Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


venerdì 28 giugno 2013

ITALIA - Costi politica: Corte dei Conti, i 143 mila politici costano 1,9 miliardi


La cifra, in pratica, è identica ai soldi che servirebbero al governo Letta per rimandare fino a dicembre l'aumento dell'Iva. O a dimezzare l'Imu sulla prima casa. O ancora, a finanziare due piani lavoro come quello del ministro Giovannini appena approvato. In Italia nel 2012 i politici di "professione" erano ben 143 mila e, tra stipendi, indennità, rimborsi spese ed altro, sono costati alle pubbliche casse 1,9 miliardi di euro. Il dato emerge dalla Relazione di parificazione del Bilancio dello Stato appena approvata dalla Corte dei Conti.    

I magistrati contabili hanno riconosciuto che nell'ultimo anno qualcosa si è mosso sul fronte dei costi della politica. I finanziamenti ai partiti politici sono stati dimezzati, Camera e Senato hanno tagliato le diarie e gli emolumenti, hanno riformato i vitalizi introducendo il sistema contributivo, hanno tagliato le spese degli immobili. La relazione non riporta, ovviamente, il disegno di legge del governo sulla riforma dei finanziamenti ancora in discussione in Parlamento, ma lancia comunque un avvertimento sulla revisione dei costi dell apolitica. "Ciò", scrive la Corte, "richiede, invero, una riforma attenta e globale, rispettosa non solo della riduzione della spesa pubblica, senz’altro necessaria e indispensabile, ma anche garante della democrazia".

mercoledì 26 giugno 2013

UE - Massacriamo i poveri!


Un’espressione ossessiona la nuova lingua [gergale] del giorno d’oggi: «riforme strutturali». Occorre dunque credere che vi sono altre riforme, più anodine, ma che non si saprebbe come prendere in giro a confronto con le «riforme strutturali», tanto profonde, vitali e senza dubbio dolorose. La definizione serve a designare le misure destinate ad accrescere la flessibilità del lavoro, a ritardare l’età del pensionamento, a diminuire le prestazioni sociali, a fare calare le spese dello Stato, a diminuire le imposte e i salari.

«Massacriamo di botte i poveri!», ingiungeva crudelmente Charles Baudelaire nel suo Spleen de Paris (1869). In questa grottesca favola, scritta fra il 1864 e il 1865, non ci proponeva di massacrarli per sbarazzarcene, ma per salvarli. Il suo personaggio, «disincantato dalle promesse» di un periodo di ottimismo, si mette a riempire di botte un vecchio mendicante, invece di dargli l’elemosina. Sorpresa! «L’antica carcassa» si ribella e restituisce allora i colpi in un modo tanto convincente che l’aggressore divide con lui volentieri i suoi beni. Baudelaire ci ha indicato la via migliore per uscire dalla miseria?

Massacrare di colpi i poveri, la soluzione non pare tanto assurda ai «riformatori strutturali», a questi nuovi «imprenditori della felicità pubblica» (1). Essi assicurano ogni giorno, attraverso sondaggi e sermoni, che l’accumulazione privata è il mezzo migliore per garantire lavoro ai poveri, per partecipare all’arricchimento collettivo. Prendono in giro le resistenze e le paure, vani tentativi di andare contro la necessità. Dopo una tale orgia di argomentazioni, come potrebbero i poveri non accettare di essere massacrati di botte per il loro bene? Come un tempo l’Inquisizione, che prometteva ai peccatori un guadagno futuro (il paradiso o la prosperità) al prezzo di una pena attuale, si ingiunge loro, per ottenere domani qualche beneficio, di fare oggi il sacrificio. Ma davanti alla responsabilità di agire, o di morire, eccoli infine comandati, questi assistiti, questi imbroglioni, di cavarsela con l’iniziativa e il coraggio! Così parlano gli avversari della redistribuzione: Disoccupati? Create la vostra impresa. Disoccupati? Lavorate.

Il narratore del poemetto in prosa, magari raggirato per qualche anno da mercanti d’illusioni dalle due sponde - «di quelli che consigliano a tutti i poveri di farsi schiavi e di quegli altri che li persuadono di essere tutti re detronizzati» - sembra un po’ meno povero del vecchio mendicante con cui se la prende. Gli sarà tanto più facile spartire i suoi beni dal momento che ne ha pochi. Entrambi sono stati ingannati, entrambi condividono la medesima violenza nella miseria, ennesima illustrazione dell’adagio popolare che vuole i miserabili picchiarsi fra loro invece di prendersela con i ricchi. La favola di Baudelaire tutto sommato è realista e pessimista, quando oggi ci si stupisce della mancanza di reazione alla crisi. La chiamata in causa dell’assistenza sociale, dell’immigrazione, del parassitismo sociale non sono forse comodi paraventi che portano i poveri a prendersela con i poveri? Quanto più grande è la paura del declassamento sociale, tanto maggiore è l’odio contro coloro che presentano l’immagine di una prossima caduta o di un lento declino. La realtà dei ricchi è, per quanto riguarda i poveri, ben più lontana… e ha almeno il vantaggio di offrire sogni per occupare le notti e i giochi.

A meno che questa favola non sia paradossalmente ottimista. Dopo tutto, i suoi poveri protagonisti si accordano per reagire alla loro miseria. Certo che sono venuti alle mani, ma la violenza agisce su di loro come una rivelazione. Che cosa occorre perché la verità della depredazione esca dall’apatia? Indubbiamente i disastri della storia hanno guarito da un bel po’ d’illusioni rivoluzionarie, ma non è forse peggio sopportare la violenza con cognizione di causa? Questa potrebbe essere la sostanza della favola e la sua lezione per il nostro tempo, quando le cose non sono state mai tanto chiare circa la violenza, l’arricchimento dei più ricchi e l’impoverimento dei più poveri. La crisi giustifica sforzi e sacrifici, si sente proferire dagli apostoli delle riforme strutturali. Ciò che essi non dicono è che questo appello è implicitamente indirizzato ai poveri. Poi si viene a sapere, da una graduatoria di Forbes o da un’altra di Fortune, che il numero dei miliardari aumenta ogni anno, come anche il loro patrimonio individuale; si apprende che le azioni delle imprese quotate [in Borsa] conoscono rialzi ben superiori a quelli del loro fatturato, che le rimunerazioni e le indennità dei dirigenti aumentano mentre addirittura non ci sono utili, e i richiami alla moderazione restano senza risposta. I ricchi non sarebbero tanto numerosi né abbastanza ricchi per condividere il fardello e la loro ricchezza non avrebbe quindi alcun nesso con l’impoverimento degli altri? Chiedere sacrifici ai più impoveriti lasciando libertà d’azione ai più ricchi ha qualcosa di strabiliante.

Baudelaire, che aveva partecipato alle speranze del 1848, circondato da quei «libri dove si tratta dell’arte di rendere i popoli più felici, saggi e ricchi in ventiquattr’ore», fu anch’egli tramortito dalle giornate di giugno 1848, che videro l’esercito della Repubblica massacrare gli operai. Poi ci fu il colpo di Stato del dicembre 1851. La sua posizione oscilla fra la rivolta e lo spleen, di fronte all’interminabile sottomissione. Egli ne fu completamente «depoliticato», scriveva allora nella sua corrispondenza (2). Oggi si direbbe spoliticizzato. Non lo era completamente, a meno che non si possa mai esserlo definitivamente.

