Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


sabato 22 dicembre 2012

ITALIA - Carceri italiane: la punizione diventa vendetta

Argomento imbarazzante per le persone "per bene", le inumane condizioni dei detenuti non hanno a che fare né con il concetto di pena né con quello di rieducazione.

Pannella ci riprova. Approfittando del clima pre-elettorale tenta di gettare sul terreno del dibattito politico e parlamentare un tema scomodissimo per la classe politica. A modo suo, quella di Pannella è una modalità di comunicazione efficacissima, perché i politici e i mass media, non potendo ignorare che il leader radicale si sta letteralmente lasciando morire, sono costretti perlomeno ad accennare (approfondire sarebbe chiedere troppo) a una delle questioni cruciali per la civiltà di questo paese: il modo in cui vengono trattati i detenuti nelle nostre carceri. Pannella, come spesso in passato, spiazza, obbliga a inserire anche controvoglia tra una notizia e l'altra del tg un passaggio sul suo stato di salute e, con esso, un accenno alle ragioni della sua protesta non violenta.

Argomento letteralmente "osceno", quello della condizione delle nostre carceri, che mette molto in imbarazzo i nostri politicanti, tanto abituati a intrattenerci con le loro sottili strategie di alleanze o a indottrinarci sullo spread, molto meno a confrontarsi faccia a faccia con una condizione letteralmente inumana e degradante, che nulla ha a che fare con la dimensione della pena, sia nel suo aspetto retributivo (hai sbagliato, paghi) sia - a maggior ragione - in quello rieducativo, centrale in uno Stato democratico (Costituzione docet).

E, ammettiamolo, quello della condizione delle carceri è un tema osceno, che mette in imbarazzo non solo i politici ma un po' tutti noi persone "perbene", che con il carcere pensiamo che non avremo mai a che fare perché, d'accordo, dovremmo trattarli meglio questi detenuti, però... però, tutto sommato questi per finire in carcere qualcosa avranno pure fatto e in fondo in fondo questo trattamento se lo meritano.

E invece quando si parla di carcere e delle condizioni in cui vivono i detenuti andrebbe posto un rawlsiano "velo d'ignoranza" sulle ragioni per le quali quelle persone sono finite lì dentro. Gli sbagli, gli errori, i crimini di cui si sono macchiati i detenuti (peraltro non tutti, visto che quasi la metà dei detenuti è in attesa di giudizio definitivo, e 14 mila addirittura in attesa del primo grado) non hanno nulla a che vedere con le condizioni in cui sono condannati a scontare la loro pena.

Il ricorso al carcere andrebbe anzitutto drasticamente ridotto, depenalizzando tutti quei reati per i quali oggi si finisce in carcere (talvolta anche solo per pochi giorni) ma i cui autori non rappresentano un "pericolo" fisico per gli altri (basti pensare alla legge Bossi-Fini sull'immigrazione clandestina o alla Fini-Giovanardi sulle droghe). Una volta che il carcere sia divenuto una pena residuale, bisognerebbe trattare i detenuti con il massimo del riguardo: quello a cui sono condannati è la privazione della libertà, che mi pare già essere pena piuttosto gravosa senza la necessità di aggiungerci delle vere e proprie "pene accessorie" che però nessun giudice ha inflitto.

«Pena - diceva Aldo Moro rivolgendosi ai suoi studenti - non è la passionale e smodata vendetta dei privati, è la risposta calibrata dell'ordinamento giuridico e quindi ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta» (Il delitto della pena, a cura di Franco Corleone e Andrea Pugiotto, Ediesse 2012).

Cinzia Sciuto

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