Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


sabato 29 dicembre 2012

ITALIA - Democrazia e cattolicesimo: incompatibili

La religione cattolica mira da sempre a uno Stato basato su norme «conformi al piano di Dio» da imporre a tutti come «leggi naturali». E', cioè, un fondamentalismo.

Il cattolicesimo non è soltanto una religione fra le altre ma una religione che aspira a instaurare uno stato confessionale, le cui leggi si fondino sulla morale cattolica. Lo confermano ogni giorno gli interventi a gamba tesa di gerarchie cattoliche o politici al loro servizio, ora su divorzio breve o pillola del giorno dopo, ora su coppie di fatto o legge contro l'omofobia, su finanziamenti alle scuole private o fine vita.

Cristianesimo e cattolicesimo
L'intento di dar vita a uno stato confessionale connota il cattolicesimo fin dalla sua nascita, nel IV secolo. Col Concilio di Nicea del 325, presieduto dall'imperatore Costantino, la Chiesa condannò l'arianesimo, decretando la morte per chiunque detenesse un libro di Ario e non lo distruggesse. Essa si proclamava così l'unico cristianesimo legittimo - in opposizione ad altri via via definiti «eretici» - e rivendicava il diritto di imporlo con la forza. Nel 380 Teodosio formalizzò questa posizione proclamando religione di stato non il cristianesimo (come spesso si dice) ma la specifica dottrina cristiana «professata dal pontefice Damaso». I suoi seguaci, recita l'Editto, «siano chiamati cristiano-cattolici» mentre tutti gli altri, «eretici», siano puniti «non solo dalla vendetta divina, ma anche dal potere che la Volontà celeste ci ha accordato». Fermo restando, precisava in quegli anni Giovanni Crisostomo che l'imperatore a sua volta è sottomesso al papa, poiché «il clero è più altolocato del re».

Dal IV al XX secolo
Il cattolicesimo rafforzò questi caratteri durante tutto il Medioevo e l'età moderna, attraverso le crociate, l'Inquisizione, la «evangelizzazione» forzata delle Americhe. La teocrazia, cioè la supremazia del papa rispetto all'imperatore e il dovere per quest'ultimo di emanare leggi in armonia con la dottrina cattolica, giunse al culmine nel XIII secolo, quando Tommaso d'Aquino scriveva che «il potere civile è sottoposto a quello spirituale come il corpo all'anima» e «la filosofia del Vangelo», ricorda con nostalgia Leone XIII, «governava la società» (Immortale Dei, 1885). Ma ancora nel XIX secolo, la libertà di coscienza era definita «delirio» da Pio IX (Sillabo, 1864). E fino a metà Novecento la Chiesa affermò che lo stato non deve essere «ateo» ma legiferare in armonia con la «vera religione» (Leone XIII). «La peste dell'età nostra è il... laicismo», dichiarava Pio XI nel 1925, che «negò alla Chiesa il diritto - che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo - di ammaestrare le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli all'eterna felicità» (Quas primas). Né va dimenticata la contemporanea politica dei concordati, come quello del 1929 fra Pio XI e Mussolini, mirante a conservare un carattere confessionale agli stati, e a garantire al cattolicesimo i privilegi della «religione di stato», con la conseguente imposizione a tutti i cittadini di leggi conformi alla morale cattolica specie in fatto di matrimonio, aborto e così via.

E oggi, la teocrazia continua
Neppure con Giovanni XXIII, celebrato promotore del Vaticano II, le cose cambiano. Egli afferma che il potere statale non deve solo provvedere al bene terreno dei cittadini bensì agire «in modo... da servire altresì al raggiungimento del fine ultraterreno»; e che i politici cattolici devono operare «in accordo... con le direttive della autorità ecclesiastica» cui spetta «di intervenire autoritativamente presso i suoi figli nella sfera dell'ordine temporale» (Pacem in terris, 1963). Il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, poi, «invita i poteri politici a riferire i loro giudizi e le loro decisioni» alla «Verità... divinamente rivelata». E all'Angelus del 20 febbraio 1994, Giovanni Paolo II condannò una risoluzione europea favorevole alle unioni di fatto perché «non conformi al piano di Dio», cioè a quello che la Chiesa considera tale: quasi che l'Europa del XXI secolo debba legiferare come l'Europa «cristiana» di Carlo Magno. E' quanto afferma Benedetto XVI esortando i vescovi europei a «contribuire a edificare con l'aiuto di Dio una nuova Europa, ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo» (2007).

La gherminella del "diritto naturale"
Tali posizioni non possono evidentemente conciliarsi con la laicità dello stato e la democrazia se non ricorrendo alla gherminella di far credere che le norme «conformi al piano di Dio» (dal matrimonio indissolubile alla morale sessuale cattolica) non siano valori «confessionali», vincolanti solo per i cattolici, ma esigenze etiche appartenenti alla «legge morale naturale», cui tutti devono sottostare (Nota dottrinale sui cattolici nella vita politica, 2002). La tattica inaugurata già da Pio IX e Leone XIII e costantemente adottata da Benedetto XVI in questi anni è appunto quella di contrabbandare le dottrine cattoliche per «diritto naturale» (stabilito dalla Chiesa di Roma, non si capisce con quale autorità e a quale titolo né con quale logica dato che la favola del peccato originale, l'idea della famiglia monogamica come modello «naturale» o la castità perpetua contraddicono alla ragione, alla natura e alla storia). Ne segue che per il papa in carica lo stato è «sanamente» laico soltanto quando, dopo aver fatto uscire dalla porta la morale cattolica, la fa rientrare dalla finestra travestita da «diritto naturale». «Una sana laicità dello Stato comporta senza dubbio che le realtà temporali si reggano secondo norme loro proprie», disse Benedetto XVI nel 2006 ai vescovi italiani, «alle quali appartengono però anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo e pertanto rinviano in ultima analisi al Creatore», di cui lui, Benedetto, è il rappresentante in terra e l'interprete autorizzato. E il gioco è fatto.

Sicché è del tutto fuorviante l'idea, coltivata anche da certi cattolici «progressisti», che la Chiesa abbia ormai accettato, a differenza dei fondamentalisti islamici, la laicità dello stato e che a sognare un regime teocratico siano solo alcune minoranze marginali (lefebriani, Fraternità di San Pio X e simili). A essere fondamentalista, e quindi incompatibile con la democrazia, è il cattolicesimo come tale - nonostante gli accorgimenti "tattici" cui la Chiesa e i politici cattolici ricorrono per meglio imporsi in una società come quella europea, a loro dispetto laica e secolarizzata.

Walter Peruzzi

ITALIA DO UT DES - Chiesa, le indulgenze di Monti

Dal fronte anti Vendola ai 17 milioni per gli ospedali cattolici. Dietro l'endorsement, le attenzioni di Monti per il Vaticano.Che ne benedice l’ascesa politica e “ospita” il suo vertice con i centristi.

di Marco Mostallino

Venerdì, 28 Dicembre 2012 - Loden verde e moglie a braccetto, ogni domenica mattina il premier si fa ritrarre da fotografi e tivù mentre esce da messa. Questo quadretto che unisce Dio, patria e famiglia è come un’icona miracolosa: ha compiuto il prodigio di unire persino i due partiti rivali della Chiesa, quello guidato dal segretario di Stato Tarcisio Bertone e l’altro, la Cei, con a capo Angelo Bagnasco.
Prima l’editoriale di Famiglia Cristiana, poi l’altro dell’Osservatore Romano, entrambi nella stessa direzione: Vaticano e vescovi in campagna elettorale sosterranno Mario Monti e il suo calderone di liste. Ma si tratta di un endorsement totalmente disinteressato?
Di certo c'è che il Prof in questo suo anno a capo del governo ha cercato, spesso, di tendere una mano al Vaticano.

Il fronte anti Vendola


Casini, Olivero, Riccardi: questi “crociati” di Mario Monti sono considerati preziosi dal Vaticano e dalla Cei, perché considerati in grado di opporsi alle riforme che il leader di Sel, Nichi Vendola, vorrebbe attuare nella prossima legislatura: legge contro l’omofobia, adozioni alle coppie gay, fecondazione artificiale più facile, norme che tutelino maggiormente le donne da violenze e abusi soprattutto in famiglia (vedi il caso del prete di Lerici che, dopo aver accusato le donne stuprate di “cercarsela”, non è stato punito dalla Diocesi).