NOTE

(1) Op. cit.
(2) Lettera al signor Ancelle del 5 marzo 1852

Alain Garrigou, Le Monde Diplomatique

ITALIA – Giuliano Ferrara dichiara: “Siamo tutti puttane”. Parli per sé, grazie


“Siamo tutti puttane” sostiene il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara. E si spalma sulla bocca il rossetto rosso-fuoco per difendere Silvio Berlusconi, condannato a 7 anni più interdizione perpetua dai pubblici uffici per prostituzione minorile e concussione. Accade in un video di 20 secondi, trasmesso sul canale Youtube del Foglio.it. L’intento provocatorio si trasforma in effetto triviale, spiacevole in un signore d’età, direttore di un quotidiano nazionale. Ma, al di là di ogni ragionamento e valutazione, è un gesto che colpisce e fa riflettere sullo stato di alcuni media. Un gesto – come definirlo – futurista? Meglio situazionista? O trasgressivo? Una goliardata oppure un beau geste, almeno nelle intenzioni iniziali? Probabilmente una grande puttanata.

A meno di 24 ore da un annuncio surreale su Twitter (#siamo tutti puttane. con il rossetto rosso contro l’ingiustizia penale, contro il moralismo acido e ipocrita, contro l’abuso politico mediatico e giudiziario) Ferrara passa alle vie di fatto. All’ordine del giorno “la pronuncia su una questione culturale e morale che sta alle radici degli ultimi vent’anni di vita pubblica in Italia”.“Siamo tutti puttane”. Parli per sé, grazie. Ennesima provocazione o ennesima verità urlata? Me lo chiedo come se lo chiedono “quei brutti puritani, che attaccano il Cavaliere, solo perché ha invitato a cena delle belle ragazze che hanno il piacere di stare con lui… Non potete trasformare in reato un comportamento che onora lo spirito italiano! Non è reato essere Berlusconi”, dice Ferrara. E ha ragione: è reato fare come fa Berlusconi, con l’aggravante di farlo ricoprendo cariche istituzionali di massimo livello, in rappresentanza di tutti gli italiani.

In piazza Farnese a Roma la sera del 25 giugno, all’indomani della sentenza Ruby, Ferrara gesticola da un piccolo palco montato su un camion rosso della Iveco. Alle sue spalle un maxi striscione: “Siamo tutti puttane, no all’ingiustizia puritana”. A fianco una sagoma del Cavaliere e una grande fotografia dell’ex leader egiziano Mubarak, messa lì a strizzare l’occhio: insomma, ci fate o ci siete? Il comizio si tiene proprio sotto le finestre dell’ambasciata francese: è in corso un ricevimento, 700 invitati a scopo di beneficenza. Diversi funzionari assistono alla scena. Il direttore del Foglio, intanto, lancia strali contro le toghe milanesi: “Si devono vergognare per quello che hanno fatto. Questo è un piccolo show del nostro scontento, perché ieri è stata commessa un’ingiustizia. Siamo tutti responsabili di un’Italia che non produce giustizia”. Sì, siamo tutti responsabili. Anche per chi non lo è.

A sorpresa nella piazza romana si materializza la fidanzata di Berlusconi, Francesca Pascale, subito attorniata da un nugolo di cronisti e telecamere. “Mi sento offesa da una magistratura malata”, afferma contrita, i capelli tirati in grande toilette. Qualcuno si spinge a chiederle “Si sente una puttana anche lei?”. “Io non mi sento una puttana e non lo è neanche Ruby”, risponde pronta la signora, intervenuta “all’insaputa del Cavaliere” per ”protestare contro la giustizia italiana”. Tra i parlamentari ci sono Denis Verdini, Fabrizio Cicchitto, Giancarlo Galan, Daniele Capezzone, Ignazio Abbrignani, Lucio Malan, Maurizio Lupi e Stefania Prestigiacomo. Dal palco ora parla Daniela Santanchè promettendo futuri, più consistenti, sfracelli contro i ‘talebani’ della giustizia: “Mi sono vergognata di essere italiana dopo questa sentenza”. Pure noi.

Dopo tocca ad Anselma Dell’Olio, moglie di Giuliano Ferrara, che attacca “le false femministe” di Se non ora quando: “Ma finiamola di farci ossessionare dal pisello di Berlusconi!”, commenta esplicita. “Le Olgettine sono meglio e meno ipocrite di quelle che si fanno scopare gratis dai parrucconi di sinistra sposati”. Loro, le papi-girls, non sono arrivate da Milano anche se erano invitate: chissà, magari la prossima volta. Comunque il cronista del Foglio titola il pezzo di giornata “Cronache dal puttanesimo fogliante” e poi via, spedito e giulivo: “Pitonesse, elefanti e pin-up sculettanti”. Contenti loro…

Grandi battaglie, grandi idee, grandi nomi: una volta il giornalismo era anche questo. Forse Ferrara l’ha dimenticato. Oggi è anche altro: un’indegna gazzarra, una pagliacciata per farsi corifei del regime e difendere ciò che è indifendibile secondo giustizia, misura e buon senso. Che informazione vuole dare il direttore del Foglio? “Siamo tutti puttane”. Ma le prostitute (quelle vere, in carne e ossa) non ringraziano. Nulla è più lontano da loro, dalla loro realtà. Più che un gesto eccentrico quello di Ferrara sembra un gesto estremo. Quello di un clown triste giunto a fine recita.

Rossella Guadagnini

UE - Il Paradiso amaro che ci lascia Bernanke


Dopo aver condotto una spregiudicata politica monetaria espansiva per rilanciare l'economia Usa Ben Bernanke ha annunciato di voler "sollevare il piede" dall'acceleratore. Ma con i tassi di interesse in risalita gli investimenti soffriranno in tutto il mondo. Torna lo spettro del default nei paesi della periferia europea?

Lunedì scorso, il presidente Barack Obama ha dato un benservito nemmeno tanto cortese a Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve che Bush aveva nominato nel 2005, a sostituire l'ormai troppo provato Alan Greenspan, che resisteva dal lontano 1987 e aveva visto più crisi di qualsiasi altro presidente della Fed. La nomina di Bernanke con effetto dal gennaio 2006 lo vedeva lasciare il posto di capo dei consiglieri economici di Bush, incarico al quale lo stesso Bush lo aveva chiamato nel 2004, togliendolo alla sua cattedra a Princeton. Bernanke aveva scritto un importante saggio sulla politica della Fed nella Grande Depressione degli anni trenta. Bush sembrava dunque dotato di poteri profetici sulla fine che le sue folli politiche di guerra avrebbero fatto fare di lì a poco all'economia Americana.

