testo depositato all'Onu non è stata inserita alcuna proposta di adesione ad agenzie delle Nazioni unite e di sottoscrizione di trattati internazionali.
Il livello di pressioni è stato talmente alto che, dalle voci di palazzo, un diplomatico europeo avrebbe addirittura preteso da Abbas la precisazione che la richiesta della Palestina non è finalizzata all'«adesione a fondi e programmi».
Francia, Spagna e
Gran Bretagna con Abu Mazen. E Hamas
In un clima
di pace armata, l'Autorità nazionale palestinese - dal 1974 già presente,
attraverso l'Olp di Yasser Arafat, all'Onu come osservatore non permanente, ma
come “entità” e non come “Stato” - ha deciso di muoversi con i piedi di piombo.
Passo dopo passo. Compromesso dopo compromesso.
Tra le opzioni ventilate in cambio dell'endorsement di potenze occidentali ancora caute (tra gli indecisi ci sono Germania e Italia) c'è, per esempio, la richiesta della Gran Bretafgna di far entrare la Palestina all'Onu, solo con il diritto di ricorrere all'Aja per eventuali violazioni future. Non per le operazioni militari passate, come gli omicidi mirati, né, tanto meno, per le violazioni territoriali degli insediamenti costruiti.
BRACCIO DI FERRO SULL'AJA. Finora i 121 Stati dell'Onu che fanno parte della Corte dell'Aja, organismo internazionale non direttamente legato a Palazzo di Vetro, lo hanno fatto aderendo allo statuto di Roma del 1998 (Usa e Israele hanno firmato, ma non ratificato il trattato). Una volta legittimata dalle Nazioni unite, la Palestina potrebbe, volendo, fare altrettanto.
Tanto più che non esistono mezzi coercitivi per obbligare uno Stato non membro come Israele a estradare i suoi cittadini verso un eventuale Stato membro come la Palestina, neanche su pressione dei giudici internazionali.
Nonostante queste garanzie, gli Stati Uniti di Barack Obama sono rimasti fermi sulle loro posizioni del veto, nell'ottobre 2011, in Consiglio di sicurezza per il riconoscimento come Stato membro, bocciando la richiesta di Abbas di due Stati sui confini del 1967 (il 22% della Palestina storica, quella pre-Israele), come una scorciatoia per scavalcare i negoziati diretti.
«PIENO APPOGGIO» DI HAMAS. Dalla parte di Abbas, in compenso, c'è la maggioranza dei Paesi in via di sviluppo e, in Europa, ci sono Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Irlanda, Paesi scandinavi e, sotto determinate condizioni, la Gran Bretagna.
Compatto con l'Anp è anche il governo di Gaza di Hamas, che ha assicurato «pieno appoggio» alla causa. «Chiederò una legittimazione internazionale, per giungere a uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale. Siamo fiduciosi delle nostre azioni, otterremo i nostri diritti», ha dichiarato Abu Mazen alla folla di Ramallah. Debole, più che moderato. E con, sulle spalle, la scure della guerra.
Tra le opzioni ventilate in cambio dell'endorsement di potenze occidentali ancora caute (tra gli indecisi ci sono Germania e Italia) c'è, per esempio, la richiesta della Gran Bretafgna di far entrare la Palestina all'Onu, solo con il diritto di ricorrere all'Aja per eventuali violazioni future. Non per le operazioni militari passate, come gli omicidi mirati, né, tanto meno, per le violazioni territoriali degli insediamenti costruiti.
BRACCIO DI FERRO SULL'AJA. Finora i 121 Stati dell'Onu che fanno parte della Corte dell'Aja, organismo internazionale non direttamente legato a Palazzo di Vetro, lo hanno fatto aderendo allo statuto di Roma del 1998 (Usa e Israele hanno firmato, ma non ratificato il trattato). Una volta legittimata dalle Nazioni unite, la Palestina potrebbe, volendo, fare altrettanto.
Tanto più che non esistono mezzi coercitivi per obbligare uno Stato non membro come Israele a estradare i suoi cittadini verso un eventuale Stato membro come la Palestina, neanche su pressione dei giudici internazionali.
Nonostante queste garanzie, gli Stati Uniti di Barack Obama sono rimasti fermi sulle loro posizioni del veto, nell'ottobre 2011, in Consiglio di sicurezza per il riconoscimento come Stato membro, bocciando la richiesta di Abbas di due Stati sui confini del 1967 (il 22% della Palestina storica, quella pre-Israele), come una scorciatoia per scavalcare i negoziati diretti.
«PIENO APPOGGIO» DI HAMAS. Dalla parte di Abbas, in compenso, c'è la maggioranza dei Paesi in via di sviluppo e, in Europa, ci sono Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Irlanda, Paesi scandinavi e, sotto determinate condizioni, la Gran Bretagna.
Compatto con l'Anp è anche il governo di Gaza di Hamas, che ha assicurato «pieno appoggio» alla causa. «Chiederò una legittimazione internazionale, per giungere a uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale. Siamo fiduciosi delle nostre azioni, otterremo i nostri diritti», ha dichiarato Abu Mazen alla folla di Ramallah. Debole, più che moderato. E con, sulle spalle, la scure della guerra.
sabato 24 novembre 2012
Medio Oriente - A Gaza nessuno aspetta l’Europa
Ancora disorientata dalla primavera
araba, l'Ue non ha più alcun ruolo nel conflitto israelo-palestinese. La sua
influenza in una regione così vicina ai suoi confini è ai minimi storici.
Rossa Massaguè 21 novembre 2012 EL PERIODICO DE CATALUNYA Barcellona
L’escalation bellica
tra Israele e la Striscia di Gaza certifica la comparsa di nuovi protagonisti
nel processo di mediazione per fermare le violenze. Ora l’iniziativa è nelle
mani di un Egitto che non ha niente a che vedere con quello di Mubarak, di una
Turchia che continua ad affermarsi come potenza regionale e di un Qatar salito
da poco alla ribalta internazionale ma con sufficienti mezzi e interessi
(politici, strategici e religiosi) per reclamare un ruolo di primo piano.
Questo quadro è senz’altro figlio dei cambiamenti portati dalla primavera
araba.
E l’Europa? Non c’è e
nessuno l’aspetta. In passato il suo compito nel conflitto israelo-palestinese
è stato quello di saldare i debiti dei palestinesi, molto spesso nei confronti
degli israeliani. Un ruolo perfettamente recitato e che in fondo risparmiava
all’Ue preoccupazioni di altro genere. Ora però la situazione è cambiata. In un
certo senso Bruxelles è ancora disposta a pagare, ma il problema è che l’Europa
ha grossi problemi a mettersi d’accordo persino per rilasciare un comunicato
congiunto. Lunedì 19 novembre, mentre i ministri degli esteri stavano lavorando
al documento,
Regno Unito e Francia sostenevano la necessità di chiedere a Israele di non
lanciare un attacco di terra. Alla fine però il capo della diplomazia europea
Catherine Ashton ha imposto il suo punto di vista, spalleggiata dalla Germania.
In primo luogo il
documento condannava il lancio di razzi contro Israele, in secondo luogo
difendeva il diritto dello stato ebraico a proteggere la sua popolazione e solo
in terzo luogo invitava Tel-Aviv ad “agire proporzionalmente e assicurare la
protezione dei civili”. Il fatto che Gaza, la zona più densamente popolata
mondo, subisca un blocco imposto da Israele non è stato nemmeno menzionato.
I fatti dicono che
l’operazione lanciata da Israele, con l'obiettivo (ufficiale) di fermare il
lancio di razzi con attacchi aerei e dalle navi da guerra, ha provocato la
morte di almeno 147 palestinesi (molti dei quali donne e bambini), il ferimento
di altre 900 persone e la distruzione di molti edifici civili. Confrontando i
danni e le vittime dell’operazione israeliana con gli effetti del lancio di
razzi palestinesi (5 morti) è evidente che non c’è alcuna traccia della
proporzionalità chiesta dall’Europa.
La primavera araba ha
profondamente confuso l’Ue. Dopo aver sottolineato più volte la necessità di un
miglioramento democratico nella zona – sostenendo nel frattempo le autocrazie,
considerate il male minore rispetto all’islamismo – l’Europa non ha saputo come
rapportarsi al movimento democratizzante. La stessa cosa sta accadendo in
questi giorni. Oltre a firmare dichiarazioni che la realtà si incarica di
ridurre immediatamente a parole senza senso, l’Ue sta rinunciando di fatto ad
avere un ruolo nella soluzione di un conflitto che si svolge a pochi chilometri
di distanza. Come se l’Europa non avesse e non dovesse avere alcun interesse
nella zona. (Traduzione di Andrea
Sparacino)
Crisi dell'euro - L’Europa torna indietro di una generazione
Nei paesi più colpiti dalla crisi ci
vorranno molti anni per compensare il crollo del tenore di vita. L’allargamento
e l’integrazione sono fermi e l’aumento delle diseguaglianze sta cancellando i
risultati già ottenuti.
Jedrzej
Bielecki 23 novembre
2012 DZIENNIK GAZETA PRAWNA Varsavia
Angela Merkel ci
aveva messo in guardia già nel 2009: non aspettiamoci miracoli, perché nessuna
decisione politica, per quanto coraggiosa, potrà scongiurare il crollo
dell’economia europea. A quel tempo la cancelliera era l’unica a presagire il
futuro in questi termini. Oggi ci si accorge invece che aveva visto giusto,
commenta Nicolas Veron,
esperto dell’istituto Bruegel di Bruxelles. A cinque anni dall’inizio della
crisi, la situazione economica dell’Unione resta drammatica: sono in recessione
17 paesi membri su 27.
Nei paesi colpiti più
duramente dalla crisi, come Spagna o Portogallo, dovrà passare almeno una
generazione prima che si riesca a compensare il calo del livello di vita. Un
simile lasso di tempo potrà rivelarsi insostenibile per l’Ue. Per la prima
volta dalla sua creazione l’Unione europea, contrariamente alla zona euro,
rischia di disgregarsi. Di mese in mese questo scenario si fa sempre più
evidente, senza che si possa dire quale processo – quello della costruzione di
un’Eurolandia forte intorno alla Germania, o quello della disintegrazione del
blocco dei paesi euroscettici, Regno Unito in testa – prenderà il sopravvento
sull’altro.
Una cosa è certa :
questi sviluppi non sono quelli che Angela Merkel auspicava e che anzi ha
tentato in ogni modo di impedire. In particolare, la cancelliera voleva che la
nuova Unione più integrata facesse posto a tutti gli effetti alla Polonia e ad
altri stati dell’Europa centrale, paesi che costituiscono per la Repubblica
federale non soltanto una base industriale (le aziende tedesche vi hanno
delocalizzato buona parte della loro produzione), ma fungono anche da alleati
nel Consiglio dell’Ue quando insieme a Berlino sostengono riforme strutturali e
responsabilità di bilancio.