La campagna sull'Imu


È vero che con in Professore ora anche la Chiesa dovrà pagare l’Imu per una parte dei suoi immobili, ma in Vaticano considerano la partita ancora aperta. Tanto che ora la Chiesa sostiene un paradossale fronte anti-Imu, che trova nell’appoggio aperto a Monti del costruttore Caltagirone il suo campione: il re dei palazzinari romani è suocero (in seconde nozze) di Pier Ferdinando Casini, da sempre contrario all’Imu alla Chiesa ma anche nemico di una tassa che certamente non aiuta gli affari immobiliari di Caltagirone e dei suoi 'colleghi' costruttori, spesso i veri poteri forti delle città italiane, capaci di condizionare le scelte urbanistiche di moltissimi sindaci, dal Nord al Sud del Paese.

Le 'mance' approvate in Finanziaria


«Non chiamatela più Finanziaria, è una legge di stabilità» aveva detto Monti per segnare una presunta discontinuità col passato fatto di soldi a pioggia. Invece, l’ultima manovra dell’esecutivo si è trasformata nella più democristiana legge di spesa che si potesse immaginare. Mance per gli amici e i possibili alleati: come i 5 milioni per l’ospedale Gaslini di Genova, caro al “ligure” Bagnasco, e i 12 al Bambin Gesù di Roma, uno dei centri di potere sanitario cattolico nella Capitale.

L'obolo alla scuola cattolica


Mentre le scuole pubbliche sono alla bancarotta, con soffitti che crollano ferendo gli alunni (ultimo caso in una elementare di Ciampino), il Governo Monti ha tolto altri 157 milioni di euro agli istituti statali per versarne 278 nella bocca sempre aperta di quelle cattoliche. Una mossa che ora si legge in chiave elettorale.

I “campioni della fede”


Monti dal canto suo ha compiuto due abili mosse politiche, inserendo tra i suoi candidati il leader della Comunità di Sant’Egidio, nonché ministro, Andrea Riccardi, e Andrea Olivero, presidente delle Acli che, dopo il sostegno passato a Romano Prodi, negli ultimi anni davano ormai aperto sostegno a Silvio Berlusconi.
E poi c’è Comunione e liberazione con la potentissima Compagnia delle Opere, una rete di aziende che vivono soprattutto di appalti pubblici, locali e nazionali. I ciellini avevano in Roberto Formigoni e Silvio Berlusconi i santi patroni, capaci di garantire loro affari multimilionari. Ma dopo l’imbolsimento del Cavaliere e la bufera giudiziaria sul “Celeste”, ormai Cl si è riposizionata al sostegno di Monti: chi prospera grazie al denaro pubblico non può certo permettersi di appoggiare dei perdenti e di stare a lungo lontano dal potere.

La campagna mediatica


Così, ora la Chiesa affila le sue armi mediatiche. In primis Famiglia Cristiana, la corazzata che diffonde ogni settimana oltre 900 mila copie e che sfiora i i 3,5 milioni di lettori, più delle persone che hanno partecipato alle primarie del Pd, per dare un metro della forza che la rivista cattolica può mettere in campo.
Poi l’Osservatore Romano, bollettino vaticano, e L’Avvenire, quotidiano della Cei: due giornali spesso su posizioni politiche diverse, ma che ora troveranno finalmente un unico candidato da sostenere insieme. Poi l’immensa rete di settimanali diocesani e tivù di diocesi e parrocchie: prese una per una piccole realtà, ma se messe insieme in grado di influenzare le scelte, o almeno le idee, di molti milioni di cittadini di ogni età, i quali vedono ancora nel prete o nel vescovo un riferimento anche per le decisioni da prendere nel segreto dell’urna.

venerdì 28 dicembre 2012

ITALIA VERSO IL VOTO - Decreto taglia firme, Senato dà l'ok: è legge

Ridotte del 75% le adesioni per presentare le liste.

Venerdì, 28 Dicembre 2012 - Sì dell'Aula del Senato alla conversione in legge del decreto taglia firme. Il provvedimento, a rischio fino all’ultimo, riduce del 75% il numero delle firme necessarie per la presentazione delle liste elettorali.
ASTENSIONE DELLA LEGA. Dopo la verifica del numero legale, su richiesta della Lega, il presidente del Senato Renato Schifani ha dato inizio alla votazione del provvedimento che è durata meno di mezz'ora.
La norma, approvata dall'Aula per alzata di mano (con l'astensione del Carroccio), è ora legge.
SERVONO 30 MILA FIRME. La soglia di firme necessarie per la presentazione di una lista elettorale scende così a 30 mila unità. Un'ulteriore riduzione del 60% è prevista per i partiti che - alla data di entrata in vigore del decreto - sono costituiti in gruppo parlamentare almeno in una delle Camere, come per esempio l'Udc.
A essere completamente esentati dalla raccolta delle firme sono invece il Pd, il Pdl, la Lega e l'Idv che hanno gruppi parlamentari sia alla Camera che al Senato.
BAGARRE DI FINE LEGISLATURA. Il decreto è approdato all'esame dell'aula di Palazzo Madama dopo una difficile intesa raggiunta alla Camera, in piena bagarre di fine legislatura e dopo che il 21 dicembre Schifani, rammaricato, era stato costretto a rinviarne l'esame per la mancanza del numero legale.
Fino all'ultimo il via libera del Senato non è apparso scontato. Anche il 28 dicembre la Lega, contraria al provvedimento, ha chiesto per due volte la verifica del numero legale. Ma il controllo ha dato risultato positivo e l'assemblea di Palazzo Madama ha potuto votare.
Francesco Rutelli, dell'Api, ha espresso «apprezzamento per il punto di equilibrio trovato», quello che riduce le firme a 30 mila. Il testo non riguarda solo la raccolta delle firme, ma anche adempimenti relativi, proprio al voto, come quello degli italiani temporaneamente all'estero.

CdV - Il Vaticano benedice la «salita» di Monti in Italia.

L'Osservatore romano sostiene la candidatura del Prof. Atteso a Roma per un vertice coi centristi.

di Gabriele Perrone

Giovedì, 27 Dicembre 2012 - Anche il Vaticano sta con Mario Monti.
Dopo il sostegno alla “salita” in campo del Prof da parte dei centristi, è arrivato l'endorsement de L'Osservatore romano.
Monti vuole «recuperare il senso più alto e più nobile della politica che è pur sempre, anche etimologicamente, cura del bene comune», ha scritto il giornale ufficiale della Città del Vaticano in un articolo dal titolo «La salita in politica del senatore Monti» con data 28 dicembre.
«È questa domanda di politica alta - si legge - che probabilmente la figura di Mario Monti sta intercettando o sulla quale comunque il capo del governo uscente intende legittimamente far leva e che interpella i partiti al di là dei contenuti del suo manifesto politico».
«L'UOMO ADATTO PER L'ITALIA». L’espressione «salire in politica», usata da Monti nel corso della conferenza stampa del 23 dicembre, «è stata accolta con ironia, in qualche caso con disprezzo».
Ma per l'Osservatore «si nota la sintonia con il messaggio ripetuto in questi anni dal presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, non a caso un’altra figura istituzionale che gode di ampia popolarità e alla quale tutti riconoscono il merito di aver individuato proprio nel senatore a vita l’uomo adatto a traghettare l’Italia fuori dai marosi della tempesta finanziaria».
L'APPOGGIO DEI POTERI FORTI. Con questo articolo, il Vaticano ha risposto alle critiche di Silvio Berlusconi, secondo cui “Monti sale in politica perché è di rango inferiore”. E di fatto ha confermato il sostegno di uno dei poteri firtissimi che circondano il premier dimissionario.
D'altronde le morbidezze di Monti sull'Imu agli enti cattolici, il suo stile di vita da sobrio e fedele praticante e la sua vicinanza con Andrea Riccardi (fondatore della comunità di Sant'Egidio), rappresentano più di un indizio della sua inclinazione positiva nei confronti del Vaticano.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che una parte di Comunione e Liberazione è pronta a lasciare il Pdl per aderire all'agenda del Prof.
IL TIMORE DEI PARTITI. «Monti è stato chiamato dai partiti a prendere decisioni inderogabili, di cui nessuno intendeva però prendersi la responsabilità diretta per il timore di pagare un prezzo elettorale troppo alto», ha sostenuto l'Osservatore romano.
«Quelle stesse forze politiche si ritrovano ora a interrogarsi sull’impatto che può avere la 'salita in politica' di chi doveva, quasi per mandato, diventare impopolare. Una prospettiva che fornisce da sola molto materiale alla riflessione dei partiti, così come il successo che anche i sondaggi sembrano ora attribuire a chi ha imposto agli italiani sacrifici pesanti».