Obama ha dichiarato che Bernanke aveva reso il suo servizio alla Fed e alla nazione anche oltre quello che lo stesso Bernanke voleva come termine ultimo. Era dunque tempo di un avvicendamento. Una dichiarazione scontata ormai da parecchi mesi, ma il modo in cui è venuta era inatteso. E' sembrato, come alcuni commentatori hanno notato, un licenziamento vero e proprio. Perché un cambiamento di toni e modi così repentino?

Il 22 maggio Bernanke aveva reso una testimonianza al Comitato economico congiunto del Congresso, dove anche lui era stato assai poco cerimonioso nei confronti sia del governo che della opposizione. Li aveva senza molte cerimonie accusati entrambi di rendere più difficile il compito dellaFed, impegnata nella sua politica di rilancio dell'economia mediante un uso assai spregiudicato di metodi non ortodossi di spinta monetaria. Il compito di fronte al perdurare della crisi era, per tutte le autorità economiche americane, quello di far tornare il livello della disoccupazione sotto il 6,5% , cioè in un territorio simile a quelli dei tempi normali, quando un 5% è considerato soddisfacente, e il livello dei prezzi a quel 2-3% anch'esso ritenuto normale.

Ma, disse Bernanke a governo e opposizione, con le vostre ridicole liti sull'esercizio provvisorio, alla irresponsabile ricerca di vantaggi elettorali a tutti i costi, e con le risultanti misure obbligate di 'sequestro' della spesa pubblica, avete costretto la Fed a continuare la sua politica di iniettare 85 miliardi di dollari mensili nel sistema finanziario americano con notevoli pericoli per la stabilità economica degli Stati Uniti nel medio e lungo termine.

Nelle parole di Bernanke si avvertiva una forte impazienza nei confronti di un sistema politico degradato. La stessa che spesso si nota nelle parole di un altro banchiere centrale, Mario Draghi, che pure ha dovuto esercitare funzioni vicarie della politica, per una divisione - invece che tra repubblicani e democratici - tra paesi dell'Euro che si ritengono saggi e morigerati e obbligati a sostenere la malagestio della cosa pubblica da parte dei paesi dell'Europa mediterranea, con la Francia che oscilla tra i due blocchi e la Gran Bretagna che, fuori dell'Euro, fa la stessa cosa.

In effetti, nella testimonianza al Congresso, Bernanke rispediva al mittente le accuse di incompetenza rivolte alla Fed e al suo timoniere da quelli che vedono la disoccupazione ferma ormai bel oltre il 7% (specie se si considerano anche i due milioni di americani che sono usciti dalla forza lavoro con la crisi e non ci sono ancora rientrati) e un tasso di inflazione che è ben inferiore al 2%. Sono evidentemente accuse che bruciano Bernanke, ormai conscio del fatto che dall'inizio del 2014 qualcun altro sederà al suo posto - con ogni probabilità la sua vice Janet Yellen - e che le due cifre che ho appena citato, aggiunte ad un precarissimo equilibrio raggiunto a grave costo nel sistema finanziario americano, faranno impallidire la sua imagine di timoniere della Fed in tempi difficili, una immagine che ormai sembrava acquisita, dopo la politica monetaria estremamente attivista e anti convenzionale che non solo aveva condotto negli anni della crisi esplosiva, ma che aveva anche trasmesso ai suoi colleghi in Europa e Giappone. Dopo il benservito di lunedì, Bernanke si deve essere sentito veramente tradito dall'intera classe politica che aveva salvato dal precipizio del 2008-2009. Anche il presidente democratico che aveva rinnovato l'incarico per altri quattro anni a lui, dichiaratamente repubblicano (come d'altronde, in condizioni solo poco meno gravi, aveva fatto Clinton per il repubblicano fondamentalista Greenspan), lo metteva alla porta dandogli sei mesi per fare le valigie e tornare a Princeton.

Così il gusto della vendetta deve essere entrato nel suo animo, tanto da indurlo, a poche settimane dalla testimonianza al Congresso, a indurire la propria posizione nella riunione dell'Open Market Committee della settimana scorsa, sulla base di numeri macroeconomici notevolmente rivisti verso l'alto per giustificare una fine nemmeno più tanto graduale della politica di moneta ultra facile degli ultimi cinque anni. Dopo di me, è sembrato che dicesse Bernanke, non potrete tanto facilmente tornare ad una nuova dose di spinta monetaria a tutti i costi con una nuova politica di allargamento dell'attivo del bilancio della Fed. A poco servirà che Janet Yellen sia da decenni alla sinistra del partito democratico. Se vuole che la sua candidatura a presiedere la Fed sia accettata dal Congresso deve compromettersi a favore della nuova austerità rappresentata dalla fine della politica del denaro a buon mercato. E deve farlo anche se, sia lei che ogni persona che abbia più di trent'anni, può ricordare quello che avvenne nel fatale 1994, quando anche Greenspan decise che la moneta facile messa in opera dopo la crisi dell'Ottobre 1987 e durata cinque anni, doveva giungere al termine, avendo ottenuto lo scopo di salvare il mercato finanziario e in particolare le banche e le società di assicurazioni con iniezioni di liquidità che permettevano loro lauti guadagni sui mercati obbligazionari.

Quel che accadde allora, quando molti finanzieri, in America e altrove, cercarono un ultimo hurrah prima di ritirarsi dai mercati e furono dalla caduta repentina di essi costretti ad affrontare perdite gigantesche, purtroppo minaccia di ripetersi nei prossimi mesi. Non perché i mercati finanziari internazionali non credono a Bernanke, ma perché gli credono perfino troppo e nelle condizioni di 'tempo reale' che prevalgono su tali mercati oggi, hanno iniziato una politica di vendite delle obbligazioni che non solo mette in difficoltà il Tesoro degli Stati Uniti, ma anche le tesorerie dei paesi emergenti, di quelli mediterranei dell'Euro e di quelli dell'Europa orientale. Così ciò che accadde nella primavera del 1994 rischia di ripetersi nell'estate del 2013, condizionando allo stesso tempo la politica monetaria americana, con una Janet Yellen che dovrà mostrarsi assai meno radicale di quello che è, con un Obama costretto a fare almeno alcune delle riforme strutturali promesse e con una opposizione repubblicana che dovrà abbandonare gli slogan del Tea Party e collaborare col governo per introdurre misure ragionevoli di politica fiscale.

Certo non è un modo ordinato di procedere, da parte delle autorità politiche ed economiche del paese centro. Se i mercati continuano a credere a Bernanke e ad aspettarsi una forte anche se graduale diminuzione delle iniezioni di liquidità da parte della Fed nel 2014, questo ne indurrà una privata già nei prossimi mesi, un altro blocco del funzionamento dei mercati, non molto diverso da quello, iniziato nel 2007, dal quale si cominciava a uscire solo ora, per opera di Bernanke e di Draghi. Continuerà la salita dei tassi per i bond dei paesi emergenti e di quelli periferici dell'Europa, la Cina non potrà fare da parafulmine, impegnata com'è in una stretta monetaria voluta per mettere le redini al mercato finanziario e alle grandi banche e ridare autorevolezza alla banca centrale, e il Giappone vedrà ulteriormente deprezzarsi lo Yen, dato che i capitali si dirigeranno verso New York, attratti dai maggiori rendimenti.