Il progetto di questa
Europa, tuttavia, è fallito. Sotto la pressione dei mercati, i dirigenti della
zona euro hanno gettato le basi di un sistema istituzionale della zona euro con
una supervisione bancaria, un controllo della politica monetaria e un budget
indipendente. Queste misure dovevano costituire il minimo vitale per garantire
il buon funzionamento della zona euro, senza arrecare danno ai fondamenti
dell’Unione europea. Oggi possiamo constatare che si tratta di un’ipotesi
irrealistica, ammette Cinzia Alcidi
del Ceps (Center for european policy studies).
La situazione
particolarmente rischiosa riguarda la pietra angolare dell’integrazione, il
mercato unico. Nei paesi nei quali lo stato dell’economia ispira la fiducia
degli investitori, per esempio Germania e Paesi Bassi, le spese dei crediti
contratti dagli imprenditori sono notevolmente inferiori a quelle dei paesi
della periferia dell’Ue. Non si può più parlare pertanto di una concorrenza
alla pari, a favore della quale Bruxelles ha operato negli ultimi
cinquant’anni.
Altra constatazione
fallimentare è quella relativa al flop del modello europeo mirante a un certo
equilibrio nei livelli di vita all’interno dell’Unione. Grazie ai fondi
strutturali, ma anche garantendo libero accesso al mercato dell’Ue per tutte le
entità economiche, si è effettivamente riusciti a limitare gli squilibri negli
standard di vita dei vari paesi europei. La Grecia, per esempio, fino al 2009
poteva vantare un reddito pro capite corrispondente al 94 per cento della media
dell’Union, non troppo distante da quello della Germania (115 per cento). Ma
oggi i divari tra questi due paesi si sono enormemente accresciuti: il livello
di vita in Grecia è sceso al 75 per cento, raggiungendo uno standard
equiparabile a quello della Polonia, mentre quello della Germania è decollato
al 125 per cento.
Secondo le stime
degli economisti, queste disuguaglianze si acuiranno ancor più negli anni a
venire. Quest’evoluzione implica che gli interessi degli stati membri saranno
sempre più divergenti. Mentre romeni, bulgari, greci e portoghesi cercheranno
di garantire la sopravvivenza delle loro popolazioni, la Germania e la Svezia
preferiranno mettere l’accento sulle questioni ambientali e le fonti
alternative di energia. Secondo Veron sarà come dialogare tra sordi.
La crisi ha eliminato
anche un altro grande risultato dell’integrazione: il modello sociale europeo,
che il mondo intero ci invidiava. I tagli di bilancio che si sono susseguiti
non soltanto in Spagna e in Grecia, ma anche in Francia e nel Regno Unito,
generano una drastica riduzione delle garanzie sociali, in materia di diritto
del lavoro, di pensioni, di disoccupazione, e creano di conseguenza una
generazione di giovani privi di prospettive di un impiego stabile, senza i
presupposti materiali per poter mettere su famiglia.
Berlino
resta sola
Perfino il quotidiano
filoeuropeo Der Spiegel ammette apertamente che il centro decisionale dell’Ue
si è spostato da Bruxelles a Berlino. Ciò è avvenuto senza alcuna particolare
pressione da parte dei tedeschi, ma per esclusione. Tra i sei paesi più importanti
dell’Ue, due – Italia e Spagna – non sono neppure stati presi in considerazione
a causa dei loro enormi problemi economici. Il Regno Unito, invece, si è
autoescluso da solo.
Quanto alla Polonia,
in ragione del suo potenziale economico ancora troppo debole e del fatto che
non fa parte della zona euro, non può pretendere di rivestire un ruolo chiave.
Per un certo periodo è sembrato che l’Europa fosse dominata dal tandem
franco-tedesco, il famoso “Merkozy”. Ma dall’elezione del nuovo presidente
francese François Hollande è diventato chiaro che Parigi, a fronte di grossi
problemi economici, non è in grado di trattare da pari a pari con la Germania.
Berlino, dunque, è rimasta sola sul campo di battaglia.
Focalizzata sui
propri problemi, l’Europa non riesce a occuparsi di quelli altrui. Di
conseguenza la disintegrazione della politica estera comunitaria è un’altra
cupa profezia che si avvera sotto i nostri occhi. L’evoluzione autoritaria
dell’Ucraina, la situazione drammatica della Siria, l’abbandono della lotta per
i diritti dell’uomo in Cina sono soltanto alcuni esempi dell’impotenza dell’Ue.
Nel frattempo la
questione dei futuri allargamenti dell’Ue è stata accantonata: l’adesione
all’Unione ormai sarebbe concepibile soltanto per i paesi dei Balcani che si trovano
all’interno dei confini dell’Europa. L’offerta più ambiziosa, in particolare
nei riguardi dei paesi dell’ex Unione Sovietica e della Turchia, non è più
all’ordine del giorno.
A cinque anni dallo
scoppio della crisi l’Europa sopravvive, almeno per ora. Ma le perdite sono
astronomiche e l’Unione europea è regredita sulla strada dell’integrazione per
imbattersi in quegli stessi problemi che credeva di aver risolto 30 o 40 anni
fa. Ormai perfino gli ottimisti dicono: “Purché le cose non peggiorino”. (Traduzione
di Anna Bissanti)
Bilancio Ue - Il suicidio della Commissione
Nel dibattito sul budget dell'Unione
l'esecutivo europeo è stato del tutto assente, cedendo l'iniziativa agli stati
e al Consiglio. La mediocrità del presidente José Manuel Barroso ha toccato il
punto più basso.
Jean
Quatremer 23 novembre 2012 LIBERATION Parigi
Dal punto di vista
politico la Commissione europea è in crisi. Chi ancora aveva dei dubbi ne ha
avuto la dimostrazione in questi giorni: mentre dovrebbe difendere davanti ai
27 capi di stato e di governo la sua proposta di legge di programmazione per il
bilancio 2014-2020 ("quadro finanziario pluriennale"), il più
importante atto della legislatura e quello che orienterà l'Unione nei prossimi
sette anni, la Commissione è semplicemente assente dai dibattiti.
Nessuno – né gli
stati, né i media né i cittadini – si interessa più a quello che ha da dire.
Non si tratta di un omicidio, ma di un suicidio orchestrato dal suo presidente,
José Manuel Durão Barroso. Una vera e propria tragedia per un'istituzione che è
stata uno dei motori della costruzione europea in un passato non troppo
lontano.
Dal punto di vista
storico la battaglia sul bilancio aveva sempre mobilitato l'intera Commissione.
Questa istituzione è il motore dalla manovra, poiché ha il ruolo propositivo e
i mezzi per orientare l'Unione europea stessa, se riesce a convincere gli stati
e l'opinione pubblica della validità della sua azione. Una situazione non
facile ovviamente per un'istituzione la cui legittimità è fragile e che di
conseguenza deve adottare un comportamento molto politico. Perché la politica
non è solo agire, ma convincere del fondamento della propria azione.
Jacques Delors,
presidente della Commissione fra il 1985 e il 1995, era molto bravo in questo. Inventore
nel 1987 delle "prospettive finanziarie" o legge di programmazione
finanziaria che era destinata a mettere fine agli annuali drammi finanziari,
non ha mai trascurato nessun settore dell'azione politica. Un lavoro molto
faticoso, ma che ha dato i suoi frutti.
Nel 1992 ho seguito i
negoziati del "pacchetto Delors II" (1993-1999) e mi ricordo del
lungo lavoro preventivo di spiegazione e persuasione della Commissione presso i
media, intermediari fondamentali con l'opinione pubblica europea. Lo stesso
Delors, ma anche il suo capo-gabinetto Pascal Lamy, i commissari, i direttori
generali della Commissione, tutti si impegnavano a fondo in questa attività in
occasione di incontri informali, ufficiali e in conferenze stampa per spiegare
il significato della manovra. Una macchina per convincere di incredibile
efficacia, che ha continuato a funzionare anche sotto Jacques Santer e Romano
Prodi.
Con Barroso invece
tutto si è bloccato. Il presidente della Commissione non è mai stato un buon
comunicatore ed è a disagio con la stampa. Ma chi pensava che il quadro
finanziario 2014-2020, che sarà il suo testamento politico, avrebbe risvegliato
Barroso dal suo letargo, si è sbagliato. Al contrario, la situazione è
peggiorata ancora di più.
Il 29 giugno 2011 c'è
stata una conferenza stampa tardiva e frettolosa per presentare il corposo documento
della Commissione, senza nessuna azione preventiva per preparare il
terreno. Ma come fare delle domande quando si scopre il progetto nel momento
stesso in cui è presentato? Tutti hanno dovuto arrangiarsi per capire di che
cosa si trattava. Un compito estremamente scoraggiante vista la complessità
della materia. Solo un portavoce si è fatto carico di decifrare per i media le
grandi linee del quadro finanziario.
E poi? Nulla,
assolutamente nulla. Un anno senza comunicazione all'esterno. Un presidente
assente, che cerca soprattutto di contrastare l'influenza del presidente del
Consiglio europeo Herman Van Rompuy presso gli stati e il Parlamento europeo,
dei commissari bloccati che osano a malapena parlare con i media, dei direttori
generali chiusi nei loro uffici invece di spiegare l'importanza dei negoziati.
Il risultato è stato
quello di lasciare campo libero agli stati, che possono dire tutto il male che
pensano delle proposte della Commissione (e che non si fanno certo pregare), e
a Van Rompuy, incaricato al posto della Commissione di trovare un compromesso a
partire dalle cifre dell'esecutivo europeo. Una volta presi in mano i
negoziati, Van Rompuy si è impegnato a comunicare, ma di fronte a sé non ha
trovato più nessuno.
Perché la Commissione
è semplicemente scomparsa dal dibattito politico. Non è certo lamentandosi o
rimanendo nei corridoi di Bruxelles che si può influenzare l'opinione pubblica.
Chi può citare l'ultima intervista di Barroso? Non è difficile rispondere:
nessuno, perché non parla più con i media. E non è certo il discorso
pronunciato il 21 novembre davanti al Parlamento europeo che permetterà di
salvare il salvabile quando quasi nessuno va a Strasburgo a causa
dell'Eurogruppo e del Vertice europeo da preparare.
Nel suo meschino
gioco istituzionale, Barroso ha dimenticato di convincere i cittadini europei
che fa politica e non lobbying. Da questo punto di vista Barroso è doppiamente
perdente: nei confronti degli stati che disprezzano ogni giorno di più la sua
istituzione, e di fronte all'opinione pubblica che lo ignora ogni giorno di
più. Complimenti! (Traduzione di Andrea
De Ritis)
SPAGNA – Elezioni Catalane : l’indipendenza è l’unico argomento
La questione dell'autonomia e della
possibile secessione dalla Spagna ha dominato la campagna per le regionali,
cancellando il dibattito su argomenti più scomodi per i partiti.