ITALIA - I redenti di Berlusconi

Volevano scaricare il Capo. Lo hanno criticato. E contraddetto. Poi dopo la sua rentrée ufficiale hanno abiurato. Da Quagliariello a Roccella, i pidiellini o ex pidiellini tornati alla corte del Cavaliere.

di Francesca Buonfiglioli

Berlusconi? Finito, a casa, da rottamare. Parecchi pidiellini negli ultimi mesi avevano messo in discussione la leadership del Capo supremo. Tentando di dare consigli, scrivendo lettere pubbliche ai giornali, o ventilando addirittura ipotesi di scissione.
Alla fine però è bastato il gran ritorno del Cavaliere in pompa magna e a “reti unificate” per richiamare all'ordine le truppe in odore di ammutinamento.
LA FRONDA DEI RESISTENTI. A resistere è solo una sparuta ciurma filo-montiana, tra cui l'eurodeputato 'eretico' Mario Mauro e Franco Frattini (anche se da inizio legislatura ben 68 onorevoli hanno lasciato il Cavaliere).
Gli altri berluscones che, nel recente passato, avevano alzato la testa l'hanno prontamente riabbassata, allineandosi al volere di Silvio.
Primo tra tutti Gaetano Quagliariello. A ruota l'hanno seguito Giorgia Meloni, Eugenia Roccella, e il presidente del Senato Renato Schifani. Ri-folgorati, pare, sulla via di Arcore.

1. Gaetano Quagliariello


Il 18 dicembre scorso Quagliariello esortava il Professore ad avere «il coraggio di scendere in campo come il federatore di tutti quegli italiani che non vogliono mettere il Paese nelle mani di Bersani e Vendola». Il vicecapogruppo del Pdl al Senato era poi andato oltre. «Mi auguro che tutto il Pdl sia con Monti», aveva dichiarato deciso al Tgcom24, «perché a quel punto si riaprirebbe la partita, anche nei sondaggi ci sarebbe molta incertezza».
LA GIRAVOLTA DOPO LA CONFERENZA. Sembrava che la quadra fosse stata trovata. E invece no. È bastata la conferenza stampa di fine anno del premoer dimissionario per confondergli le idee. A ruota del segretario Angelino Alfano, che ha immediatamente messo in chiaro la propria indisponibilità “a qualsiasi collaborazione con il Professore, anche Quagliariello si è unito alla levata di scudi in difesa di Berlusconi.
«IL PROF? INGENEROSO». «Con tutto il rispetto che si deve sempre a chi serve lo Stato, e al di là della condivisione di diversi punti della sua agenda», ha tuonato il 23 dicembre il Quagliariello redento, «nella conferenza stampa il presidente Monti è stato politicamente ingeneroso e in alcuni casi anche inconsapevole delle dinamiche storiche alla base dei fenomeni sui quali con tanta puntigliosità si è soffermato».
ADDIO POPOLARISMO EUROPEO. Il senatore, ça va sans dire, non ha perso tempo per difendere il Cavaliere, sulla cui linearità di pensiero Monti aveva espresso qualche perplessità. «Ad aver smarrito la linearità è chi nel giro di pochi giorni è passato dall'incontro del Ppe a Bruxelles a un accordo di sinistra-centro nel quale la componente moderata sarebbe del tutto subalterna, destinata al massimo a esercitare qualche correttivo e un po' di cosmesi rispetto al programma di Bersani e Vendola che col popolarismo europeo non ha nulla a che vedere né sul piano dei principi né sul piano dell'economia».

2. Renato Schifani


Che dire poi di Renato Schifani, pasdaran siculo del Cavaliere costretto all'allure di terzietà dopo essere stato nominato presidente del Senato.
Eppure il fedele Renato era stato tra i primi a rompere il silenzio e denunciare pubblicamente la crisi del Predellino. In una lettera aperta al Foglio del 6 giugno scorso aveva invocato «Berlusconi e all’intera classe dirigente del Pdl un’operazione verità». «Perché», scriveva la seconda carica dello Stato, «senza una riflessione seria, senza un’autocritica profonda sarà difficile restituire al Pdl autorevolezza, fierezza e combattività».
L'AMMISSIONE DI RESPONSABILITÀ. E poi la confessione: «Va detto, per esempio, che l’ultimo governo, prima che arrivasse Monti, non è stato scalzato da chissà quali forze oscure, ma da una mancanza di coesione che non ha consentito alla maggioranza di varare le riforme tenacemente volute dai nostri partner europei; va detto che la nostra credibilità all’estero precipitava di giorno in giorno perché Berlusconi sosteneva una linea e il ministro Tremonti l’esatto contrario».
IL RITORNO ALL'OVILE. Un atto di coraggio. Che però si è consumato in una retromarcia nei ranghi berlusconiani. Anche Schifani, infatti, il 24 dicembre dall'Afghanistan dove si trovava in visita al contingente italiano ha attaccato il Prof: «Quello di Monti non credo sia stato un appuntamento istituzionale», ha tuonato. «Ha fatto una conferenza politica dove ha lanciato un manifesto per una candidatura. Credo che sarebbe stato meglio fare questo in altre occasioni».
ATTACCHI AL CAV: «FUORI LUOGO». Il presidente del Senato ha poi detto la sua sulla gestione del periodo elettorale da parte dell'esecutivo del professori. «Gli ultimi presidenti del Consiglio che lo hanno fatto sono stati Prodi e Berlusconi, ma loro avevano vinto le elezioni. Non mi sembra che esista un precedente di governo tecnico, divenuto politico, che abbia gestito la campagna elettorale». E, infine, il senatore azzurro ha bollato come «fuori luogo» gli attacchi che il premier dimissionario ha rivolto a Berlusconi. «È strana», ha fatto notare, «una conferenza stampa di un premier che attacca l'ex premier».

3. Eugenia Roccella


Altro giro, altro regalo. Nella lista dei berluscones redenti non può mancare l'ultras cattolica Eugenia Roccella. Il 12 ottobre scorso, dalle colonne di Avvenire, era uscita allo scoperto lanciando un appello ai moderati affinché si ricompattassero «a sostegno del Monti-bis».
L'APERTURA AL «TRADITORE» CASINI. La deputata aveva addirittura aperto a un dialogo con Pier Ferdinando Casini. Cioè con colui che Berlusconi ha recentemente definito «il traditore peggiore della mia vita». Roccella, invece, credeva in un riavvicinamento, «in nome dei valori comuni di riferimento e della comune militanza nel Ppe». La leadership di Monti, poi, era data praticamente per certa. «Posto che l’approdo finale sono le larghe intese guidate ancora dal Professore», pronosticava l'ex sottosegretario alla Salute, «arrivarci così, divisi e senza identità, significa fare un regalo alla sinistra». Dunque, almeno fino a ottobre, Silvio Berlusconi era da rottamare, perché, «arrivato al punto».
PER I VALORI CATTOLICI. «La gran parte della base parlamentare ed elettorale sta con Monti», spiegava Roccella al quotidiano dei vescovi. «Certo, dopo le parole di Berlusconi ora bisogna lanciare messaggi univoci e coerenti. In ballo c’è la stessa rilevanza pubblica dei cattolici e dei valori di cui sono portatori».
«MONTI? CANDIDATO A SUA INSAPUTA». Poi dopo il 23 dicembre i toni sono decisamente cambiati. «Con le parole ingenerose contro Berlusconi e il Pdl, pronunciate nella conferenza stampa, il presidente Monti ha deluso chi si aspettava che mantenesse un profilo equilibrato, se non sopra le parti», ha dichiarato la deputata. «Monti si è schierato, entrando in campagna elettorale, ma lo fatto in modo davvero anomalo. Il presidente infatti ha inaugurato una nuova figura politica: quella del candidato premier a sua insaputa».
Roccella ha quindi accusato il Prof di essere ambiguo circa il suo futuro politico. «Ma in un momento di crisi come quello attuale», ha sottolineato, «è necessario dare ai cittadini risposte limpide, e non si può fare politica senza rischiare qualcosa in prima persona».