Con tassi a lunga in rialzo gli investimenti soffriranno in tutto il mondo. Questo ha un suono assai sinistro per le autorità di paesi come Italia e Spagna, impegnati in un rilancio che non sacrifichi gli investimenti se si dà un po' di fiato alla domanda interna. Le nostre banche, dovendo assorbire le perdite che il rialzo dei tassi comporterà, per i bonds che hanno in portafoglio, saranno costrette a prestare ancor meno di quello che hanno fatto finora.

Solo l'euro e le esportazioni europee potranno beneficiane, perché nella nuova atmosfera non è fuori luogo prevedere una discesa del cambio euro/dollaro a 1,20 o persino a 1,10. A chi venderanno i nostri esportatori non è però chiaro, se nei paesi emergenti si determinerà quella stretta che, per motivi di politica monetaria interna, già si vede da qualche tempo all'opera in Cina. Sarà forse una vittoria di Pirro persino per i tedeschi, avvantaggiati dai tassi di interesse, che cadranno ulteriormente per l'aumento dello spread con gli altri paesi dell'euro. Godranno di vantaggi concorrenziali, ma in Europa i soldi sono ormai finiti quasi dappertutto e anche negli emergenti ci sarà poco da ridere, specie se si considera la caduta assai rapida dei cambi di questi paesi con euro e dollaro che favorirà i produttori locali e quelli giapponesi.

Sarà probabilmente per Ben Bernanke una fin de partie come non si era immaginato, dopo aver fatto la storia monetaria negli anni della crisi con la sue eterodosse misure e aver portato fuori delle secche l'economia americana e con essa anche quella del resto del mondo. Si riafferma dunque la famosa legge delle conseguenze non volute dei comportamenti razionali. L'affermò con forza Friederich von Hayek e sembra riproporsi anche in questa occasione.

In un recente discorso ai laureati di Princeton, Bernanke ha affermato: “Congratulations, graduates. Give them Hell” (il grido di guerra della squadra di football di Princeton). Solo qualche giorno dopo, il buon esempio sembra averlo voluto dare lui stesso, cercando, come Sansone, di morire con tutti i filistei!

Marcello De Cecco da Affari & Finanza di Repubblica, 24 giugno 2013

venerdì 21 giugno 2013

ITALIA - Tumori, il primato di Napoli


Nel capoluogo campano si muore di cancro come in nessun altro posto d'Italia. Colpa delle scorie. E di una politica sorda.

Venerdì, 21 Giugno 2013 - Adesso, di fronte alla diffusione dei dati scientifici sui tumori dei napoletani, politici e imprenditori «si travestono da mammolette, sbalordite e attonite». Eppure, fra i medici più impegnati e gli ambientalisti locali, c’è chi da decenni è trattato da incompetente perché denuncia e mette in guardia sui veleni incontrollati e sul traffico illegale dei rifiuti tossici.
I dati sanitari ufficiali ora parlano chiaro. E danno ragione, in tema di correlazione fra veleni e cancro, a chi ha sempre denunciato la strage e non a chi, prime fra tutti le istituzioni, ha sempre minimizzato e ritenuto «non dimostrabile il nesso». Napoli inquinata si guarda allo specchio. E fa la conta dei danni.
BAGNOLI, INCUBO MESOTELIOMA. Le cifre, diffuse da un gruppo di 14 ricercatori  Angir che hanno operato  su commissione della giunta comunale guidata dal sindaco Luigi de Magistris, raccontano che a Bagnoli - dove per 40 anni la gente ha respirato i fumi Italsider, l’amianto Eternit, le polveri Cementir e dove ancora ingoia i veleni della mancata bonifica - il mesotelioma pleurico (quello, per intendersi, che deriva dall’esposizione all’amianto) impazza sia fra i maschi che fra le femmine molto più che altrove. A livelli da incubo il mesotelioma si registra anche fra la popolazione che abita i quartieri Soccavo e Fuorigrotta, che sono confinanti.
A NORD IMPAZZA IL CANCRO AL FEGATO. Nei quartieri a Nord di Napoli, quelli dove pure si registrano le più ampie disponibilità di verde pubblico, in forte incremento appare invece il cancro al fegato. Forse perché chi ci abita beve troppo alcol? «No», rispondono i ricercatori, «le statistiche assicurano che lì ci si ubriaca meno che altrove». Allora, perché il cancro al fegato è così diffuso? «Nessun mistero», hanno spiegato gli studiosi Angir, «i quartieri di Chiaiano, Scampìa, Piscinola,  Marianella, Secondigliano, San Pietro a Patierno sono i più vicini all’area casertana il cui suolo è da decenni avvelenato da miriadi di discariche illegali e dal fiume di sversamenti illegali di rifiuti tossici industriali provenienti dall’Italia settentrionale».
TUMORI, A NAPOLI IL PRIMATO. Chi si ammala di più, insomma, vive a ridosso della cosiddetta Terra dei Fuochi dove ogni buco nasconde fiumi di policlorobifenili e di sera, al tramonto, i camion lungo l’Asse mediano scaricano residui proibiti mentre squadre di giovani delinquenti appiccano il fuoco alle scorie tossiche. Untori. A prezzo stracciato. A Napoli, assicurano i ricercatori Angir, si muore per colpa dei tumori più che in qualsiasi altro luogo d’Italia: 131 cittadini ogni 100 mila rispetto agli 80 del dato nazionale. Per giungere a tali conclusioni, i ricercatori hanno analizzato il registro delle cause di morte nel periodo 2004-2009 della Asl Napoli 1.