Dopo il voto bisognerà
parlare
Lluis Foix 23 novembre 2012 LA
VANGUARDIA Barcellona
Uno dei vantaggi di
questa campagna elettorale è che fortunatamente esiste un unico argomento che
preoccupa, interessa o inquieta i catalani. L’argomento è uno e uno solo. Se ne
parla nei bar, a casa, in ufficio, per strada. Trovare una trasmissione radio
che non se ne occupi fa un certo effetto: "Sono ancora nel mio paese?"
L’argomento è
onnipresente. Abbraccia tutto, avvolge tutto. Invade e domina i dibattiti
televisivi. Si muove in ogni ambito e direzione. Sono stato contattato da
giornalisti americani, britannici, tedeschi, italiani e svedesi che mi hanno
chiesto di parlargli dell’argomento.
È come se
l’argomento, che domenica invaderà le urne, fosse nell’agenda della Casa
Bianca, del Cremlino e del Palazzo del popolo di Pechino. Parigi, Londra e
Berlino sono in attesa delle evoluzione dell'argomento. Mi vengono in mente le
parole di James Joyce a un compatriota irlandese: se non possiamo cambiare il
paese, possiamo almeno cambiare argomento? No, l’argomento resta quello.
L’argomento dice che
domenica potremo votare per diversi partiti che annunciano una consulta sul
diritto a decidere: un eufemismo per parlare di indipendenza. Alcuni la
considerano molto vicina, altri la promettono per la legislatura in corso,
mentre un terzo gruppo la contempla alla lontana. Non tutto il fronte
sovranista condivide le stesse tattiche, strategie e calendari, ma domenica
notte si uniranno. Un solo argomento, un solo obiettivo.
Anche il fronte
contrario è diviso. I popolari battono tamburi politici e mediatici e cantano
inni apocalittici. Ciutadans [centrosinistra antinazionalista] parla meno
dell’argomento e affronta temi più scomodi per il potere. I socialisti vogliono
occupare le strade del centro, ma nelle loro fila ci sono state talmente tante
defezioni che sarà difficile evitare il crollo.
L’argomento non
coinvolge gli immigrati. L’argomento non va in scena nei mercati, come invece
accadeva in passato. Nelle pescherie e nei negozi ortofrutticoli si vedono
pochi politici. Hanno paura che qualcuno li rimproveri e gli faccia notare che
oltre all’argomento ci sono altri problemi. La disoccupazione, soprattutto. Dai
discorsi pubblici sono spariti i diritti, l’assistenza ai più deboli,
l’istruzione, la sanità, la sicurezza, la corruzione. Penseremo a tutto questo
quando l’argomento non sarà più un sogno. Vivremo in una terra dove
sgorgheranno il latte e il miele. L’argomento ci renderà felici. (Traduzione
di Andrea Sparacino)
Da
Madrid
Dopo il voto bisognerà
parlare
Cosa accadrà “dopo il
botto”, si domanda Fernando
Vallespín su El País. Il politologo traccia un bilancio piuttosto
negativo della campagna elettorale che volge al termine:
Raramente abbiamo
assistito a una simile discussione sul “chi siamo noi” […] Ma paradossalmente
non siamo avanzati di un millimetro nella comprensione reciproca. Lungi dal
costruire ponti, le reazioni viscerali della maggior parte dei mezzi
d’informazione di Madrid e il crescendo messianico di Artur Mas hanno favorito
la polarizzazione. Il relativo silenzio – sicuramente motivato dalla
perplessità – delle voci non sovraniste ha ritardato il momento in cui l’altra
voce della Catalogna, la voce media, il tertius genus, ha potuto essere
ascoltata”.
Secondo Vallespín a
questo punto è necessario avviare un dialogo:
Abbiamo perso una
grandissima occasione per una comprensione più profonda delle ragioni di questa
esplosione in una società che finora era stata un esempio di moderazione e
dialogo. […] Se aspiriamo a instaurare un ordine di qualsiasi tipo dopo il
botto e il furore, non c’è altra soluzione che costruire ponti, riavvicinarsi,
parlare. Quello che fanno le persone civili, insomma.
ITALIA - Il caos politico maschera il vuoto programmatico
Più ci si avvicina alle elezioni,
che quasi sicuramente si svolgeranno a marzo, è più il caos nella politica
italiana è totale.
Mancanza di idee, mancanza di
programmi seri, chiari e realizzabili, mancanza di personaggi politici di
spessore degni di conquistare la fiducia dei cittadini ma anche quella del
panorama internazionale dove ormai Mario Monti la fa da padrone.
I partiti di questa legislatura sono
ormai allo sbando totale.
Lega ed Idv sono praticamente scomparsi travolti
dai propri scandali. Più pesanti quelli che hanno coinvolto la Lega che a sua
sfavore ha anche almeni 10 anni di governo inutili nei quali non ha portato a
termine nessuna delle sue promesse; meno gravi quelli dell'Italia dei Valori
che fra l'altro ha dimostrato di non sapere reclutare i propri candidati.
Il Pd è ormai troppo impegnato
in una guerra civile interna che potrebbe non risolversi con le primarie di
domenica. Chiunque risulti vincitore non si vede come gli altri possano poi
collaborare con il candidato premier dato che le posizioni dei 5 contendenti
sono talmente distanti da farli apparire come appartenenti a schieramenti
politici molto distanti fra loro. Durante questi mesi ed anche in queste ultime
ore si è parlato molto poco di programmi e di strategie di governo, ma molto di
più di regole per la farsa delle primarie. Se si pensa poi che il vincitore che
uscirà da questa brutta imitazione delle primarie statunitensi, potrebbe non
diventare il prossimo presidente del consiglio anche se il Pd vincesse le
elezioni, la domanda sorge spontanea: a che servono queste primarie ? Si perchè
si fanno elezioni per eleggere un candidato alla presidenza del consiglio che a
sua volta non sarà eletto dai cittadini ma nominato dal Presidente della
Repubblica e quindi tutto risulta inutile.
Il Pdl è allo sfascio totale.
Mentre cerca di emulare il Pd nella fiera dell'inutile indicendo altre
primarie, il suo padrone Silvio Berlusconi, contrario a questo esercizio
pseudodemocratico, medita addirittura di staccarsi e dare vita ad una nuova
Forza Italia. Intanto il segretario fantoccio dichiara in una manifestazione di
onnipotenza e di amnesia totale, che non vuole indagati fra i candidati alle
primarie, dimenticando che senza indagati il Pdl stesso non esisterebbe.
L'Udc di Casini alla fine è
l'unico a mostrare la ferrea coerenza democristiana, inossidabile nel tempo,
che vede gli appartenenti a quest'area politica aggrapparsi al carro del
probabile vincitore, in questo caso il professor Monti. Ma anche qui siamo al
limite della farsa: Monti dichiara che non si candida come presidente del consiglio,
appoggiato in questa sua idea d Giorgio Napolitano, ma Casini fa orecchi da
mercante e piuttosto che presentare un proprio progetto tira e ritira per la
giacca il governo Monti per strappare la disponibilità a continuare anche nella
prossima legislatura. In conclusione i cinque partiti protagonisti della
legislatura si ripresenteranno ma dopo aver dato vita ad almeno altre quattro
formazioni: quella di Fini già presente, quella probabile di Berlusconi, un
altro pezzo del Pdl che prende il nome di Italia Libera e quella di un
pezzo dell'Idv staccatosi da Di Pietro che si chiamerà Diritto e Libertà.
Al di fuori del parlamento il cao non è certo minore.
In testa al gruppo dei nuovi partiti
che tenteranno di entrare in parlamento c'è il capoclack Beppe Grillo ed il suo
M5S. Il movimento sta attirando l'attenzione da una parte per il
"gridare" continuo del suo leader e dall'altra per una sorta di
"rivolta" continua fra i grillini che già partecipano al governo di
amministrazioni locali ma che stanno sperimentando sulla propria pelle la
dittatura di Grillo. Gli italiani che decideranno di dare il loro voto a Grillo
dovranno andare sulla fiducia, come hanno fatto per Berlusconi a suo tempo, in
quanto Grillo si rifiuta di discutere il programma del movimento, di
confrontarsi con chiunque, rimanendo chiuso nella sua torre d'avorio dalla
quale parla per slogan o per post del suo blog.
Ma senza un contradditorio è troppo
facile, alla fine si ha sempre ragione. Intorno a questa già abbastanza
complessa situazione spuntano quasi settimanalmente altri partitelli o liste
con programmi e obiettivi circoscritti e di nessuna incisività.
Ecco allora Lista per l'Italia
di Montezemolo che si affianca a Casini per tirare in ballo Monti, dimenticando
che Monti è già in parlamento in quanto senatore a vita e quindi potrà essere
chiamato a ricoprire di nuovo il ruolo di "salvatore della patria"
solo dopo le elezioni. Un altro movimento o partito ha come leader
l'astrofisica Margherita Hack, che quida una formazione dal nome di Democrazia
Atea, anche in questo caso risulta molto difficile capire la
diversità della proprosta di questa formazione rispetto al panorama politico
italiano.
A questo caso i continua evoluzione
si devono poi aggiungere le varie formazioni della sinistra radicale, incapaci
di svolgere una funzione catalizzatrice del malcontento che serpeggia ovunque,
anche per la continua litigiosità su questioni secondarie che ha portato ad una
frammentazione incontrollabile.
L'aspetto sconcertante di questa
confusione generalizzata e che nessuno riesce a parlare di programmi in maniera
precisa, chiara e soprattutto attuabile, forse perchè nessuno ha idea di come
potersi liberare dai lacci nei quali siamo stati imbrigliati dalla comunità
europea, uno su tutti il pareggio di bilancio. Questo è il vero problema.
Nessuno sa che pesci prendere e
tutti cercano di mascherare la propria inadeguatezza con spostando la
dialettica su problemi di secondo piano e incentrati spesso sulla litigiosità.
Pubblicato da antipolitico
venerdì 23 novembre 2012
ITALIA - Casta, 90 poltrone in più
Sì a un ddl per una Commissione che
tagli i parlamentari. Ma l'effetto potrebbe essere inverso.
Venerdì, 23
Novembre 2012 - Ridurre i numeri degli eletti. Abbattere i privilegi della
casta. Tutte parole al vento. Sì perchè con le politiche di marzo il numero di
poltrone, invece che scendere, come auspicato da molti, potrebbe addirittura
crescere: 1.035 anziché 945. Esattamente 90 poltrone in più.
Secondo il Corriere della sera, questo è quanto stabilisce un disegno di legge approvato, in fretta e furia, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato. Unica opposizione registrata è stata quella dell'Italia dei valori, attraverso Francesco «Pancho» Pardi.
La bozza prevede «l'elezione a suffragio universale di una Commissione Costituente che si occuperebbe della revisione della seconda parte della Carta costituzionale». La commissione sarebbe appunto composta da 90 persone, in carica per un solo anno.