4. Gianni Alemanno


Più sobria la frenata di Gianni Alemanno. «È fondamentale capire che ci vuole unità di tutto il centrodestra, senza far prevalere le divisioni, ma con un programma e indicazioni chiare e un'alternativa alla sinistra», diceva il 16 dicembre il sindaco di Roma dal palco di Italia popolare, la kermesse del centrodestra organizzata al teatro Olimpico. E aggiungeva: «Io non sono montiano, ma sono alternativo alla sinistra che oggi appare vincente e non escludo che per aggregare uno schieramento diverso di moderati la figura di Monti possa essere vincente».
«L'AGENDA? DEVO SCARICARLA». Una convinzione che il 24 dicembre appariva decisamente indebolita. «L'agenda Monti?», si è limitato a dire il primo cittadinio capitolino. «Non l'ho ancora letta, la devo scaricare».

5. Giorgia Meloni


Ma Alemanno non è l'unico ex An ad aver le idee un po' confuse. Pure Giorgia Meloni non scherza. Prima si è fatta portavoce della necessità di ricambio generazionale all'interno del Pdl, donna simbolo delle primarie. Poi, dopo il boicottaggio del Cav non si è data per vinta e con Guido Crosetto e Ignazio La Russa ha dato vita a Fratelli d’Italia Centrodestra nazionale.
«ALLEARSI È UN OBBLIGO». Ma non è finita. L'ex ministro della Gioventù, pur continuando a sostenere che Silvio non avrebbe dovuto candidarsi, ha comunque dato il suo endorsement al Pdl. «Per noi allearci è un obbligo», aveva detto il 23 dicembre. Insomma, se il fine è archiviare il Professore - «Un anno di Monti è bastato. Ha lasciato un'Italia peggiore - ogni mezzo è buono.
INSOFFERENZE E MAL DI PANCIA. Anche se la giovane leader lascia trasparire qualche insofferenza. Su Twitter, il 24 dicembre, commentando l’intervento di Silvio all’Arena di Massimo Giletti, cinguettava: «Pessima la battuta di Berlusconi sulle fogne, che ricorda lo slogan usato dalle Br negli Anni 70 per massacrare ragazzini di 16 anni».

6. Daniele Capezzone


Ma il premio speciale per la giravolta più audace va senza dubbio al portavoce del Pdl Daniele Capezzone. Pronto addirittura ad abiurare a se stesso.
LA PROFESSIONE DI FEDE. Scomparso dagli schermi, dai giornali e dalle scene, l'ex radicale ha colto la palla al balzo per dimostrare la sua fedeltà al Cavaliere. E così il 23 dicembre ha commentato con toni entusiastici la performance domenicale di Silvio. «Da Berlusconi su RaiUno è venuta una positiva scossa politica e di comunicazione, in qualche misura paragonabile a quella che Berlusconi realizzò a Vicenza nel 2006, aprendo la strada a una rimonta enorme», ha detto Capezzone. «In tivù, Berlusconi mostra di vincere anche in trasferta, in contesti ostili e non facili, dove è opportuno avere un approccio non remissivo».
COME A VICENZA NEL 2006. Già, Vicenza. Il 19 marzo 2006 Confindustria organizzò un confronto tra i due candidati: Romano Prodi e, appunto, Berlusconi. Il Cav però prima non si presentò causa lombosciatalgia, poi a sopresa monopolizzò l'attenzione con un monologo a favore dei tg.
I TEMPI DELLO «SCIANCATO DI ARCORE». Niente di strano. Se non che l'allora esponente radicale bollò Berlusconi come «patetico». «Ho visto una scena indimenticabile», commentò Capezzone. «Il melodrammone italiano si arricchisce di nuove pagine lamentose: dopo la ‘cieca di Sorrento’, la ‘muta di Portici’ e lo ‘smemorato di Collegno’, arriva anche lo 'sciancato di Arcore'».

sabato 22 dicembre 2012

GEORGIA - Tornano i monumenti a Stalin, fine dell'era anti-Urss

Sarà ripristinata statua nella piazza centrale di Gori

Gori, 21 dic. - Tornerà sulla piazza centrale di Gori il monumento a Stalin, che in questa cittadina georgiana nacque nel dicembre 1878, mentre ad Alvani, nel Nord ovest della Georgia, è stata appena inaugurata una nuova statua del dittatore sovietico. Iosif Vissarionovic Dzugashvili, insomma, non è più al bando nel suo Paese natale, dove il presidente Mikheil Saakashvili negli ultimi anni aveva accentuato la politica di cancellazione dell'eredità sovietica, senza risparmiare il "Magnifico Georgiano". Perse le elezioni lo scorso ottobre, con l'arrivo al potere del miliardario Bidzina Ivanishvili (considerato un filorusso) oggi Saakashvili è in un angolo e il ritorno della memoria di Stalin appare come un ulteriore segno del suo indebolimento politico.

"Non dobbiamo dimenticare il nostro passato, non dobbiamo dimenticare che Stalin ha avuto un ruolo chiave nella vittoria contro i nazisti", ha dichiarato il capo del partito comunista georgiano, Grigol Oniani, davanti a una piccola folla di abitanti di Alvani. Il concetto è sempre più apertamente condiviso a Mosca, dove le origini georgiane del leader sovietico poco importano rispetto alla sua aura di vincitore della Seconda Guerra Mondiale.

GERMANIA - Berlino imbarazzata per la gaffe sull’hitleriana Merkel

La gaffe di Andreas Koehler, numero uno dell’associazione federale delle Casse mediche tedesche, fa divampare le polemiche in Germania. Le parole, i commenti e le reazioni

Imbarazzo a Berlino. E non solo a Berlino.

Da Giulio Cesare a Carlo Magno, da Napoleone ad Adolf Hitler, fino ad arrivare a Angela Merkel “la lista dei leader di Stato che hanno tentato di unire l’Europa” per Andreas Koehler, numero uno dell’associazione federale delle Casse mediche tedesche, è lunga. “E sempre gli sforzi – ha continuato Koehler – sono falliti subito dopo: nessuno può immaginare di vivere insieme in una stessa casa europea”.

Subito il paragone di Merkel con Hitler ha fatto divampare le polemiche sul più inossidabile dei tabù in Germania. La gaffe, pronunciata da Koehler in un discorso per la festa di Natale davanti a 300 persone, ha lasciato esterrefatti molti dei presenti tanto da finire sulla prima pagina di Die Welt: “Questo confronto ha scioccato molti di noi”, ha detto allo stesso giornale uno dei partecipanti.

A poco è servito il rammarico di Koehler intervenuto per riparare all’errore, dispiaciuto che la sua “ironia non fosse stata capita da tutti”.

Più incisivi gli attacchi nei suoi confronti: “Non so se avesse bevuto troppo vin brulè, prima di tenere questo discorso antistorico, antieuropeo”, ha detto l’esperto per la sanità della Linke Harald Weinberg. Mentre per il collega dell’Spd, Karl Lauterbach, si è trattato di un momento di “mancanza di gusto e di un paragone idiota”.

Redazionale Formiche

ITALIA - Carceri italiane: la punizione diventa vendetta

Argomento imbarazzante per le persone "per bene", le inumane condizioni dei detenuti non hanno a che fare né con il concetto di pena né con quello di rieducazione.