Il tumore al polmone fa strage di maschi


Entrando nei dettagli, è accertato che a Napoli muore per tumore al polmone il 32,4% dei maschi deceduti, per tumore al colon retto il 9,9, per tumore al fegato l’8,3.
Fra le femmine, il tumore alla mammella resta il più diffuso (16,1%). Seguono quello al polmone (13,3) e quello al colon retto (12,1). Il tumore al fegato è al 7,1%. Le donne che abitano nella Napoli bene, secondo lo studio, fumano troppo: si ammalano, infatti, di tumore al polmone nel 18,9% dei casi. In altri quartieri il dato appare meno allarmante. A Chiaia, invece, come a Posillipo e al Vomero, i maschi si ammalano molto di leucemia. E di melanoma.
Antonio Marfella, medico e ricercatore dell’istituto oncologico Pascale che da anni studia e denuncia i veleni della camorra, ha accolto con favore i dati Angir che confermano in pieno i suoi inascoltati Sos: «A Napoli e dintorni le ragazze si ammalano di cancro alla mammella fin da giovanissime. Eppure, si continua a dar la colpa alle sigarette e non all’ambiente inquinato».
MANCA UN REGISTRO REGIONALE. L’amarezza di Marfella non è fuori luogo: a Napoli e in Campania, nonostante le proteste, non è stato finora possibile creare un registro regionale dei tumori per monitorare e tenere sotto controllo il dramma in atto. La Regione Campania, dopo aver azzerato il comitato scientifico scelto dalle associazioni e dagli enti sanitari, ha avocato a sé la materia e approvato un progetto da 1 milione e mezzo di euro contro cui il governo ha inoltrato ricorso. Il risultato? Tutto resta nei cassetti: in stand by, mentre la gente muore.
RIFIUTI TOSSICI DAL NORD ITALIA. Vincenza Cristiano, giovane architetto abitante in Terra dei fuochi, ammalata di tumore e diventata un personaggio simbolo della lotta ai veleni, ha scritto una lettera al ministro per l’ambiente Andrea Orlando tornato alla carica per sollecitare i nuovi inceneritori a Napoli che la giunta de Magistris invece non vuole. Nella lettera, Vincenza ha denunciato l’assenza di un controllo satellitare sulle centinaia di Tir che ogni giorno scaricano impunemente nei terreni attorno a Napoli tonnellate di rifiuti tossici provenienti dalle aziende del Nord d’Italia. «Nel corso degli anni», ha precisato Vincenza, «lo Stato italiano ha sprecato investimenti e risorse, ma del controllo satellitare non si vede traccia». E ha aggiunto, delusa: «Già nel 2004 la rivista scientifica The Lancet Oncology pubblicò i dati sulla correlazione fra malattie oncologiche e veleni sul territorio. Le autorità non hanno mai dato importanza a quei numeri, sebbene la fonte fosse prestigiosa. Gli studi lo certificano, i cimiteri si riempiono, ma nessuno ferma i Tir al veleno».
IL MINISTRO AD ACERRA. A Bagnoli, lungo il muro di cinta dell’area ex Italsider sequestrata dai magistrati, giovani writers arrivati da mezza Europa hanno disegnato Mangiafuoco, il gatto, la volpe e un enorme Pinocchio colorato che scappa inseguito dai baffuti gendarmi. È un monumento alla bugia. E all’inganno, di cui si sente vittima il quartiere dopo la scoperta degli imbrogli sulla mancata bonifica. «Peccato che sia stato disegnato coi colori all’anilina”, ha commentato Vinicio, 86 anni, ambientalista ante litteram ed ex operaio da altoforno. «Vedrete, alla prima pioggia scolora». Il 20 giugno il ministro Orlando è in visita a Terra dei Fuochi. Ad Acerra, la patria di Pulcinella, imbottita di scorie e mai bonificata. 

Enzo Ciaccio

giovedì 20 giugno 2013

ITALIA - Mediaset, respinto il ricorso di Berlusconi. Ora in Cassazione


Processo Mediaset: la Consulta respinge il conflitto di attribuzione tra poteri sollevato dal leader del Pdl nei confronti del tribunale di Milano. No al legittimo impedimento di Silvio Berlusconi, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio, avanzato per partecipare all’udienza del primo marzo del 2010 nell’ambito del processo Mediaset.

La Corte Costituzionale ha dunque, dopo due ore di camera di consiglio, respinto il conflitto di attribuzione tra poteri sollevato da Palazzo Chigi nei confronti del tribunale di Milano, dove era allora in corso il procedimento. In quella circostanza il leader del Pdl è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione (di cui tre abbonati grazie all’indulto) e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Adesso l’ultima carta da giocare per il Cavaliere è la Cassazione.

La Consulta ha rilevato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano, ndr), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall’imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell’impegno, né sulla data alternativa per approntare un nuovo calendario.

La nota della Consulta

“La Corte costituzionale in relazione al giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato vertente fra il Presidente del Consiglio dei ministri e il Tribunale ordinario penale di Milano, ha deciso che, in base al principio di leale collaborazione – e fermo rimanendo che il giudice, nel rispetto del principio della separazione dei poteri, non può invadere la sfera di competenza riservata al Governo -, spettava all’autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all’udienza penale del 1° marzo 2010 l’impegno dell’imputato Presidente del Consiglio dei ministri di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno, giorno che egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all’udienza. A questa decisione la Corte è giunta osservando che, dopo che per più volte il Tribunale aveva rideterminato il calendario delle udienze a sèguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall’imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), né circa la necessaria concomitanza e la ‘non rinviabilità’ dell’impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario”.

Francesco De Paolo

CHI CONTROLLA L'ECONOMIA GLOBALE


Il peso delle multinazionali

La struttura della rete di controllo delle aziende transnazionali incide pesantemente sulla competizione nei mercati globali e sulla stabilità finanziaria. Sinora, sono stati studiati solo piccoli esempi nazionali e non è stata utilizzata una metodologia appropriata per valutare globalmente il controllo esercitato. Stefania Vitali, James B. Glattfelder e Stefano Battiston (Chair of Systems Design, ETH di Zurigo) hanno recentemente proposto la prima ricerca che analizza l’architettura delle reti globali, con una stima delle “quote di controllo” detenute da ogni attore globale. Il quadro appare chiaro: le aziende transazionali formano un sistema interconnesso dove la gran parte del controllo è detenuta da un nucleo ristretto di istituzioni finanziarie. Un nucleo che può essere visto come una “super-entità” economica con cui anche il più influente decisore politico deve confrontarsi.

Il fatto che il controllo sia fortemente concentrato nelle mani di pochi attori non determina se e quanto essi sono interconnessi. Un primo interrogativo riguarda la posizione degli attori più importanti nella struttura di potere, che può essere rappresentata come una struttura nodulare. Come si può sospettare, gli attori più potenti fanno parte del nucleo forte. In effetti, il 40% del controllo economico delle multinazionali a livello globale viene svolto, attraverso una complicata rete di relazioni di proprietà, da un gruppo di 147 imprese. Esse costituiscono la citata super-entità economica. Impressionante il fatto che il 75% di questi attori predominanti sono intermediari finanziari. Per esemplificare, può essere utile citare alcuni nomi di questa ristretta e influente cerchia: tra gli altri, JP Morgan Chase&Co, Merrill Lynch, Axa, Barclays PLC, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Credit Suisse, Citigroup, Morgan Stanley, UBS AG.

Questa notevole scoperta solleva almeno due domande che sono fondamentali per la comprensione del funzionamento dell’economia globale. In primo luogo, quali sono le implicazioni per la stabilità finanziaria internazionale? E’ noto che le istituzioni finanziarie stabiliscono contratti particolari, come i derivati ​​di debito o credito, con diverse altre istituzioni. Ciò permette loro di diversificare il rischio, ma, allo stesso tempo, li espone anche a rischi di contagio. Purtroppo, le informazioni relative a tali contratti non sono di solito rese note per ragioni strategiche. In diversi paesi, l'esistenza di tali legami finanziari è correlata all'esistenza di relazioni di proprietà complesse. Ciò fa sì che la rete finanziaria globale sia anche molto intricata e quando una rete finanziaria è densamente connessa risulta incline al rischio sistemico. Infatti, se nei momenti di espansione economica la rete è apparentemente robusta, nei momenti negativi le aziende e le istituzioni interconnesse vanno in difficoltà simultaneamente. Come è appunto accaduto durante la recente crisi finanziaria.