SI PREVEDE IL TAGLIO, MA LA CASTA INGRASSA. Gli eletti non dovrebbero ricoprire altri incarichi elettivi, come quello di parlamentare o consigliere regionale. Il loro compito sarebbe unicamente volto a interventi come «il taglio dei parlamentari, l'abolizione del bicameralismo perfetto, i poteri del presidente della Repubblica».
Tutti argomenti su cui non si contano neanche più le proposte di legge a riguardo.
E così il Parlamento non riesce a tagliare il numero dei nostri rappresentanti, ma non ha problemi a garantire in tempi brevissimi una commissione istituita proprio con il compito di tagliare. Ma, per il momento, la casta non fa altro che ingrassare.
STIPENDI DA DEPUTATI, INCLUSE LE INDENNITÀ. Questo disegno di legge prende vita da molte proposte, anche datate. Le molteplici bozze sono state unificate dal leader dell'Api Francesco Rutelli e Pasquale Viespoli, Responsabile, che hanno chiesto il primo agosto 2012, anche, la procedura d'urgenza.
Il ddl ha però avuto uno stop, il 22 novembre, a causa della mancanza di numero legale, che fa slittare il voto alla settimana successiva. Questa commissione prevede, inoltre, un costo ripartito, in parti uguali, dalla Camera e dal Senato. Mentre lo stipendio dei nuovi eletti, secondo quanto proposto da Luciana Sbarbati e il suo collega Giampiero D'Alia dovrebbe essere «pari a quello dei membri della Camera dei deputati, ivi comprese le indennità accessorie». In totale sono, quindi, una ventina di milioni in un anno. Per assurgere un compito che è del Parlamento.
Secondo il Corriere della sera, questo è quanto stabilisce un disegno di legge approvato, in fretta e furia, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato. Unica opposizione registrata è stata quella dell'Italia dei valori, attraverso Francesco «Pancho» Pardi.
La bozza prevede «l'elezione a suffragio universale di una Commissione Costituente che si occuperebbe della revisione della seconda parte della Carta costituzionale». La commissione sarebbe appunto composta da 90 persone, in carica per un solo anno.
SI PREVEDE IL TAGLIO, MA LA CASTA INGRASSA. Gli eletti non dovrebbero ricoprire altri incarichi elettivi, come quello di parlamentare o consigliere regionale. Il loro compito sarebbe unicamente volto a interventi come «il taglio dei parlamentari, l'abolizione del bicameralismo perfetto, i poteri del presidente della Repubblica».
Tutti argomenti su cui non si contano neanche più le proposte di legge a riguardo.
E così il Parlamento non riesce a tagliare il numero dei nostri rappresentanti, ma non ha problemi a garantire in tempi brevissimi una commissione istituita proprio con il compito di tagliare. Ma, per il momento, la casta non fa altro che ingrassare.
STIPENDI DA DEPUTATI, INCLUSE LE INDENNITÀ. Questo disegno di legge prende vita da molte proposte, anche datate. Le molteplici bozze sono state unificate dal leader dell'Api Francesco Rutelli e Pasquale Viespoli, Responsabile, che hanno chiesto il primo agosto 2012, anche, la procedura d'urgenza.
Il ddl ha però avuto uno stop, il 22 novembre, a causa della mancanza di numero legale, che fa slittare il voto alla settimana successiva. Questa commissione prevede, inoltre, un costo ripartito, in parti uguali, dalla Camera e dal Senato. Mentre lo stipendio dei nuovi eletti, secondo quanto proposto da Luciana Sbarbati e il suo collega Giampiero D'Alia dovrebbe essere «pari a quello dei membri della Camera dei deputati, ivi comprese le indennità accessorie». In totale sono, quindi, una ventina di milioni in un anno. Per assurgere un compito che è del Parlamento.
ITALIA - La Scuola pubblica per il Prof è solo una zavorra
Perché
il governo prova a snaturare l’istruzione. Togliendole ossigeno e fondi. Anche
autonomia
Nadia Marchetti
Negli ultimi tempi siamo
passati rapidamente dal concetto di “eccellenze”, spesso usato per giustificare
sostanziosi esborsi di denaro pubblico verso privati, amici, colleghi e
simpatizzanti di partito, a quello di “eccedenze”, relativo al doveroso
risparmio di risorse e al conseguente licenziamento dei lavoratori incolpevoli.
Per settore dell'Istruzioneil cammino è stato più lungo e tortuoso, con virtuosi pretesti di miglioramento, ma il fine è sostanzialmente identico: la soppressione della scuola statale, sostituita da scuole private più docili ai voleri del governo di turno e teoricamente meno onerose.
IL FINANZIAMENTO ALLE SCUOLE PRIVATE. Dico teoricamente, perché il finanziamento alle scuole private attribuito dall’ultima manovra di stabilità è perfino superiore ai tagli effettuati nel settore pubblico.
Se gli istituti paritari ottengono 223 milioni di euro e nella scuola statale sono stati effettuati tagli per 157 milioni, da dove sono stati presi i restanti 66 milioni di euro?
Non stiamo parlando di cifre esigue, considerando il momento di ristrettezze in tutti (o quasi ) i settori.
LA COSTITUZIONE PARLA CHIARO. Mi risulta difficile considerare queste generose elargizioni un risparmio, nemmeno a lungo termine, considerando che le famiglie dovrebbero comunque pagare una retta. In ogni caso la Costituzione italiana, che nei vari governi berlusconiani è sempre stata considerata carta straccia, allo scopo di favorire iniziative e interessi personali, è molto chiara in proposito.
Lo spiega l'articolo 33 («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato») e lo ribadisce l'articolo 34 («La scuola è aperta a tutti»).
Per settore dell'Istruzioneil cammino è stato più lungo e tortuoso, con virtuosi pretesti di miglioramento, ma il fine è sostanzialmente identico: la soppressione della scuola statale, sostituita da scuole private più docili ai voleri del governo di turno e teoricamente meno onerose.
IL FINANZIAMENTO ALLE SCUOLE PRIVATE. Dico teoricamente, perché il finanziamento alle scuole private attribuito dall’ultima manovra di stabilità è perfino superiore ai tagli effettuati nel settore pubblico.
Se gli istituti paritari ottengono 223 milioni di euro e nella scuola statale sono stati effettuati tagli per 157 milioni, da dove sono stati presi i restanti 66 milioni di euro?
Non stiamo parlando di cifre esigue, considerando il momento di ristrettezze in tutti (o quasi ) i settori.
LA COSTITUZIONE PARLA CHIARO. Mi risulta difficile considerare queste generose elargizioni un risparmio, nemmeno a lungo termine, considerando che le famiglie dovrebbero comunque pagare una retta. In ogni caso la Costituzione italiana, che nei vari governi berlusconiani è sempre stata considerata carta straccia, allo scopo di favorire iniziative e interessi personali, è molto chiara in proposito.
Lo spiega l'articolo 33 («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato») e lo ribadisce l'articolo 34 («La scuola è aperta a tutti»).
Una campagna
denigratoria contro gli insegnanti
Il tentativo di
annullare la scuola statale è stato accompagnato da un’odiosa campagna
denigratoria contro gli insegnanti, colpevoli di non piegarsi supinamente ai
voleri del capetto di turno, come è già accaduto in altri momenti oscuri della
storia italiana.
Sembra che il concetto di una scuola laica, aperta a tutti, capace di formare dei cittadini e non semplicemente dei consumatori sia stata considerata un’eresia in Italia negli ultimi anni.
SCUOLA E PRODUTTIVITÀ A BRACCETTO. Eppure, se guardiamo le statistiche dei Paesi più avanzati a livello economico e sociale, possiamo constatare che in queste nazioni la scuola statale svolge un ruolo determinante. Sarà una coincidenza?
Intanto grazie al decreto Aprea, i privati avranno la possibilità di inserirsi nella scuola statale, ottenendo così la possibilità di influire sulle decisioni e sulla didattica, rendendo sempre più marginali gli organi collegiali, cioè i rappresentanti dei genitori, degli studenti e degli insegnanti all’interno del consiglio di istituto, che sarà chiamato “consiglio dell’autonomia” (anche il nuovo nome sembra essere una beffa).
LE DECISIONI A CHI ELARGISCE I FONDI. Si tratterà di un vero e proprio consiglio di amministrazione, in cui a decidere saranno ovviamente coloro che elargiscono i fondi.
Chi saranno questi privati? Mi sembra di intuire che potrebbero essere le banche. Strano però: le banche non hanno il denaro per sostenere le aziende in difficoltà, che devono licenziare operai e impiegati, mentre sarebbero disposte a finanziare le scuole, senza colpo ferire. Come dire che Babbo Natale esiste veramente.
Anche per questo motivo un vento di ribellione sta attraversando i corridoi e le aule di molti istituti superiori e delle università.
IL DOVERE DI DIFENDERE UN'ISTITUZIONE. Le proteste prendono forma, si elaborano documenti, si organizzano scioperi per difendere non solo il posto di lavoro, ma anche un’istituzione che non deve avere padroni, se non il dovere di formare i futuri cittadini e offrire loro la possibilità di inserirsi nella società e nel mondo lavorativo, senza preclusioni economiche, sociali e razziali
Sembra che il concetto di una scuola laica, aperta a tutti, capace di formare dei cittadini e non semplicemente dei consumatori sia stata considerata un’eresia in Italia negli ultimi anni.
SCUOLA E PRODUTTIVITÀ A BRACCETTO. Eppure, se guardiamo le statistiche dei Paesi più avanzati a livello economico e sociale, possiamo constatare che in queste nazioni la scuola statale svolge un ruolo determinante. Sarà una coincidenza?
Intanto grazie al decreto Aprea, i privati avranno la possibilità di inserirsi nella scuola statale, ottenendo così la possibilità di influire sulle decisioni e sulla didattica, rendendo sempre più marginali gli organi collegiali, cioè i rappresentanti dei genitori, degli studenti e degli insegnanti all’interno del consiglio di istituto, che sarà chiamato “consiglio dell’autonomia” (anche il nuovo nome sembra essere una beffa).
LE DECISIONI A CHI ELARGISCE I FONDI. Si tratterà di un vero e proprio consiglio di amministrazione, in cui a decidere saranno ovviamente coloro che elargiscono i fondi.
Chi saranno questi privati? Mi sembra di intuire che potrebbero essere le banche. Strano però: le banche non hanno il denaro per sostenere le aziende in difficoltà, che devono licenziare operai e impiegati, mentre sarebbero disposte a finanziare le scuole, senza colpo ferire. Come dire che Babbo Natale esiste veramente.
Anche per questo motivo un vento di ribellione sta attraversando i corridoi e le aule di molti istituti superiori e delle università.