Pannella ci riprova. Approfittando del clima pre-elettorale tenta di gettare sul terreno del dibattito politico e parlamentare un tema scomodissimo per la classe politica. A modo suo, quella di Pannella è una modalità di comunicazione efficacissima, perché i politici e i mass media, non potendo ignorare che il leader radicale si sta letteralmente lasciando morire, sono costretti perlomeno ad accennare (approfondire sarebbe chiedere troppo) a una delle questioni cruciali per la civiltà di questo paese: il modo in cui vengono trattati i detenuti nelle nostre carceri. Pannella, come spesso in passato, spiazza, obbliga a inserire anche controvoglia tra una notizia e l'altra del tg un passaggio sul suo stato di salute e, con esso, un accenno alle ragioni della sua protesta non violenta.

Argomento letteralmente "osceno", quello della condizione delle nostre carceri, che mette molto in imbarazzo i nostri politicanti, tanto abituati a intrattenerci con le loro sottili strategie di alleanze o a indottrinarci sullo spread, molto meno a confrontarsi faccia a faccia con una condizione letteralmente inumana e degradante, che nulla ha a che fare con la dimensione della pena, sia nel suo aspetto retributivo (hai sbagliato, paghi) sia - a maggior ragione - in quello rieducativo, centrale in uno Stato democratico (Costituzione docet).

E, ammettiamolo, quello della condizione delle carceri è un tema osceno, che mette in imbarazzo non solo i politici ma un po' tutti noi persone "perbene", che con il carcere pensiamo che non avremo mai a che fare perché, d'accordo, dovremmo trattarli meglio questi detenuti, però... però, tutto sommato questi per finire in carcere qualcosa avranno pure fatto e in fondo in fondo questo trattamento se lo meritano.

E invece quando si parla di carcere e delle condizioni in cui vivono i detenuti andrebbe posto un rawlsiano "velo d'ignoranza" sulle ragioni per le quali quelle persone sono finite lì dentro. Gli sbagli, gli errori, i crimini di cui si sono macchiati i detenuti (peraltro non tutti, visto che quasi la metà dei detenuti è in attesa di giudizio definitivo, e 14 mila addirittura in attesa del primo grado) non hanno nulla a che vedere con le condizioni in cui sono condannati a scontare la loro pena.

Il ricorso al carcere andrebbe anzitutto drasticamente ridotto, depenalizzando tutti quei reati per i quali oggi si finisce in carcere (talvolta anche solo per pochi giorni) ma i cui autori non rappresentano un "pericolo" fisico per gli altri (basti pensare alla legge Bossi-Fini sull'immigrazione clandestina o alla Fini-Giovanardi sulle droghe). Una volta che il carcere sia divenuto una pena residuale, bisognerebbe trattare i detenuti con il massimo del riguardo: quello a cui sono condannati è la privazione della libertà, che mi pare già essere pena piuttosto gravosa senza la necessità di aggiungerci delle vere e proprie "pene accessorie" che però nessun giudice ha inflitto.

«Pena - diceva Aldo Moro rivolgendosi ai suoi studenti - non è la passionale e smodata vendetta dei privati, è la risposta calibrata dell'ordinamento giuridico e quindi ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta» (Il delitto della pena, a cura di Franco Corleone e Andrea Pugiotto, Ediesse 2012).

Cinzia Sciuto

CdV - Il dittatore dello stato libero del Vaticano

Il messaggio universale di "pace" del papa contro il diritto all'aborto, all'eutanasia e i matrimoni gay è degno di un capo di Stato assolutista. Ma tutto tace.

Sarà perché ci stiamo avvicinando al Natale, festa cristiana per antonomasia, sarà perché ci approssimiamo a un cambio di governo e quindi è bene mettere le cose in chiaro sin da subito, sarà perché la secolarizzazione sta strozzando una delle organizzazioni più vetuste del globo, fatto sta che in pochi giorni la Chiesa ha reso dichiarazioni che da sole basterebbero a riempire le cronache per un anno intero. E non si tratta di messaggi evangelici rivolti alle sue pecorelle, bensì di affermazioni che sconfinano nel civile (o incivile, dipende dai punti di vista), campo dal quale chi si prefigge di curarsi dell'anima dovrebbe tenersi rigorosamente distante. Non foss'altro, in Italia, per principio costituzionale.

Prima ha iniziato il cardinale Angelo Scola che, alla celebrazione di sant'Ambrogio a Milano, si è lasciato andare a una disamina sulla laicità. La neutralità dello Stato rispetto alle religioni, secondo il porporato, ne limiterebbe la libertà. Proprio così. Se avesse parlato un prete di periferia ci saremmo potuti chiedere se almeno avesse letto il vocabolario o quanto meno sapesse usare la logica; trattandosi di Scola, il pensiero va in altra direzione, più prosaicamente politica. Berlusconi, fido alleato di un tempo e ora scaricato come un imbarazzante ricordo, è di nuovo pericolosamente alle porte mentre il centro, sobrio e moderato se non addirittura crociato, ma fondamentalmente cattolico, si sta organizzando intorno a Mario Monti. È lì che bisogna puntare. Lo Stato non deve essere neutrale rispetto al cattolicesimo. Udite, centristi.

Ma ieri il papa, nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace, ha superato Scola e a dire il vero anche se stesso: aborto ed eutanasia, in quanto forme di «omicidio», sono contro la pace. E tentare di rendere il matrimonio tra un uomo e una donna «giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione» è «un'offesa contro la verità della persona umana» e «una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace».
Dunque, ragioniamo in modo semplice. Pace è il contrario di oppressione, autoritarismo, assolutismo e quindi di pensiero unico. Lo dimostra la storia se non bastasse la ragione. La pace, inoltre, va di pari passo con la libertà. Sempre se non fossero sufficienti sia la ragione sia la storia, un'occhiata alla mappa geopolitica del globo, concentrata sui paesi medio orientali, per l'appunto teocratici e quindi illiberali, lo dimostrerebbe inequivocabilmente anche a un osservatore distratto. Per finire, il concetto di libertà implica quello dei diritti individuali. La loro negazione porta al conflitto. La loro inclusione, al contrario, soddisfa tutta la ridda delle opinioni personali, incluse le religioni. Stare "in pace", in fondo, significa riconoscere agli altri il proprio diritto di essere diversi da sé.
Fatta questa premessa, torniamo a Benedetto XVI: «Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l'umanità». Cioè nella natura umana sarebbe riconoscibile, usando la ragione, l'avversità ad aborto, eutanasia e rapporti omosessuali. Ossia le persone ripudierebbero "naturalmente" la propria libertà di scelta. Forse dalla sua finestra su piazza San Pietro il papa ha poca visibilità sull'"umanità". Parla di ragione e principi universali, che in realtà sono solo cristiani e neanche di tutti i cristiani, ma per lui sono "comuni a tutti". Di disquisire sui bisogni, invece, se ne guarda bene. Tra quelli non primari, in effetti, la libertà è il primo. Ma non è compreso nella miope dottrina cattolica.

Se Benedetto si limitasse a (stra)parlare per i cittadini che rappresenta, non ci sarebbe nulla da eccepire. Invece si dà il caso che parli da capo di Stato, precisamente in qualità di monarca di Città del Vaticano, un paese assolutista col quale l'Italia ha una magnifica "amicizia" fatta di concessioni, legislative e fiscali, e regalie. Un paese che non ha firmato la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite né il suo equivalente europeo e neanche la moratoria internazionale per la depenalizzazione dell'omosessualità ma, anzi, benedice l'Uganda per la nuova leggeche punisce col carcere, fino all'ergastolo, il "reato" di rapporti "contro natura". Con questo Stato, un residuo di Medioevo che ci vive in pancia, noi italiani abbiamo rapporti eccellenti. Provate solo a immaginare il gelo istituzionale se un qualsiasi nostro Paese vicino, per bocca del suo presidente, avesse fatto le stesse osservazioni del papa. Nulla di nuovo sotto al sole: nel 2009, quando Benedetto XVI davanti alle popolazioni africane martoriate dalla piaga dell'Aids si scagliò contro l'uso dei preservativi che «aumentano i problemi», il nostro devoto parlamento tacque.
Ecco, il problema non è tanto ciò che dice Ratzinger. Non è l'unico detentore del potere assoluto al mondo, e i suoi "colleghi" internazionali non parlano in modo tanto diverso da lui. Il problema siamo noi italiani, che invece di rompere ogni rapporto istituzionale con uno Stato assolutista, ancora consentiamo a un ometto pateticamente antidemocratico, sessista, contrario al progresso, alla scienza e al diritto dell'individuo, e ai suoi graduati, di avere un posto di onore al nostro desco.