In secondo luogo, quali sono le implicazioni per la concorrenza del mercato? Dal momento che molte imprese transnazionali nel citato nucleo forte hanno ambiti di sovrapposizione di attività, il fatto che esse siano collegate da relazioni di proprietà potrebbe facilitare la formazione di blocchi, il che potrebbe a sua volta ostacolare la concorrenza di mercato. Sorprendentemente, l'esistenza di tale nucleo forte nel mercato globale non è mai stata documentata e dunque nessuno studio scientifico ha dimostrato (o escluso) che la super-entità agisca o meno come un blocco. Basta pensare al ruolo che strutture di interessi a livello nazionale giocano per influire su settori quali l’aeronautico, l’automobilistico, il metallurgico e il finanziario, per capire come le multinazionali più importanti possano incidere in maniera ben più profonda.

I risultati della ricerca svizzera mostrano che, globalmente, gli attori principali sono in grado di esercitare un notevole controllo, sia formalmente (ad esempio, detenendo pacchetti azionari consistenti o partecipando ai consigli di amministrazione) sia mediante negoziati informali. Aldilà della rilevanza dei dati proposti nello studio in questione e della loro utilità per economisti e policy maker, la rappresentazione di una struttura nodulare con un piccolo ma influente nucleo costituisce un interessante modello per studiare le reti complesse. Soprattutto, gli autori notano che una simile struttura favorirà sempre più il rafforzamento degli attori più ricchi e potenti, in un circolo vizioso che impedirà ad altri interessi legittimi, e più diffusi, di emergere. 

UE - COME RIDURRE IL DEFICIT DEMOCRATICO


L'Ue e il ruolo dei parlamenti nazionali

Charles Grant, The Guardian

L’Unione europea soffre da tempo di una mancanza di legittimità, ma la crisi dell’euro ha aggravato il problema. Non c’è una soluzione ottimale che possa improvvisamente far sì che l’Ue sia rispettata, ammirata, o diventi anche solo popolare tra molti europei. Le sue istituzioni sono geograficamente lontane, difficili da conoscere e spesso si occupano di aspetti tecnici astrusi.

Se i leader dell’Ue non riusciranno a diventare più credibili agli occhi degli elettori, se non ne saranno legittimati, alcune parti dell’Unione potrebbero iniziare a staccarsi. Per esempio, a un certo punto i governi della zona euro potrebbero cercare di rafforzare la loro valuta prendendo alcuni provvedimenti decisivi in direzione di un sistema più integrato di decisione delle politiche economiche. Ma poi è sufficiente che un parlamento nazionale, un’elezione generale o un referendum blocchino questi provvedimenti e il futuro dell’euro è a rischio.

Le istituzioni politiche guadagnano in legittimità dai loro output e dai loro input: gli output sono i vantaggi che le istituzioni dovrebbero garantire, gli input le elezioni con le quali chi esercita il potere è chiamato a rispondere del proprio operato. La crisi dell’euro ha indebolito entrambe queste forme di legittimità.

Gli output non sono certo granché: la crescita economica è negativa nella maggior parte dell’Europa, la disoccupazione nella zona euro ha superato il 12 per cento e la disoccupazione giovanile in Spagna e Grecia è addirittura oltre il 50 per cento. Per molti cittadini non è così evidente che l’Ue o l’euro stiano garantendo loro alcun vantaggio.

Nel frattempo la legittimità derivante dagli input è confusa. Tenuto conto della complessità del processo decisionale, vista la dispersione dei poteri in più istituzioni, le gerarchie della responsabilità nell’Ue non sono mai state molto trasparenti. Ma la percezione del deficit democratico è un problema sempre più grande per i paesi fortemente indebitati della zona euro. La troika, non eletta e formata dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale, ha obbligato i parlamenti nazionali ad accettare tagli di bilancio e riforme strutturali. Le grandi decisioni relative ai programmi di bailout nell’Ue sono prese dai ministri delle finanze dei paesi della zona euro e dai capi di governo.

Che fare, quindi, per incrementare la legittimità dell’Ue? I leader europei dovrebbero accelerare la costituzione di un’unione bancaria per rafforzare il sistema finanziario, la Germania dovrebbe stimolare la domanda aiutando le economie dell’Europa meridionale a crescere e le riforme strutturali dovrebbero ripristinare la competitività delle economie. La disoccupazione a quel punto inizierebbe a calare, i leader dell’Ue sembrerebbero più competenti e il sostegno agli euroscettici e ai populisti si dileguerebbe.

Ma i leader dell’Ue devono fare anche dell’altro: devono rendere l’Ue più responsabile dal punto di vista del potere, più pronta a rispondere del proprio operato. Per molti europarlamentari la soluzione è semplice: quando le decisioni sono prese a livello dell’Ue il Parlamento europeo dovrebbe esercitare il controllo democratico. Di conseguenza, se più decisioni si prendono a livello dell’Ue, pensano, il Parlamento dovrebbe acquisire maggiori poteri su di esse.

Ma il parlamento, malgrado il buon lavoro che ha fatto su alcune leggi, non è riuscito a convincere molte persone che agisce in rappresentanza dei loro interessi. Molti europarlamentari hanno pochi contatti con i sistemi politici nazionali. E la priorità del parlamento sembrano spesso incrementare i propri poteri, ottenere un budget Ue maggiore e dare all’Ue un ruolo più importante, ma non sembra che molti elettori le condividano. Ciò può spiegare per quale motivo, sebbene i poteri parlamentari siano cresciuti progressivamente sin dalle prime elezioni dirette del 1979, l’affluenza alle urne sia andata calando da un’elezione a un’altra (passando dal 63 per cento degli aventi diritto nel 1979 al 43 per cento nel 2009).

Un’altra ragione per cui il parlamento europeo non può essere la principale forma di controllo democratico del processo decisionale della zona euro è che la maggior parte dei capitali necessari per i bailout arrivano dai parlamenti nazionali, non dal budget dell’Ue. È vero: le decisioni sui bailout e i presupposti necessari a ottenerli a certe clausole sono prese a livello dell’Ue dai capi di governo o dai ministri delle finanze. Ma le loro decisioni devono essere integrate dai parlamenti nazionali, che pertanto rivestono un ruolo cruciale sia nei paesi donatori sia in quelli beneficiari: il Bundestag deve approvare le cifre necessarie al bailout di Cipro, mentre il parlamento cipriota ha dovuto votare per liquidare le banche dell’isola.

Cartellino rosso

Ci sono buone ragioni per aumentare il coinvolgimento dei parlamentari nazionali nella governance della zona euro. Negli ultimi anni parecchi enti hanno cominciato a riunire i parlamentari e gli europarlamentari. Il recente trattato per la stabilità fiscale ha fissato una “conferenza” tra i primi e i secondi per discutere a fondo di politica economica. In ogni caso queste riunioni, per quanto utili, sono puramente consultive e non danno ai parlamentari sufficienti interessi nell’Ue.