IL DOVERE DI DIFENDERE UN'ISTITUZIONE. Le proteste prendono forma, si elaborano documenti, si organizzano scioperi per difendere non solo il posto di lavoro, ma anche un’istituzione che non deve avere padroni, se non il dovere di formare i futuri cittadini e offrire loro la possibilità di inserirsi nella società e nel mondo lavorativo, senza preclusioni economiche, sociali e razziali
giovedì 22 novembre 2012
IRLANDA - La cattolica Irlanda verso il sì all'aborto
Dopo la morte di una donna a cui era stato impedito di
abortire, l'opinione pubblica preme affinché sia riconosciuto il diritto di
interrompere la gravidanza.
Il
caso di Savita Halappanavar, la trentunenne indiana morta di setticemia in
Irlanda dopo che le è stato negato di abortire, ha inevitabilmente acceso il
dibattito sull'interruzione di gravidanza. La vicenda ha provocato un incidente
diplomatico tra Irlanda e India. L'ambasciatore indiano Debashish Chakravarti
ha affermato che la donna sarebbe ancora viva qualora fosse stata curata in un
ospedale indiano e che l'episodio ha provocato forti turbamenti nella comunità
indiana in Irlanda e Regno Unito. Lo stesso Times of India in un
editoriale scrive che il divieto di abortire ha portato via una vita e si
domanda come il bando all'interruzione di gravidanza possa conciliarsi con una
visione pro-life.
Nel frattempo il movimento pro-choice irlandese si sta mobilitando, e subito dopo la notizia della morte di Savita duemila persone si sono radunate davanti al parlamento per ottenere una legge più permissiva sull'interruzione di gravidanza; altre proteste sono state organizzate nel Regno Unito, in Belgio, a New York, a New Delhi ed a Bangalore. A Dublino 20mila persone hanno marciato sino al parlamento scandendo lo slogan «Mai più». I dimostranti pro-choice sono stati osteggiati da alcuni attivisti anti-aborto. Sul manifesto di uno di questi si poteva leggere: «Milioni di bambini innocenti non ancora nati devono essere sacrificati a satana per la morte di una donna?». Gli irlandesi pro-choice sono scesi in piazza anche a Galway, Cork, Ennis, Clonakilty, Carlow, Limerick, Letterkenny, Kilkenny e Sligo.
Il padre di Savita si è rivolto pubblicamente al capo del governo Enda Kenny: «Signore, la prego di cambiare la sua legge e di prendere in considerazione l'umanità. La prego di cambiare la legge sull'aborto che aiuterà a salvare la vita di tante donne in futuro». Il senatore irlandese David Norris ha chiesto al governo di pubblicare «immediatamente» il rapporto sulla riforma della legge sull'aborto: «Lo stiamo aspettando da venti anni - ha ricordato Norris -, da quando cioè in seguito al "caso X" si è stabilito che le donne potevano abortire se le loro vite erano in pericolo». Il "caso X" riguarda la decisione del 1992 dell'Alta Corte di Dublino che ha vietato ad una quattordicenne incinta dopo uno stupro di partire per il Regno Unito per abortire. In quel caso la Corte affermò che l'interruzione di gravidanza era consentita solo in caso di pericolo per la vita della madre. Anche allora migliaia di persone avevano manifestato chiedendo che la ragazza fosse libera di andare in Gran Bretagna.
In Irlanda nel frattempo è cambiato l'atteggiamento nei confronti dell'interruzione di gravidanza e la maggior parte dei cittadini sono a favore della legalizzazione. L'attivista pro-choice Goretti Horgan evidenzia sul Guardian che l'aborto ormai è parte integrante delle donne irlandesi e l'opinione pubblica è principalmente pro-choice: «Nessun referendum ha mai offerto agli irlandesi la possibilità di votare per una legislazione meno restrittiva sull'aborto. Eppure, nel 2004, un sondaggio da parte dell'agenzia governativa sulla gravidanza ha rilevato che il 90 per cento delle persone tra i 18 e i 45 anni di età era a favore dell'aborto in determinate circostanze, mentre il 51 per cento delle donne pensava che dovrebbero avere il diritto di abortire». L'attivista riferisce che ci sono state già altre donne morte per non aver potuto abortire, come Sheila Hodges e Michelle Harte, a causa di un cancro aggravato dalla gravidanza, ma nessuno di questi casi è emotivamente forte come quello di Savita.
Un referendum del 1992 ha garantito alle irlandesi di poter espatriare per abortire e Horgan scrive che «a seguito di ciò, il numero di donne che viaggiano in Inghilterra è passato da 4.402 nel 1993 a 6.673 nel 2001. I numeri si sono poi ridimensionati grazie ad una campagna del governo per promuovere la contraccezione». Ovviamente sono costrette ad andare all'estero per abortire anche le donne che sono state stuprate. L'attivista continua: «I termini del dibattito si sono trasformati. In programmi tv è possibile sentire donne che telefonano per raccontare come hanno raccolto il denaro per viaggiare per un aborto, e per chiedere il motivo per cui non è possibile ottenere di abortire qui. All'inizio di quest'anno, quattro donne sono apparse sulla tv irlandese più seguita chiedendo perché fossero state costrette ad andare in Inghilterra per terminare la gravidanza, malgrado fosse stato detto loro che il feto non poteva vivere dopo la nascita. Molte donne irlandesi della classe operaia non possono permettersi di pagare un aborto privato in Inghilterra: acquistano pillole su internet e si auto-procurano l'aborto».
È chiaro che il governo irlandese dovrà offrire alcune risposte sia all'opinione pubblica che alla comunità internazionale: alcuni ministri e membri del partito di maggioranza Fine gael si sono espressi a favore di una riforma in materia. L'attuale legge sull'aborto è stata criticata anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e da 53 europarlamentari di quindici diversi paesi europei, che hanno scritto una lettera al capo del governo irlandese Enda Kenny.
La questione pone al centro del dibattito anche la Chiesa cattolica irlandese che si oppone ad ogni cambiamento della legge: «I fatti ci dimostrano che in realtà abbiamo uno dei più bassi livelli di mortalità materna nel mondo, il che significa che le pratiche che abbiamo stanno producendo i risultati che dobbiamo rispettare», ha detto l'arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin.
Nonostante la Chiesa cattolica sia ancora molto influente il suo peso è sensibilmente diminuito anche a causa degli scandali di pedofilia in cui è stata coinvolta. Inoltre, pur essendo l'Irlanda un Paese fortemente cattolico, la contraccezione è ampiamente diffusa, dal 1996 è possibile divorziare e dall'anno scorso sono legali le unioni civili anche per le coppie dello stesso sesso.
Cagliostro
Nel frattempo il movimento pro-choice irlandese si sta mobilitando, e subito dopo la notizia della morte di Savita duemila persone si sono radunate davanti al parlamento per ottenere una legge più permissiva sull'interruzione di gravidanza; altre proteste sono state organizzate nel Regno Unito, in Belgio, a New York, a New Delhi ed a Bangalore. A Dublino 20mila persone hanno marciato sino al parlamento scandendo lo slogan «Mai più». I dimostranti pro-choice sono stati osteggiati da alcuni attivisti anti-aborto. Sul manifesto di uno di questi si poteva leggere: «Milioni di bambini innocenti non ancora nati devono essere sacrificati a satana per la morte di una donna?». Gli irlandesi pro-choice sono scesi in piazza anche a Galway, Cork, Ennis, Clonakilty, Carlow, Limerick, Letterkenny, Kilkenny e Sligo.
Il padre di Savita si è rivolto pubblicamente al capo del governo Enda Kenny: «Signore, la prego di cambiare la sua legge e di prendere in considerazione l'umanità. La prego di cambiare la legge sull'aborto che aiuterà a salvare la vita di tante donne in futuro». Il senatore irlandese David Norris ha chiesto al governo di pubblicare «immediatamente» il rapporto sulla riforma della legge sull'aborto: «Lo stiamo aspettando da venti anni - ha ricordato Norris -, da quando cioè in seguito al "caso X" si è stabilito che le donne potevano abortire se le loro vite erano in pericolo». Il "caso X" riguarda la decisione del 1992 dell'Alta Corte di Dublino che ha vietato ad una quattordicenne incinta dopo uno stupro di partire per il Regno Unito per abortire. In quel caso la Corte affermò che l'interruzione di gravidanza era consentita solo in caso di pericolo per la vita della madre. Anche allora migliaia di persone avevano manifestato chiedendo che la ragazza fosse libera di andare in Gran Bretagna.
In Irlanda nel frattempo è cambiato l'atteggiamento nei confronti dell'interruzione di gravidanza e la maggior parte dei cittadini sono a favore della legalizzazione. L'attivista pro-choice Goretti Horgan evidenzia sul Guardian che l'aborto ormai è parte integrante delle donne irlandesi e l'opinione pubblica è principalmente pro-choice: «Nessun referendum ha mai offerto agli irlandesi la possibilità di votare per una legislazione meno restrittiva sull'aborto. Eppure, nel 2004, un sondaggio da parte dell'agenzia governativa sulla gravidanza ha rilevato che il 90 per cento delle persone tra i 18 e i 45 anni di età era a favore dell'aborto in determinate circostanze, mentre il 51 per cento delle donne pensava che dovrebbero avere il diritto di abortire». L'attivista riferisce che ci sono state già altre donne morte per non aver potuto abortire, come Sheila Hodges e Michelle Harte, a causa di un cancro aggravato dalla gravidanza, ma nessuno di questi casi è emotivamente forte come quello di Savita.
Un referendum del 1992 ha garantito alle irlandesi di poter espatriare per abortire e Horgan scrive che «a seguito di ciò, il numero di donne che viaggiano in Inghilterra è passato da 4.402 nel 1993 a 6.673 nel 2001. I numeri si sono poi ridimensionati grazie ad una campagna del governo per promuovere la contraccezione». Ovviamente sono costrette ad andare all'estero per abortire anche le donne che sono state stuprate. L'attivista continua: «I termini del dibattito si sono trasformati. In programmi tv è possibile sentire donne che telefonano per raccontare come hanno raccolto il denaro per viaggiare per un aborto, e per chiedere il motivo per cui non è possibile ottenere di abortire qui. All'inizio di quest'anno, quattro donne sono apparse sulla tv irlandese più seguita chiedendo perché fossero state costrette ad andare in Inghilterra per terminare la gravidanza, malgrado fosse stato detto loro che il feto non poteva vivere dopo la nascita. Molte donne irlandesi della classe operaia non possono permettersi di pagare un aborto privato in Inghilterra: acquistano pillole su internet e si auto-procurano l'aborto».
È chiaro che il governo irlandese dovrà offrire alcune risposte sia all'opinione pubblica che alla comunità internazionale: alcuni ministri e membri del partito di maggioranza Fine gael si sono espressi a favore di una riforma in materia. L'attuale legge sull'aborto è stata criticata anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e da 53 europarlamentari di quindici diversi paesi europei, che hanno scritto una lettera al capo del governo irlandese Enda Kenny.