Cecilia M. Calamani

venerdì 21 dicembre 2012

Eurozona - Sopravvissuti al 2012

All’inizio dell’anno non tutti avrebbero scommesso che l’euro sarebbe arrivato al 2013. Le mosse di Mario Draghi e Angela Merkel hanno scongiurato il peggio, ma guai a pensare di essere fuori pericolo.

 José Ignacio Torreblanca 21 dicembre 2012 EL PAIS  Madrid

“Dimenticatevi del calendario Maya. È a Berlino che Cassandra sarà smentita o avrà la sua vendetta.” Con queste parole concludevo l’ultima rubrica dell’anno scorso. Sembrava un pronostico ma in realtà non lo era, perché ipotizzava due finali completamente opposti. E poi in fondo non diceva niente che già non sapessimo, perché da tempo eravamo consapevoli che tutte le strade portavano a Berlino (con fermata obbligatoria a Francoforte, sede della Banca centrale europea). Se recuperare quel mio articolo ha un senso, è quello di ricordare quanto siamo stati vicini all'abisso e capire meglio dove ci troviamo adesso.

Durante il 2011 una combinazione letale di indecisioni, pregiudizi, mancanza di leadership, divisioni tra paesi ed esasperante lentezza istituzionale è riuscita a trasformare una profonda crisi economica in una crisi esistenziale che ha messo a repentaglio la sopravvivenza dell'euro. In extremis la Banca centrale europea ha inondato il mercato di liquidità, arginando temporaneamente i problemi senza però risolverli definitivamente.

A novembre la cancelliera tedesca Angela Merkel, cosciente della gravità della situazione, aveva dichiarato pubblicamente che “se cade l'euro cade anche l'Europa”, ma le sue decisioni non hanno convinto nessuno della sua reale volontà di elevare questa retorica fino alle estreme conseguenze. Per questo motivo nel primo semestre di quest'anno alcuni operatori finanziari hanno smesso di speculare sulla sopravvivenza dell'euro e hanno fatto un ulteriore passo avanti, cominciando a prevederne il collasso.

La percezione che i mercati finanziari stavano cominciando a ricalibrare i debiti in euro ricorrendo alle monete nazionali, prefigurando in questo modo il day after del crollo della moneta unica, è stata la linea rossa di cui la Banca centrale europea aveva bisogno per mettersi in moto e l'argomento che il governo tedesco aspettava per vincere la resistenza di chi in Germania pensava ancora che Spagna e Italia avrebbero dovuto cavarsela da sole o uscire dall'euro.

Con le dichiarazioni rilasciate nel mese di giugno Mario Draghi ha lanciato un messaggio chiaro: “farò quello che devo fare, e credetemi, basterà”. A settembre il presidente della Banca centrale europea ha doppiato il colpo preparando un piano di acquisto di debito, e si è guadagnato con merito il titolo di uomo dell'anno [assegnato dal Financial Times]. Da allora qualunque operatore finanziario che intenda speculare sul crollo dell'euro sa che la scommessa è persa in partenza.

Come si dice spesso, però, dietro un uomo intelligente si nasconde una donna (in disparte e sorpresa). Angela Merkel, dopo aver trascinato i piedi per mesi e aver alimentato lo scetticismo nel suo paese con improvvide dichiarazioni sul sud dell'Europa, ha deciso di affrontare la Bundesbank (che aveva votato contro alcune iniziative) e ignorare i falchi del suo partito, ostili a qualsiasi tipo di compromesso sul debito pubblico o privato.

Da quel momento Merkel ha avallato il salvataggio bancario della Spagna e l'intervento della Bce per alleggerire la pressione sullo spread spagnolo e italiano, e successivamente ha accettato di cominciare a parlare di unione bancaria. In questo modo, tra giugno e settembre del 2012, è stato salvato l'euro. E questa è la buona notizia dell'anno.

Di nuovo nel bozzolo

La cattiva notizia è che nonostante l'euro sia stato salvato insieme ai suoi costituenti – persino l'uscita di scena della Grecia sembra ormai remota dopo mesi di speculazioni – il cammino che resta da percorrere è ancora estremamente complicato. Come dimostra il progetto di unione bancaria – rivisto al ribasso, rinviato e spezzettato nel corso di vari summit – una volta sparita la grande angoscia la politica europea è tornata quella di sempre.

E dunque sono tornate l'esasperante lentezza, la miopia e la mancanza di coraggio politico. Oggi sappiamo tutti cosa bisogna fare, ma è difficile spiegare come mai non lo stiamo facendo. Nel frattempo Merkel, che per qualche giorno si era comportata da vera leader, è tornata alla sua agenda nazionale dominata dalle prossime elezioni, come a ricordarci che le farfalle passano la maggior parte del loro tempo come brutte e insignificanti crisalidi, e soltanto una piccola parte meravigliandoci con il loro volo e i loro colori.

Il 2013 sarà un anno di transizione, dominato da due sensazioni contraddittorie: da un lato quella di essersi lasciati alle spalle l'abisso (visibile nel rilassamento dello spread e nella decisione del governo spagnolo di non chiedere un aiuto esterno) e dall'altro quella che le politiche di aggiustamento continuano a non funzionare, e non ci saranno stimoli esterni in grado di far crescere l'economia e creare posti di lavoro. Siamo vivi, ma in mezzo al deserto e con poca acqua. (Traduzione di Andrea Sparacino)

ITALIA - Alba dorata pure in Italia: «Pronti per le politiche»

Il segratario: «Ispirati da Mussolini, rubiamo voti a M5s e ai comunisti».

Venerdì, 21 Dicembre 2012 - Si dicono pronti a diffondere le proprie idee nelle fabbriche, aprendo sezioni alla popolazione e distribuendo alimenti ai poveri, oltre ad offrire assistenza agli imprenditori «strozzati da Equitalia».
REDATTO IL PROGRAMMA. Il partito di Alba dorata, il movimento estremista già presente in Grecia, è sbarcato in Italia. Ed è previsto sia presente alle elezioni politiche.
Venerdì 21 dicembre si è svolta la prima assemblea costituente a Roma per organizzare il partito e redarre il programma per candidarsi alle prossime elezioni.
Il segretario del partito, Alessandro Gardossi, ha spiegato: «Tra poco in Italia ci sarà una situazione simile alla Grecia, siamo vicini alla guerra civile. Puntiamo a quel 50% di elettori che non hanno ancora deciso se e chi votare».
POLITICHE SOCIALI DI MUSSOLINI UN RIFERIMENTO. Gardossi ha poi proseguito: «Stiamo portando via voti all'elettorato di Grillo. Ma a lui tendiamo una mano, se Grillo torna sui temi del ritorno alla lira, della lotta al signoraggio bancario e della riserva frazionaria siamo pronti ad un accordo con lui».
Alba dorata ha progettato un programma tentacolare che cerca di rastrellare voti tra le commensure dei partiti: «Vogliamo raccogliere consensi da Rifondazione comunista a Forza nuova e costruire una coalizione di salvezza nazionale. Abbiamo già una sede a Torino e a breve ne apriremo altre in tutta Italia. Il nostro elettorato - ha spiegato Gardossi - è tra i 35 e i 50 anni e a noi si avvicinano tantissimi piccoli imprenditori e disoccupati traditi dalle politiche del Pdl, tra noi c'è già un ex componente del Movimento 5 stelle. Le politiche sociali di Mussolini sono un nostro riferimento, ma non tutto il resto».