I parlamentari nazionali potrebbero far sì che l’Ue risponda maggiormente del proprio operato in due modi. Prima di tutto i collegamenti tra i parlamenti nazionali dovrebbero essere rafforzati. Il trattato di Lisbona ha dato vita alla procedura del “cartellino giallo”, grazie alla quale se un terzo o più dei parlamenti nazionali crede che una proposta della commissione infranga il principio di sussidiarietà – l’idea che le decisioni dovrebbero essere prese al livello più basso compatibile con l’efficienza – sono autorizzati a chiedere che essa sia ritirata. La commissione deve quindi ottemperare a ciò o giustificare perché intende proseguire nella sua decisione. Questa procedura, utilizzata un’unica volta finora, potrebbe evolvere in un “cartellino rosso”, con la quale i parlamenti nazionali potrebbero costringere la commissione a ritirare una data proposta. Un sistema simile potrebbe permettere ai parlamenti nazionali di fare gruppo e unirsi per far sì che la commissione proponga il ritiro di una legge superflua.

In secondo luogo a Bruxelles dovrebbe essere istituito un forum dei parlamenti nazionali. Invece di copiare il lavoro legislativo del parlamento europeo, dovrebbe rivolgere domande e scrivere rapporti su alcuni aspetti dell’Ue e della governance europea che comportano un processo decisionale unanime. Il forum potrebbe monitorare il Consiglio europeo, sfidare le decisioni di politica estera, difesa e sicurezza. Per le questioni relative alla zona euro questo nuovo ente potrebbe essere convocato in forma ridotta, senza i parlamentari dei paesi non appartenenti alla zona euro, e approvare i pacchetti di salvataggio dei bailout. Potrebbe anche mettere in discussione, e magari nominare il presidente dell’eurogruppo. Nel lungo periodo i parlamentari nazionali dovranno essere coinvolti maggiormente nell’Ue, perché sono portatori di una legittimità di cui spesso gli europarlamentari sono del tutto privi. (Traduzione di Anna Bissanti)

UE - I MAGHI DELL’AUSTERITY


I tagli alla spesa hanno una storia di risultati modesti. Perché sono tornati di moda?
Tom Streithorst, Prospect

Le politiche dell’austerity sono un disastro, questa in estrema sintesi il parere espresso per Prospect da Tom Streithorst.  La Grecia, nonostante la cura da cavallo a cui ha sottoposto la sua spesa pubblica, rovinando il futuro di una generazione, ha visto crescere il debito governativo come percentuale del Pil. La spesa pubblica è scesa, ma anche il Pil, e in maniera più significativa. L’Irlanda, che ha applicato una ricetta economica simile, langue da tempo e lo stesso governo Cameron a Londra dovrebbe riflettere e cambiar presto rotta. L’Islanda, che viceversa ha rifiutato l’austerità in toto, sta crescendo. Nel frattempo, la Francia è tornata in recessione, la disoccupazione europea supera il 12% e l’intera economia continentale declina da almeno un anno e mezzo. Pertanto la pubblicazione di Mark Blyth, Austerity: The History of a Dangerous Idea (Oxford University Press), pare quanto mai tempestiva.

Blyth, professore di Politica Economica presso la Brown University, ci ricorda che al primo manifestarsi della crisi finanziaria (qualche anno fa), nessuno parlò di tagli alla spesa pubblica. Molti di coloro che oggi invocano l’austerity insistevano allora perché i governi salvassero le banche per evitare un collasso sistemico. Comprare il cattivo debito delle banche gonfia inevitabilmente il debito. Pertanto, pare difficile sostenere che i debiti pubblici siano cresciuti a causa dei governi spendaccioni, quando quegli stessi governi sono stati semi-obbligati a salvare il sistema finanziario prossimo al collasso. Nel 2007 il debito pubblico irlandese ammontava al 25.1% del Pil, quello spagnolo al 36.3. Molto al di sotto di quello della Germania!

L’austerity è salita in cattedra nel 2010, due anni abbondanti dopo lo scoppio della crisi finanziaria, scaricando i costi della stessa sul lavoro e la previdenza sociale. Questo almeno secondo Blyth, ma è difficile dargli torto.

Austerity: The History of a Dangerous Idea descrive in primo luogo l’attuale fortuna e diffusione delle politiche dell’austerity. In secondo luogo, esplora le radici intellettuali del concetto e le sue reali applicazioni nel corso del XX secolo, come l’ascesa hitleriana sullo sfondo dell’austerità tedesca degli anni Trenta o come il collasso dell’economia americana nel 1937, quando Roosevelt fu costretto a un intervento massiccio per risollevarne le sorti. Insomma, è chiaro che nel novecento i tagli e le contrazioni della spesa hanno avuto scarso effetto, peggiorando semmai situazioni fragili e instabili.

Certo, si tratta di una impostazione economica dai nobili natali filosofici, da John Locke a David Hume per arrivare all’irrinunciabile caposaldo Adam Smith, frettolosamente arruolato ex post nelle file degli ultraliberisti. Nonostante il pedigree invidiabile, i sostenitori del laissez faire rimasero spiazzati dal crollo borsistico del 1929, che precipitò il mondo nella peggior depressione a memoria d’uomo.

All’epoca JohnMaynard Keynes lanciò l’idea che le economie non necessitassero inevitabilmente di ritornare all’equilibrio di pieno impiego. Il ragionamento era, ed è, piuttosto semplice: “Tagliare i salari aiuta la singola impresa ma, dato che i lavoratori sono consumatori, un più basso livello di spesa per consumi finisce per ridurre la domanda globale; la fiducia delle imprese si fonda chiaramente sulla domanda dei loro beni … ed esse investono e assumono nuovi addetti quando il consumo sostiene la produzione. Di conseguenza, se il settore privato taglia le spese, tocca al governo intervenire per sostenere la domanda globale.” La Seconda Guerra Mondiale ha dato ragione all’economista britannico. E’ stata la spesa in deficit dei governi a porre fine alla Grande Depressione e a garantire la crescita del mondo occidentale per un trentennio.

Per decenni i teorici dell’austerity hanno giocato in difesa, salvo ricomparire sotto le insegne di Milton Friedman, che una volta disse: “Il ruolo degli economisti è mantenere in vita le idee sino a quando la situazione politica consente loro di ritornare di attualità.” Peccato che il riemergere dello Stato minimo e dell’austerità si sia rivelato un fiasco. Ci tocca sperare che ricominci presto l’oblio, conclude Streithorst.  (A cura di Fabio Lucchini)

lunedì 10 giugno 2013

ITALIA - Afragola, ballottaggio: la camorra invita i cittadini a non votare


Astensione record al rione Salicelle. Dove i clan hanno minacciato: «Incendiamo l'auto di chi va alle urne».

Lunedì, 10 Giugno 2013 - In ciascun seggio, 10 poliziotti armati. Più frotte di agenti Digos in borghese, venuti a dare man forte. Si è votato ad alta tensione, dopo le minacce di camorra che qualcuno tenta di minimizzare spiegando che in fondo «la partecipazione è stata bassa ovunque».
Nessuno, però, potrà smentire che l’astensionismo registrato nelle urne al rione Salicelle di Afragola per il voto di ballottaggio sul nuovo sindaco non sia stato condizionato dal diktat imposto dal clan che qui è dominante e che ha esortato i 9 mila abitanti a restarsene a casa.  