La questione pone al centro del dibattito anche la Chiesa cattolica irlandese che si oppone ad ogni cambiamento della legge: «I fatti ci dimostrano che in realtà abbiamo uno dei più bassi livelli di mortalità materna nel mondo, il che significa che le pratiche che abbiamo stanno producendo i risultati che dobbiamo rispettare», ha detto l'arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin.
Nonostante la Chiesa cattolica sia ancora molto influente il suo peso è sensibilmente diminuito anche a causa degli scandali di pedofilia in cui è stata coinvolta. Inoltre, pur essendo l'Irlanda un Paese fortemente cattolico, la contraccezione è ampiamente diffusa, dal 1996 è possibile divorziare e dall'anno scorso sono legali le unioni civili anche per le coppie dello stesso sesso.
Cagliostro
EU - Qatar, extrema ratio d'Europa
Meglio i
soldi di Doha che quelli dell'Arabia Saudita. Ecco perché l'Ue, Monti incluso,
scommette sull'emiro.
Tra banlieue e lusso: la
colonizzazione qatariota bilancia l'estremismo saudita
Da Barclays a
Sainsbury's fino al mercato di Camden: lo shopping londinese
di Barbara
Ciolli
Benedetto
sia il denaro cash
di Hamad bin Khalifa al Thani. Per l'emiro del Qatar, l'Europa è solo
un'appendice di mille interessi sparsi nel mondo. Lui ha liquidità in
abbondanza, un tesoro di 26 trilioni di metri cubi di gas custoditi nel suolo e
- dalla Libia, alla Siria all'attivismo per la crisi in Palestina - grandi mire
di espansione politica ed economica in Nord Africa e in Medio Oriente.
Arrivato alla canna del gas, il Vecchio Continente ha fame di investimenti, con cui garantire, nonostante l'inarrestabile declino economico, posti di lavoro e servizi ai cittadini. «Non vendiamo i beni pubblici agli arabi», ha messo le mani avanti il premier Mario Monti, in visita nei Paesi del Golfo, a patto siglato.
LA JOINT VENTUREITALIANA. Eppure tant'è. In joint venture con la Qatar Holding, braccio operativo del Fondo sovrano Qatar investiment authority (Qia), c'è il Fondo strategico italiano: la holding controllata dalla Cassa dei depositi e prestiti del ministero dell'Economia, che gestisce i risparmi postali degli italiani e ha partecipazioni strategiche in colossi energetici come Eni e Terna, controllati ancora dallo Stato.
Oggi il business è nel made in Italy di turismo, design, moda e lusso. Domani chissà, il varco è stato aperto e, all'occorrenza, la mano santa di al Thani potrà acquistare quote delle agonizzanti società di servizi e infrastrutture.
IL BALSAMO DELLA LIQUIDITÀ. Succede in Italia, ma anche in Francia e in Gran Bretagna, dove il Qatar possiede ormai mezza Londra. «Questo micro-Stato ha il Pil pro-capite più alto del pianeta e una liquidità immensa», ha commentato a Lettera43.it Brigitte Granville, direttore del Centro di ricerca sulla Globalizzazione del dipartimento di Economia internazionale alla Queen Mary University di Londra «prendiamone atto e accettiamo questo balsamo. In tempi di crisi, sarebbe molto peggio una colonizzazione dell'Arabia saudita».
Arrivato alla canna del gas, il Vecchio Continente ha fame di investimenti, con cui garantire, nonostante l'inarrestabile declino economico, posti di lavoro e servizi ai cittadini. «Non vendiamo i beni pubblici agli arabi», ha messo le mani avanti il premier Mario Monti, in visita nei Paesi del Golfo, a patto siglato.
LA JOINT VENTUREITALIANA. Eppure tant'è. In joint venture con la Qatar Holding, braccio operativo del Fondo sovrano Qatar investiment authority (Qia), c'è il Fondo strategico italiano: la holding controllata dalla Cassa dei depositi e prestiti del ministero dell'Economia, che gestisce i risparmi postali degli italiani e ha partecipazioni strategiche in colossi energetici come Eni e Terna, controllati ancora dallo Stato.
Oggi il business è nel made in Italy di turismo, design, moda e lusso. Domani chissà, il varco è stato aperto e, all'occorrenza, la mano santa di al Thani potrà acquistare quote delle agonizzanti società di servizi e infrastrutture.
IL BALSAMO DELLA LIQUIDITÀ. Succede in Italia, ma anche in Francia e in Gran Bretagna, dove il Qatar possiede ormai mezza Londra. «Questo micro-Stato ha il Pil pro-capite più alto del pianeta e una liquidità immensa», ha commentato a Lettera43.it Brigitte Granville, direttore del Centro di ricerca sulla Globalizzazione del dipartimento di Economia internazionale alla Queen Mary University di Londra «prendiamone atto e accettiamo questo balsamo. In tempi di crisi, sarebbe molto peggio una colonizzazione dell'Arabia saudita».
Tra banlieue e lusso: la
colonizzazione qatariota bilancia l'estremismo saudita
Ex protettorato
inglese, il Qatar è una monarchia assoluta che ha orgogliosamente rifiutato,
dopo l'indipendenza del 1971, di diventare parte dell'Arabia Saudita o dei
vicini Emirati arabi. Salito sul trono nel 1995, dopo aver spodestato, con un
golpe, il padre Khalifa bin Hamad, sua maestà al Thani non è esattamente un
modello di democrazia.
Ma, a differenza dei monarchi sauditi, non ha mai investito miliardi di petrodollari in Europa, per creare proseliti, costruendo moschee, di fondamentalismo salafita e wahabita.
SOFT POWER ANTI-SAUDITA. Grazie anche al fiuto imprenditoriale della seconda moglie Mozah, l'emiro ha invece progressivamente avviato un processo di apertura economica all'Occidente, con investimenti capillari e sofisticati, in campo sia commerciale sia culturale, che gli hanno permesso di diversificare gli affari su scala globale, in grado di poter mandare avanti l'economia nazionale, quando petrolio e gas saranno ormai esauriti. Questo piano finanziario e d'investimento include, obviously, anche una forma propagandistica di soft power politico, da esercitare sia con il network controllato al Jazeera, sia con progetti rivolti alle comunità islamiche in Europa.
IL QATAR RISCATTA LE BANLIEUE. In Francia, per esempio, oltre a mettere le mani sulla maison di Louis Vuitton e sulla squadra del Saint-Germain, facendo incetta di gioielli immobiliari sugli Champs-Élysées parigini, il Qatar ha concluso un accordo con il governo socialista di François Hollande (iniziato con il conservatore Sarkozy), per investire almeno 100 milioni di euro nel riscatto delle banlieue, in una società anche a partecipazione statale francese. «Si creeranno posti di lavoro in sacche di disagio urbano, dove la disoccupazione è al 40%», ha spiegato Granville, «controbilanciando l'influenza dei sauditi e sottraendo potenziali leve al terrorismo islamico».
Ma, a differenza dei monarchi sauditi, non ha mai investito miliardi di petrodollari in Europa, per creare proseliti, costruendo moschee, di fondamentalismo salafita e wahabita.
SOFT POWER ANTI-SAUDITA. Grazie anche al fiuto imprenditoriale della seconda moglie Mozah, l'emiro ha invece progressivamente avviato un processo di apertura economica all'Occidente, con investimenti capillari e sofisticati, in campo sia commerciale sia culturale, che gli hanno permesso di diversificare gli affari su scala globale, in grado di poter mandare avanti l'economia nazionale, quando petrolio e gas saranno ormai esauriti. Questo piano finanziario e d'investimento include, obviously, anche una forma propagandistica di soft power politico, da esercitare sia con il network controllato al Jazeera, sia con progetti rivolti alle comunità islamiche in Europa.
IL QATAR RISCATTA LE BANLIEUE. In Francia, per esempio, oltre a mettere le mani sulla maison di Louis Vuitton e sulla squadra del Saint-Germain, facendo incetta di gioielli immobiliari sugli Champs-Élysées parigini, il Qatar ha concluso un accordo con il governo socialista di François Hollande (iniziato con il conservatore Sarkozy), per investire almeno 100 milioni di euro nel riscatto delle banlieue, in una società anche a partecipazione statale francese. «Si creeranno posti di lavoro in sacche di disagio urbano, dove la disoccupazione è al 40%», ha spiegato Granville, «controbilanciando l'influenza dei sauditi e sottraendo potenziali leve al terrorismo islamico».
Da Barclays a
Sainsbury's fino al mercato di Camden: lo shopping londinese
Anche
gli inglesi, da ex colonialisti, hanno fatto buon gioco a cattiva sorte,
aprendo le porte all'emiro qatariota.
In pochi anni, al Thani ha rilevato il 20% del London Stock Exchange (la Borsa di Londra), acquistato i magazzini Harrods, la catena di supermercati Sainsbury's e gli sportelli della banca Barclays. E, poi, ancora, comprato il 20% delle azioni del mercato di Camden, costruito i lussuosi appartamenti di Hyde Park e, per le Olimpiadi del 2012, il villaggio di Stratford. Infine, finanziato il fiore all'occhiello della capitale: l'avveniristico Shard di Renzo Piano: la scheggia di vetro di 312 metri che, dal luglio 2012, è il grattacielo più alto d'Europa.
PRIMO FORNITORE DI GAS LNG. Non solo: al Thani e la moglie Mozah sono di casa a Buckingam Palace, dalla regina Elisabetta II, e tutti i cittadini britannici devono al Qatar le forniture di gas liquefatto naturale (Lng), da un paio di anni, le maggiori della Gran Bretagna.
Osservata dalla terrazza panoramica dello Shard, Londra appare come una metropoli costellata di proprietà qatariote.
Ma anche l'Italia è sulla buona strada: con l'acquisto, la scorsa estate, della casa di moda di Valentino, la sceicca Mozah ha piantato un'altra bandierina del suo shopping in Europa, fatto di grandi magazzini e collezioni d'arte a go go. Già proprietaria dello storico hotel Gallia di Milano e di quote nelle holding della Costa Smeralda, non è un mistero che la famiglia del Golfo punti a entrare anche nell'azionariato di Eni e Finmeccanica.
GLOBALIZZAZIONE AZIENDALE. Sul piatto della 'IQ Made in Italy Venture' ci sono, per ora, 300 milioni di euro di investimento versati a metà da Italia e Qatar, per un capitale complessivo che, in futuro, potrà arrivare fino a 2 miliardi di euro. «Anche la storica Mini inglese, dell'ex società statale Rover, dal 2001 viene prodotta dai tedeschi di Bmw, ma nessuno si scandalizza», ha concluso Granville, «quella del Qatar è una globalizzazione ancora più allargata. In tempi di crisi, l'essenziale non è chi dà lavoro. L'essenziale sono i posti di lavoro».