ITALIA - Monti e l'endorsement dei poteri forti


Finanza e Bce. Marchionne, Confindustria, Vaticano. Merkel e Obama. Chi vuole il Prof candidato.Il memorandum tecnico.

di Ulisse Spinnato Vega

Forse non basterà a convincerlo a scendere nell’agone politico, visto che in queste ultime ore le quotazioni di una sua candidatura a Palazzo Chigi sono in picchiata. Secondo un sondaggio Swg, se il 38% degli italiani ha fiducia in Mario Monti, il 60% pensa che non dovrebbe correre alle prossime elezioni.
Eppure fa impressione rilevare la concentrazione di cosiddetti «poteri forti», anzi «fortissimi», italiani e internazionali, che convergono a sostegno del Professore e che più o meno sottotraccia lavorano a una prosecuzione della sua esperienza di governo.

L'endorsement (ricambiato) di Marchionne


L’ultimo endorsement di cui si è molto discusso è quello dell’amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne. Il 20 dicembre il premier ha commentato entusiasta l’investimento di 1 miliardo di euro a Melfi.  
IL RAPPORTO TRA FIAT E ITALIA. «A Melfi nel 1993 è nata la Punto, oggi nasce punto e a capo, cioè una svolta, una ripartenza nel rapporto tra la Fiat e l'Italia», ha detto il Prof tra gli applausi degli operai. «Quello che accade qui non è magico ma è emblematico della svolta possibile in Italia. È quello che vorrei per il Paese».
UN FEELING MAI INTERROTTO. A dire il vero, il feeling tra il manager italo-canadese e il professore non si è mai interrotto, neppure nei giorni - era settembre - delle polemiche burrascose governo-Lingotto sull’abbandono del piano Fabbrica Italia. Abbandono del piano Fabbrica Italia.
Non a caso, allora, il duellante per conto dell’esecutivo fu il ministro allo Sviluppo Corrado Passera, mentre Monti si guardò bene dall’attaccare frontalmente il gruppo torinese.
«CORAGGIO E LUNGIMIRANZA». In fondo, il premier apprezza l’accelerazione, pur brusca, imposta da Marchionne al dibattito sulla riforma della contrattazione. E il numero uno Fiat ha sempre ricambiato con parole al miele: «L’agenda del suo governo dimostra coraggio e lungimiranza e mi auguro che chiunque avrà la responsabilità di gestire il Paese prosegua sulla stessa strada». Come a dire che l’ideale sarebbe Monti dopo Monti.

Confindustria, Squinzi: «Monti legittimato dal voto va benissimo»


Con Monti si è schierato anche il fronte degli industriali. Gli imprenditori chiedono soprattutto stabilità, decisioni e riforme. Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi non ha certo risparmiato critiche, allarmi e punture di spillo sulla situazione attuale del Paese, eppure la corrente montiana in Viale dell’Astronomia è nettamente maggioritaria (almeno a livello di alte gerarchie).
Non a caso a ottobre il numero uno degli industriali rispondeva così a una domanda sull’ipotesi di un Monti-bis dopo le elezioni: «Con la legittimità del voto per me va benissimo».
IL SOSTEGNO DELLA CISL. Il Professore ha incassato non solo l'appoggio dei «padroni», ma anche di alcune sigle sindacali. Tra i confederali, eccezion fatta per la Cgil che sta nettamente dalla parte del ticket Bersani-Vendola, l’appoggio forte al professore dal mondo del lavoro proviene dalla Cisl di Raffaele Bonanni. Il sindacato centrista è naturalmente collocato su posizioni di riformismo moderato di stampo cattolico e il segretario è tra i protagonisti del milieu montezemoliano che sponsorizza una discesa in campo diretta del premier.

Passera, il sostegno della finanza e le banche italiane


A parte il soccorso provvidenziale del governo al Monte dei Paschi di Siena sotto forma di 3,9 miliardi di Monti-bond, è chiaro che il settore del credito guarda con favore all’esperienza del governo tecnico, fosse solo per l’effetto di stabilizzazione e riduzione dello spread che sta migliorando anche le condizioni di raccolta e di finanziamento delle banche.
LE TEORIE COSPIRAZIONISTE. Al di là di alcuni provvedimenti di sostegno (per esempio le garanzie governative su obbligazioni e passività bancarie e Imu ammorbidita), al di là della presenza nel governo di un ex banchiere come Corrado Passera e al netto di tutte le teorie più o meno cospirazioniste che vedono in Monti la longa manus del potere finanziario italiano e internazionale, di certo gli istituti di credito chiedono una continuazione di quanto fatto in questo 2012.
A confermarlo l'appello di Federico Ghizzoni, ceo di Unicredit: dalle prossime elezioni «deve uscire un governo solido e con garanzie di continuità». A buon intenditor poche parole.

Mario Draghi e il gioco di sponda con la Bce


Va da sé che la sintonia con il mondo del credito italiano è connessa alle sinergie che il governo Monti ha saputo intavolare in questi mesi con la Banca centrale europea.
OBIETTIVO CRESCITA. Se per molti, compreso una buona fetta di Pdl, il SuperMario salva-Ue non è il Professore ma Draghi, è indubitabile che i due abbiano giocato di sponda per imporre nel dibattito europeo i temi della crescita e della solidarietà tra Paesi accanto ai dogmi della stabilità e del rigore fiscale di marca tedesca.
UN GIOCO DI SQUADRA. Draghi naturalmente non si sbilancia mai con endorsement politici, ma finora è venuto da Francoforte il più grande sostegno sostanziale alle scelte di Palazzo Chigi. Senza il piano Omt (Outright monetary transactions, ndr) annunciato la scorsa estate dal presidente Bce, infatti, gli spread non sarebbero mai scesi ai livelli desiderati da Monti (trofeo da esibire in un'eventuale campagna elettorale).
E, tuttavia, senza le riforme avviate dal Professore (e dagli altri Paesi euro-deboli), il banchiere centrale non avrebbe mai messo sul tavolo il suo bazooka a protezione dei debiti sovrani della moneta unica.

Il pressing del Ppe, da Merkel a Barroso


Oltre alla Bce a spendersi per il Prof pare essere l'Europa tutta. L’endorsement del Ppe al premier è risultato nei giorni scorsi fin troppo smaccato e pressante. Lo stesso Silvio Berlusconi è apparso spiazzato ed è risultato maldestro il suo tentativo di rigirare la frittata, sostenendo di essere stato lui a volere Monti al vertice dei popolari.
Da Angela Merkel a José Manuel Barroso, da Wilfried Martens a Jean-Claude Juncker tutti chiedono garanzie sul futuro impegno dell’ex rettore bocconiano per il bene dell’Italia.
HOLLANDE STRIZZA L'OCCHIO. E persino il presiente francese socialista François Hollande, che pure flirta con il segretario del Pd Pier Luigi Bersani per ovvi motivi culturali, una decina di giorni fa ha così commentato le dimissioni improvvise del premier: «È un peccato sul breve termine, ma nel giro di un mese o due apparirà chiaro che Monti sarà in grado di unirsi a una coalizione o di andare avanti a stabilizzare l'Italia».

Il rapporto privilegiato con Barack Obama


Volando Oltreoceano, è da tempo che il presidente Usa Barack Obama considera Monti un interlocutore privilegiato. Il rapporto personale tra i due è tanto buono quanto era difficile quello dell'inquilino della Casa Bianca con l’ex premier Berlusconi.
Obama ha sempre appoggiato i tentativi del Prof di imporre il tema della crescita (e degli eurobond) nel dibattito economico in seno all’Ue e già in febbraio diceva: «Ho piena fiducia nella leadership di Monti e spero possa traghettare l'Italia attraverso questi tempi difficili».

I petrolieri arabi e la partnership con il Qatar


Sempre in ambito internazionale, la recente missione del Professore negli Emirati arabi ha fruttato una golosa partnership della Cassa depositi e prestiti (attraverso il Fondo strategico italiano) con il fondo sovrano Qatar Holding.

GLI INVESTIMENTI ESTERI. Ma agli sceicchi Monti piace soprattutto per l’avvio di quelle riforme che dovrebbero creare in Italia un ambiente più favorevole agli investimenti esteri. E soprattutto apprezzano la lotta del premier al fenomeno della corruzione, considerata un ostacolo gravissimo all’impiego di capitali nella Penisola.
L'emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani non lesinò complimenti durante la visita del bocconiano: «Sono lieto di incontrarla a capo di un governo tecnico che in così breve tempo è riuscito a riportare l'Italia al livello che merita, soprattutto sul piano economico».

La Chiesa benedice un Monti bis


Infine c’è il Vaticano che gioca sempre la sua partita, più o meno sotterranea, per influire sui destini politici del Paese. Scaricato il Cavaliere per gli stili di vita non proprio francescani e accantonato Pier Ferdinando Casini per la sua vetusta irrilevanza (da tempo i porporati chiedono un ricambio del ceto politico cattolico), la Santa Sede vede da tempo in Monti l’uomo che può rappresentare al meglio le istanze d’Oltretevere nei Palazzi del potere temporale.
L'AFFINITÀ CON IL MONDO CATTOLICO. Le morbidezze del premier sull’Imu agli enti cattolici, il suo modus vivendi da fedele praticante, la sobrietà dei modi, le citazioni di De Gasperi: sono tanti i motivi che spingono la Chiesa a credere che il premier potrebbe essere un ottimo federatore del centro. Nella speranza, chissà, che dal suo operato possa rinascere qualcosa che assomigli alla cara, vecchia Democrazia cristiana. Non è un caso che a sostenere Monti nella sua eventuale corsa ci siano personaggi come il ministro alla Cooperazione Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant'Egidio, e il presidente delle Acli Andrea Olivero. Senza contare del'appoggio di una fetta di Comunione e liberazione pronta a lasciare il Pdl.

giovedì 20 dicembre 2012

ITALIA - Ingroia, furbetto in toga

Diceva di non voler scendere in politica. Ora ha cambiato idea. Forse. Intanto dal Csm è arrivato il sì all’aspettativa.

di Giancarlo Perna

Dunque, pare, si dice, ma non è certo, che il pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia si candidi alle prossime elezioni. Dal Guatemala, dov’è da un mese in missione Onu, ha fatto pervenire al Consiglio superiore della magistratura una richiesta di aspettativa (il sì dal Csm è arrivato mercoledì 19 dicembre).
Ma non una domanda normale in cui si dica «intendo per un certo periodo fare questo e quest’altro e chiedo perciò di lasciare temporaneamente il mio lavoro».
Troppo lineare per Ingroia, che ha infatti chiesto “un’aspettativa cautelativa” (inventata da lui di sana pianta) poiché «non ho ancora deciso di candidarmi» (nel quarto Polo, tra gli arancioni, sembra).
STUDIARE SE CI SONO LE CONDIZIONI. Il signorino, infatti, vuole guardarsi attorno, studiare se ci sono davvero le condizioni, se la sua candidatura sarà gradita e, in ultima analisi, andare sul sicuro per scongiurare brutte sorprese, tipo un'ingloriosa trombatura. Se poi l’indagine di mercato sortisse risultati negativi, il pm dirà: «Mi sono sbagliato, come non detto, torno in Guatamela, tanti saluti e grazie».
Questo è prendere per i fondelli il prossimo. Ingroia fa politica (di sinistra giustizialista) da anni, dividendosi indistintamente tra aule giudiziarie, talk show televisivi, congressi di partito e tavole rotonde.
L'ARTE DI NEGARE FINO ALLA FINE. Ma tutte le volte che gli è stato chiesto se intendeva lasciare le aule tribunalizie per seguire le proprie ubbie, ha replicato con aria offesa che mai e poi mai.
«Io rivendico il mio diritto, come cittadino e anche come magistrato, di esprimere opinioni senza reticenze; ciò non significa però preferire la politica alla toga».

Meglio definirsi un «partigiano della Costituzione»


Questa è la solfa che ha ripetuto per anni, ogni volta che gli è stato fatto notare come andare in congressi di partito (nel 2011, alle assise dei Comunisti italiani se ne uscì col celebre motto: «Non sono imparziale. Anzi, mi sento partigiano, sono un partigiano della Costituzione»), schierarsi in tivù o nelle interviste, intorbidisse la sua figura di magistrato tenuto alla terzietà.
POLITICA SÌ, SEGGI PARLAMENTARI NO. Insomma, mentre tutti capivano che friggeva per la politica, Ingroia negava caparbiamente. Tanto che, 48 ore prima della domanda al Csm, a Ballarò (in videoconferenza dal Centro America) aveva detto: «Non voglio candidarmi. Non ho bisogno di seggi parlamentari, ma voglio fare politica anche da magistrato».
Tralasciando l’orrore di questa dichiarazione che straccia l’idea stessa dell’imparzialità nelle aule giudiziarie, era un “no” netto e chiaro. Oggi sappiamo che era una bugia. L’ennesima.
LA LISTA DEGLI IMPEGNI NON MANTENUTI. Adesso che, finalmente, il 53enne pm palermitano ha gettato la maschera, possiamo inquadrarlo meglio. Innanzitutto, rientra nella schiera degli uomini che prendono impegni che poi non mantengono. Da nemmeno un mese, Ingroia aveva assunto in Guatemala la direzione della lotta al narcotraffico per conto delle Nazioni unite.
Per farlo, aveva ottenuto il benestare del Csm, lasciato le inchieste alla procura di Palermo e, soprattutto, ci aveva fatto per mesi una “capa tanta” su questa missione, traendone lustro e inviti in tivù.
Ora molla tutto, come niente fosse. Immagino che i guatemaltechi e l’Onu non credano ai propri occhi e che, appena se ne faranno una ragione, considereranno Ingroia un “quaquaraquà”, estendendo il giudizio d’inaffidabilità a tutti noi, suoi concittadini nostro malgrado.

Una scelta che mette in difficoltà l'Italia davanti al mondo


Farla così grossa, si era raramente visto. Tra i tanti disastri ai quali assistiamo, eravamo abituati a sindaci che lasciano in anticipo l’incarico per diventare leader politici nazionali (Rutelli e Veltroni tra gli altri), eurodeputati che se ne vanno a metà mandato per tornare in tivù (Michele Santoro, Lilli Gruber) o per fare i primi cittadini all’ombra del Vesuvio (De Magistris), ma erano brutte cose che restavano tra noi.
Ingroia, invece, ci mette in braghe di tela di fronte al mondo. Urge viaggio riparatorio in Guatemala del marchese Terzi di Santagata, per presentare le nostre scuse a quella nobile nazione con la solenne promessa che mai più il nostro incosciente connazionale sarà abilitato a rappresentarci oltre confine.
MAGISTRATURA TRAMPOLINO DI LANCIO. L’altra conseguenza della decisione ingroiana di candidarsi (sempre che si siano capite con esattezza le sue intenzioni) è che va ad arricchire la lista dei magistrati che hanno fatto della loro attività giudiziaria il trampolino di lancio per un comodo seggio parlamentare a ventimila euro il mese. Alla Totò Di Pietro, per intenderci.
Tutte le sue inchieste - giuste o sballate che siano, da quelle su Dell’Utri, sul Cav, sulla trattativa Stato-mafia - diventano, col senno di poi, solo pennacchi per catapultarsi in politica.
INCHIESTE PER CATTURARE L'ELETTORATO. Nasce anzi il sospetto che le abbia volute tanto più clamorose e azzardate proprio per diventare popolare e conquistarsi automaticamente un elettorato. Alla Di Pietro, alla De Magistris e, un domani, chissà, alla Woodcock.
Il discorso sull’«aspettativa cautelativa» di Antonio Ingroia può finire qui.
L’essenziale è detto. Resterebbe da passare al vaglio la sua attività di magistrato per catalogarlo tra i seri o i disastri. Ci vorrebbe un altro articolo.
Una cosa si può dire. Ingroia non crede che le proprie istruttorie siano così essenziali da doverle lui stesso portare a termine. Infatti, le ha abbandonate per altro. Tirate le somme, meglio che un opportunista stia in politica che in magistratura.