In pochi anni, al Thani ha rilevato il 20% del London Stock Exchange (la Borsa di Londra), acquistato i magazzini Harrods, la catena di supermercati Sainsbury's e gli sportelli della banca Barclays. E, poi, ancora, comprato il 20% delle azioni del mercato di Camden, costruito i lussuosi appartamenti di Hyde Park e, per le Olimpiadi del 2012, il villaggio di Stratford. Infine, finanziato il fiore all'occhiello della capitale: l'avveniristico Shard di Renzo Piano: la scheggia di vetro di 312 metri che, dal luglio 2012, è il grattacielo più alto d'Europa.
PRIMO FORNITORE DI GAS LNG. Non solo: al Thani e la moglie Mozah sono di casa a Buckingam Palace, dalla regina Elisabetta II, e tutti i cittadini britannici devono al Qatar le forniture di gas liquefatto naturale (Lng), da un paio di anni, le maggiori della Gran Bretagna.
Osservata dalla terrazza panoramica dello Shard, Londra appare come una metropoli costellata di proprietà qatariote.
Ma anche l'Italia è sulla buona strada: con l'acquisto, la scorsa estate, della casa di moda di Valentino, la sceicca Mozah ha piantato un'altra bandierina del suo shopping in Europa, fatto di grandi magazzini e collezioni d'arte a go go. Già proprietaria dello storico hotel Gallia di Milano e di quote nelle holding della Costa Smeralda, non è un mistero che la famiglia del Golfo punti a entrare anche nell'azionariato di Eni e Finmeccanica.
GLOBALIZZAZIONE AZIENDALE. Sul piatto della 'IQ Made in Italy Venture' ci sono, per ora, 300 milioni di euro di investimento versati a metà da Italia e Qatar, per un capitale complessivo che, in futuro, potrà arrivare fino a 2 miliardi di euro. «Anche la storica Mini inglese, dell'ex società statale Rover, dal 2001 viene prodotta dai tedeschi di Bmw, ma nessuno si scandalizza», ha concluso Granville, «quella del Qatar è una globalizzazione ancora più allargata. In tempi di crisi, l'essenziale non è chi dà lavoro. L'essenziale sono i posti di lavoro».
SPAGNA - Catalogna al voto
Il governatore Mas anticipa le
regionali al 25 novembre. In ballo, il possibile referendum sull’indipendenza
dalla Spagna.
La lotta di Artur Mas
«nazionalista dell’ultima ora»
di Paola
Giura
Giovedì, 22
Novembre 2012 - La crisi
soffia sulle ceneri del separatismo europeo. A due mesi dall’oceanica
manifestazione indipendentista dell’11 settembre, Barcellona e la Catalogna
vanno alla prova di forza.
Artur Mas, il centrista governatore della regione, ha forzato la mano: sull’onda dell’indignazione popolare ha spostato le elezioni del parlamentino catalano al 25 novembre, anticipando così di due anni la naturale scadenza del mandato.
IL NODO DEL REFERENDUM. La posta in gioco è molto più alta degli altri quattro anni di governo che un reincarico potrebbe portare: in ballo, c’è un possibile referendum sull’indipendenza catalana.
La manifestazione che ha scosso le strade di Barcellona, infatti, ha smosso un terreno già accidentato. Un milione e mezzo di persone, un quinto della popolazione catalana, ha risposto alle sirene di partiti e gruppi separatisti. Ma, soprattutto, a quelle del patto fiscale: la possibilità di riscuotere le proprie tasse e di ridistribuirle interamente sul proprio territorio.
DIRITTO NEGATO ALLA CATALOGNA. All’apice della crisi economica e finanziaria della Spagna, il governo centrale del Partido popular guidato da Mariano Rajoy ha negato il diritto alla Catalogna, e lo ha invece concesso alla comunità autonoma dei Paesi Baschi.
La Catalogna, che da maggio è in recessione e nel 2012 dovrebbe perdere complessivamente l’1,5% della propria ricchezza, già raccoglie parte delle tasse per finanziare i propri servizi pubblici, ma il resto raggiunge Madrid e viene ridistribuito in tutto il Paese. Per Artur Mas, dalla richiesta del patto fiscale a quella di un referendum sull’indipendenza il passo è stato breve.
La Costituzione spagnola, però, non prevede la possibilità di una secessione dallo Stato centrale, né tanto meno un referendum sull’ipotesi, che sarebbe quindi incostituzionale. Mas spera dunque di portare il suo partito, la Ciu (Convergència i Unió) alla maggioranza assoluta del parlamento locale, per poi creare una legge ad hoc per le consultazioni popolari.
Artur Mas, il centrista governatore della regione, ha forzato la mano: sull’onda dell’indignazione popolare ha spostato le elezioni del parlamentino catalano al 25 novembre, anticipando così di due anni la naturale scadenza del mandato.
IL NODO DEL REFERENDUM. La posta in gioco è molto più alta degli altri quattro anni di governo che un reincarico potrebbe portare: in ballo, c’è un possibile referendum sull’indipendenza catalana.
La manifestazione che ha scosso le strade di Barcellona, infatti, ha smosso un terreno già accidentato. Un milione e mezzo di persone, un quinto della popolazione catalana, ha risposto alle sirene di partiti e gruppi separatisti. Ma, soprattutto, a quelle del patto fiscale: la possibilità di riscuotere le proprie tasse e di ridistribuirle interamente sul proprio territorio.
DIRITTO NEGATO ALLA CATALOGNA. All’apice della crisi economica e finanziaria della Spagna, il governo centrale del Partido popular guidato da Mariano Rajoy ha negato il diritto alla Catalogna, e lo ha invece concesso alla comunità autonoma dei Paesi Baschi.
La Catalogna, che da maggio è in recessione e nel 2012 dovrebbe perdere complessivamente l’1,5% della propria ricchezza, già raccoglie parte delle tasse per finanziare i propri servizi pubblici, ma il resto raggiunge Madrid e viene ridistribuito in tutto il Paese. Per Artur Mas, dalla richiesta del patto fiscale a quella di un referendum sull’indipendenza il passo è stato breve.
La Costituzione spagnola, però, non prevede la possibilità di una secessione dallo Stato centrale, né tanto meno un referendum sull’ipotesi, che sarebbe quindi incostituzionale. Mas spera dunque di portare il suo partito, la Ciu (Convergència i Unió) alla maggioranza assoluta del parlamento locale, per poi creare una legge ad hoc per le consultazioni popolari.
La lotta di Artur Mas
«nazionalista dell’ultima ora»
Ma lo
stratagemma potrebbe non essere abbastanza per risollevare le sorti economiche
della Catalogna, il cui bilancio è gravato da 44 miliardi di debiti: 30 sono
stati richiedesti in prestito al governo centrale per tappare il buco delle
proprie banche.
L'ESCLUSIONE DALLA UE. La Commissione europea ha precisato che qualunque territorio si dichiari indipendente sarà automaticamente escluso dall’Unione e i suoi cittadini perderanno i diritti europei. La Catalogna dovrebbe quindi prima realizzare la secessione e poi chiedere di rientrare nell’Ue, sempre che sia in possesso dei requisiti richiesti.
Pochi si aspettavano che sarebbe stato Artur Mas, classe 1956 e originario di Barcellona, a risollevare la questione dell’indipendenza catalana: il politico è infatti considerato come un «nazionalista dell’ultima ora».
Il partito di cui è alla guida, nazionalista di centro destra, è nato infatti come federazione di altre due formazioni: Convergència democràtica de Cataluña (Cdc) e Unió democràtica de Cataluña (UDC). Quest’ultima è sempre stata vincente dalla fine della dittatura di Francisco Franco: l’ex presidente della regione, Jordi Puyol, mentore di Artur Mas, governò dal 1980 al 2003.
SOCIALISTI CONTRADDITTORI. A combattere la voglia di strappo di Mas, il cui partito è dato per vincente, ci sono i socialisti del Partido de los socialistas de Cataluña (Psc), federato con il Partido socialista obrero español (Psoe).
Ma la loro posizione è complessa e rischia di apparire contraddittoria: lo schieramento è contrario all’indipendenza della Catalogna, ma a favore del diritto di decidere e quindi pro-referendum.
LA SPERANZA DELL'ERC. A fare muro resta la candidata del Partido popular (Pp) Alicia Sanchez-Camacho, su cui però i sondaggi - dicono gli analisti - non sono attendibili: in Catalogna la gente si vergogna di ammettere che vota per un partito centralista. Infine, ci sono i secessionisti di lungo corso, e di sinistra, del partito Esquerra republicana de Catalunya (Erc).
Per i catalani che sognano davvero l’indipendenza sono loro l’unica sicurezza per andare al referendum. Molti, infatti, temono che alla fine Mas potrebbe non avere il coraggio di sfidare il governo central, battendo in ritirata all’ultimo minuto. Dopo essersi però garantito altri quattro anni sulla poltrona.
L'ESCLUSIONE DALLA UE. La Commissione europea ha precisato che qualunque territorio si dichiari indipendente sarà automaticamente escluso dall’Unione e i suoi cittadini perderanno i diritti europei. La Catalogna dovrebbe quindi prima realizzare la secessione e poi chiedere di rientrare nell’Ue, sempre che sia in possesso dei requisiti richiesti.
Pochi si aspettavano che sarebbe stato Artur Mas, classe 1956 e originario di Barcellona, a risollevare la questione dell’indipendenza catalana: il politico è infatti considerato come un «nazionalista dell’ultima ora».
Il partito di cui è alla guida, nazionalista di centro destra, è nato infatti come federazione di altre due formazioni: Convergència democràtica de Cataluña (Cdc) e Unió democràtica de Cataluña (UDC). Quest’ultima è sempre stata vincente dalla fine della dittatura di Francisco Franco: l’ex presidente della regione, Jordi Puyol, mentore di Artur Mas, governò dal 1980 al 2003.
SOCIALISTI CONTRADDITTORI. A combattere la voglia di strappo di Mas, il cui partito è dato per vincente, ci sono i socialisti del Partido de los socialistas de Cataluña (Psc), federato con il Partido socialista obrero español (Psoe).
Ma la loro posizione è complessa e rischia di apparire contraddittoria: lo schieramento è contrario all’indipendenza della Catalogna, ma a favore del diritto di decidere e quindi pro-referendum.
LA SPERANZA DELL'ERC. A fare muro resta la candidata del Partido popular (Pp) Alicia Sanchez-Camacho, su cui però i sondaggi - dicono gli analisti - non sono attendibili: in Catalogna la gente si vergogna di ammettere che vota per un partito centralista. Infine, ci sono i secessionisti di lungo corso, e di sinistra, del partito Esquerra republicana de Catalunya (Erc).
Per i catalani che sognano davvero l’indipendenza sono loro l’unica sicurezza per andare al referendum. Molti, infatti, temono che alla fine Mas potrebbe non avere il coraggio di sfidare il governo central, battendo in ritirata all’ultimo minuto. Dopo essersi però garantito altri quattro anni sulla poltrona.
ITALIA – Due nuovi Partiti
Dai fuorisciti dell'Idv nasce Diritti e libertà
«Un movimento che
rinforzi il centrosinistra»
Operazione
scissione completata. I ribelli dell’Italia dei valori, guidati da Massimo
Donadi, hanno dato vita al DL, acronimo di Diritti e libertà: un partito «ad
energia pulita», che non chiederà «mai» finanziamenti pubblici e non avrà «né
presidenti, né segretari, ma solo un portavoce».
È una scelta che «chiama in gioco i principi fondamentali della Costituzione». L'annuncio è arrivato dall'ex capogruppo Idv, Massimo Donadi, insieme con gli altri fuoriusciti dal partito di Antonio Di Pietro: Nello Formisano, Stefano Pedica (al Senato), Giovanni Paladini e Gaetano Porcino, in una conferenza stampa.
IL TRICOLORE E L'ARANCIO. Nel simbolo di Diritti e libertà compare non solo il tricolore, ma anche l'arancione caro al movimento dei sindaci progressisti. «È finità l'età dei partiti personalistici, dell'uomo solo al comando in cui non c'è democrazia», ha detto Donadi.
«La legge elettorale vigente è la prova che chi non ha democrazia al proprio interno non può produrre democrazia nel Paese. Con questa iniziativa nasce un partito a energia pulita, nel nostro statuto non chiederemo mai finanziamenti pubblici, vivremo con i contributi dei nostri aderenti, militanti, eletti, con i contributi che i cittadini riterranno di darci per il lavoro buono o meno buono che avremo fatto».
Donadi ha però precisato: «La nostra non è una posizione antipolitica, siamo consapevoli che i partiti tradizionali, strutturati, hanno necessità per le quali il finanziamento pubblico è una risposta seria. Vogliamo essere un esperimento».
«UN NOME CHE NON È CASUALE». Nel nome del movimento c'è di fatto anche il programma. «Quella di diritti e libertà è una scelta non casuale ma che chiama in gioco direttamente i principi fondamentali della Costituzione e noi vogliamo essere un partito della Costituzione, vogliamo identificare fortemente la vita di questa forza politica con la battaglia per la sanità pubblica, per i diritti civili, per uno Stato fieramente laico», ha detto ancora Donadi.
Tra i punti d'onore del partito, la questione morale: «Non candideremo mai chi è stato condannato anche solo in primo grado o daremo incarichi di governo anche solo a chi è stato rinviato a giudizio. Diritti e libertà presenterà le proprie liste alla Camera e il Senato, ma siamo tutti senza rete. Non siamo usciti dall'Idv per andarci ad accomodare in posizione garantite».
È una scelta che «chiama in gioco i principi fondamentali della Costituzione». L'annuncio è arrivato dall'ex capogruppo Idv, Massimo Donadi, insieme con gli altri fuoriusciti dal partito di Antonio Di Pietro: Nello Formisano, Stefano Pedica (al Senato), Giovanni Paladini e Gaetano Porcino, in una conferenza stampa.
IL TRICOLORE E L'ARANCIO. Nel simbolo di Diritti e libertà compare non solo il tricolore, ma anche l'arancione caro al movimento dei sindaci progressisti. «È finità l'età dei partiti personalistici, dell'uomo solo al comando in cui non c'è democrazia», ha detto Donadi.
«La legge elettorale vigente è la prova che chi non ha democrazia al proprio interno non può produrre democrazia nel Paese. Con questa iniziativa nasce un partito a energia pulita, nel nostro statuto non chiederemo mai finanziamenti pubblici, vivremo con i contributi dei nostri aderenti, militanti, eletti, con i contributi che i cittadini riterranno di darci per il lavoro buono o meno buono che avremo fatto».
Donadi ha però precisato: «La nostra non è una posizione antipolitica, siamo consapevoli che i partiti tradizionali, strutturati, hanno necessità per le quali il finanziamento pubblico è una risposta seria. Vogliamo essere un esperimento».
«UN NOME CHE NON È CASUALE». Nel nome del movimento c'è di fatto anche il programma. «Quella di diritti e libertà è una scelta non casuale ma che chiama in gioco direttamente i principi fondamentali della Costituzione e noi vogliamo essere un partito della Costituzione, vogliamo identificare fortemente la vita di questa forza politica con la battaglia per la sanità pubblica, per i diritti civili, per uno Stato fieramente laico», ha detto ancora Donadi.
Tra i punti d'onore del partito, la questione morale: «Non candideremo mai chi è stato condannato anche solo in primo grado o daremo incarichi di governo anche solo a chi è stato rinviato a giudizio. Diritti e libertà presenterà le proprie liste alla Camera e il Senato, ma siamo tutti senza rete. Non siamo usciti dall'Idv per andarci ad accomodare in posizione garantite».
«Un movimento che
rinforzi il centrosinistra»
Il progetto
di Donadi è chiaro, e non prevede un addio agli alleati di un tempo. Diritti e
libertà (Dl) è nato per rafforzare il centrosinistra: «Vogliamo partecipare
alla coalizione e già oggi in una lettera a Pierluigi Bersani manifesteremo la
nostra intenzione», ha spiegato Donadi.
«Alle primarie daremo indicazione per il voto a Bersani , l'unico che ha piena competenza per una responsabilità di governo e che ha il profilo per federare il centrosinistra».
Quindi, «chiederemo di aprire un confronto con il vincitore delle primarie e avanziamo la richiesta formale di partecipazione e adesione alla coalizione. Noi crediamo che una coalizione Pd-Sel sia un incompiuto, c'è una storia antica che parte dal Partito d'Azione che non può non avere una sua rappresentanza nel centrosinistra. Starà a noi meritare il consenso degli elettori».
Per quanto riguarda il voto per le regionali del Lazio Donadi ha informato quindi di aver già parlato con Nicola Zingaretti: «Ho trovato ampia disponibilità ad avere il nostro tra i movimenti che lo sosterranno alle prossime elezioni».
Auguri per la nascita del nuovo soggetto anche da Di Pietro: «Rancore? Ma ci mancherebbe altro», il leader dell'Idv ha assicurato ai cronisti che lo hanno interpellato che con Massimo Donadi e gli altri usciti dell'Idv che hanno costituito Diritti e libertà, non c'è nessun risentimento.
«L'Idv è contenta di aver portato in parlamento e nelle istituzioni persone che, diventate maggiorenni, hanno deciso di camminare con le loro gambe. Ci auguriamo che con l'esperienza acquisita con noi noi in questi anni possono continuare a contribuire al bene del Paese».
«Alle primarie daremo indicazione per il voto a Bersani , l'unico che ha piena competenza per una responsabilità di governo e che ha il profilo per federare il centrosinistra».
Quindi, «chiederemo di aprire un confronto con il vincitore delle primarie e avanziamo la richiesta formale di partecipazione e adesione alla coalizione. Noi crediamo che una coalizione Pd-Sel sia un incompiuto, c'è una storia antica che parte dal Partito d'Azione che non può non avere una sua rappresentanza nel centrosinistra. Starà a noi meritare il consenso degli elettori».
Per quanto riguarda il voto per le regionali del Lazio Donadi ha informato quindi di aver già parlato con Nicola Zingaretti: «Ho trovato ampia disponibilità ad avere il nostro tra i movimenti che lo sosterranno alle prossime elezioni».
Auguri per la nascita del nuovo soggetto anche da Di Pietro: «Rancore? Ma ci mancherebbe altro», il leader dell'Idv ha assicurato ai cronisti che lo hanno interpellato che con Massimo Donadi e gli altri usciti dell'Idv che hanno costituito Diritti e libertà, non c'è nessun risentimento.
«L'Idv è contenta di aver portato in parlamento e nelle istituzioni persone che, diventate maggiorenni, hanno deciso di camminare con le loro gambe. Ci auguriamo che con l'esperienza acquisita con noi noi in questi anni possono continuare a contribuire al bene del Paese».
Registrato
il nome per una nuova lista.
Silvio
Berlusconi non molla. L'ultimo atto del Cavaliere è rimbalzato dagli uffici per
i brevetti dell'Unione Europea, dove il leader del Pdl ha depositato tre marchi
per altrettanti movimenti politci.
Il primo - registrato il 23 ottobre - e più importante, sarebbe 'L'Italia che lavora', ovvero un progetto dell'ex premier per creare una lista di imprenditori da mettere alla guida del Paese.
LISTA PER ARTIGIANI E DIPENDENTI. Nei piani di Berlusconi, come ha riportato quotidiano Libero, alla base di questa lista, ci dovrebbero essere le 'vittime' del governo Monti, ovvero imprenditori, artigiani, e anche lavoratori dipendenti.
Un progetto al quale sarebbero molto vicini diversi amici del Cavaliere, come Flaivo Briatore e il tycoon dei resort Ernesto Preatoni.
LA TENTAZIONE DI UN POLO DI CENTRODESTRA. Il nuovo marchio, tuttavia, non è rimasto da solo per molto tempo.
L'8 novembre, infatti, sono stati presentati anche i nomi 'Centrodestra italiano' e 'Il centrodestra italiano', due nuove idee dell'ex premier, che lascerebbero presagire un tentativo di creare un'alleanza per votare alle prossime elezioni con il 'Porcellum' e cercare di sconfiggere il centrosinistra con un'alleanza a tutto campo.
Il nodo da sciogliere, però rimarrebbe quello degli alleati, tra cui la Lega Nord e La Destra di Francesco Storace.
Il primo - registrato il 23 ottobre - e più importante, sarebbe 'L'Italia che lavora', ovvero un progetto dell'ex premier per creare una lista di imprenditori da mettere alla guida del Paese.
LISTA PER ARTIGIANI E DIPENDENTI. Nei piani di Berlusconi, come ha riportato quotidiano Libero, alla base di questa lista, ci dovrebbero essere le 'vittime' del governo Monti, ovvero imprenditori, artigiani, e anche lavoratori dipendenti.
Un progetto al quale sarebbero molto vicini diversi amici del Cavaliere, come Flaivo Briatore e il tycoon dei resort Ernesto Preatoni.
LA TENTAZIONE DI UN POLO DI CENTRODESTRA. Il nuovo marchio, tuttavia, non è rimasto da solo per molto tempo.
L'8 novembre, infatti, sono stati presentati anche i nomi 'Centrodestra italiano' e 'Il centrodestra italiano', due nuove idee dell'ex premier, che lascerebbero presagire un tentativo di creare un'alleanza per votare alle prossime elezioni con il 'Porcellum' e cercare di sconfiggere il centrosinistra con un'alleanza a tutto campo.
Il nodo da sciogliere, però rimarrebbe quello degli alleati, tra cui la Lega Nord e La Destra di Francesco Storace.
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