MINACCE SUI MURI. «Incendiamo le vostre auto! Non si vota». Oppure, scritto in grande sui muri del quartiere che da molti è definito «l’altra Scampìa»: «Attenti a quello che fate, altrimenti auto bruciate».
Segnali inequivocabili, utili a ribadire che agli ordini del boss si ubbidisce e basta. Adesso, forse, diranno che «si è votato poco ovunque». Per consolarsi. Per ingoiare la paura. E far finta di essere sani. Ma qui, dove il sindaco Luigi Nespoli è agli arresti domiciliari per bancarotta e ha potuto votare solo grazie al permesso dei carabinieri, i guaglioni del clan adesso girano a testa ancora più alta, il petto in fuori e le pistole in vista fra i viali sgraziati, dove non spunta mai un fiore. Salicelle è il rione delle strade senza nome. Ma super-sorvegliate.
VEDETTE AGLI INGRESSI. Chi sei, che vuoi, dove vai, quanto tempo stai? E di chi sei amico? Agli ingressi, le vedette lavorano in coppia ferme sulla moto. È come alla dogana: niente da dichiarare? I guaglioni si atteggiano a educati. Vestiti puliti. Niente dialetto, né parolacce. Seguono per un po’, discreti. Poi mollano.
I primi a fuggire sono stati i preti: «Caro vescovo, chiedo trasferimento». Poi è scappato lo Stato: il C9, l’autobus che qui faceva capolinea, ora passa, fa salire e riparte. Un autista ricorda: «Coltelli, lamette, siringhe sporche: era troppo pericoloso».
NIENTE COMMISSARIATO. La sede di pretura non ha mai aperto. I vigili urbani sono fantasmi, minacciati e stanchi. Lo Stato, se si intravede, fa promesse da marinaio: il mercato, il teatro, il pronto soccorso, l’ufficio postale. Lavori appena abbozzati, poi lasciati in pasto ai vandali che ne hanno fatto razzìa. La sede del commissariato di polizia, attesa da anni, non è ancora in funzione. Il bar è chiuso. Si intravedono solo i carabinieri (15 in tutto) e la chiesa con il suo grappolo di volontari. C’era una palestra di karate. È stata incendiata. C’era un servizio navetta gratuito per i bambini degli asili. È stato soppresso.
Il 29 settembre 2011, la guerriglia divampò per una intera notte fra i viali del rione: da una parte i poliziotti anti-sommossa, chiamati a proteggere lo sgombero delle abitazioni occupate dagli abusivi. Dall’altra, un esercito di 400 residenti (donne e bambini compresi) che si opponeva a sassate e lanciando sedie, divani, frigoriferi e water dalle finestre. Ci furono arresti, feriti, telecamere, interrogazioni parlamentari, sdegno unanime.

Il quartiere è «come una discarica in cui la camorra arraffa quel che le serve»


Due anni dopo, nessuno di quegli sgomberi è stato effettuato. È il rione delle mamme-bambine: a Salicelle si sfornano figli a raffica, da immolare alle voglie del clan. Le comari giurano che qui vive perfino una nonna di 26 anni. E che ogni femmina partorisce almeno quattro creature.
ABISSI DI ORRORE. Rosa Iazzetta, 32 anni, è stata arrestata perché costringeva a prostituirsi nel sottoscala le sue due figliole di otto e 10 anni. Il compenso era una banconota da cinque euro. Una strega cattiva, che truccava le creature come Lolite e prendeva gli appuntamenti per telefono. Una mamma carnefice. Abissi di orrore.
Altro che Scampìa: al confronto, le Vele sanno di asilo nido. Ciro, 12 anni, in un tema ha scritto di avere tre padri, quattro nonni e 12 fratelli. Assunta, 14 anni, fa la terza media ed è al quarto mese di gravidanza.
EVASIONE SCOLASTICA. Al Salicelle, l’evasione scolastica è da brividi: a scuola vanno solo i bambini che la camorra scarta e non ritiene ancora adatti all’affiliazione. Don Ciro Nazzaro, 58 anni, il parroco della chiesa di san Michele, è tra i pochi a non mollare ma si ritrova costretto a ricordare ai genitori di non violentare i propri figli: «Smettetela. L’incesto è un peccato assai grave», avverte dal pulpito.
Eppure, in confessione incrocia spesso ragazzine che rassegnate gli sussurrano: «Don Ciro assolvetemi: è stato papà, ma meglio lui che qualcun altro. Almeno lui so chi è».
All’ingresso della scuola media Europa unita hanno smantellato un cartello che ammoniva: «Qui è vietato sputare in faccia ai professori». I prof sono eroi, la preside pure. I più fragili si arrendono come i preti: «Provveditore, chiedo trasferimento».
IL GOVERNO DEI BOSS. C’è chi fa finta di niente. E rileva infastidito: «Ci descrivete sempre male, ma da noi nessuno spaccia droga e non si fanno rapine. L’auto può essere lasciata con le portiere spalancate: non sarà mai rubata». Giusto. Vero. «Però», osserva chi conosce il rione, «questo di Salicelle è un ordine fasullo, malsano, malandrino: è imposto e governato dal boss, è una convenienza di business. Nessuno qui commette reati perché il clan ha bisogno di quiete per organizzare i raid ed espandere ovunque il malaffare».
Il rione è base di lancio, è blocco di partenza, è piattaforma per rapine, racket, omicidi. Salicelle è tana, covo, rifugio senza rimorsi. I ragazzi che vogliono salvarsi fuggono via, come i prof e i preti. Vanno in Emilia Romagna, a fare i muratori.
VOTO DI SCAMBIO. Alcuni nei week end tornano a casa, incrociano i compari di sempre e vanno a festeggiare a suon di assalti, rapine, aggressioni. Perché è partito l’ordine di non votare al ballottaggio per il sindaco? «Perché», racconta chi conosce il quartiere, «ai capibastone che comprano i voti a 5 euro l’uno (e a 50 euro, negli ultimi giorni) stavolta non sono stati distribuiti i soldi. Il Salicelle significa un bacino di 3 mila voti, è ago della bilancia nelle elezioni ad Afragola. Qui il voto di scambio non può fermarsi. Perciò il clan, imbestialito, ha scritto le minacce sui muri».
Il quartiere è giovane e dannato: è spuntato dalle ceneri del sisma 1980. La media d’età delle 2500 famiglie residenti è di 28-30 anni. Ma ci sono famiglie con genitori appena 17enni. «Il crimine peggiore», osserva la preside Giovanna Mingione, «è che ai bambini di Salicelle nessuno ha mai raccontato una favola per metterli a letto».
Racconta Emanuele Rizzo, ambulante: «È come una discarica in cui la camorra arraffa quel che le serve: connivenze, silenzi, manovalanza a prezzo zero. È un ufficio di collocamento, ma senza regole né graduatorie. Insomma, è un’emergenza nazionale, ma non se ne accorge nessuno».

Enzo Ciaccio

ITALIA - Partecipazione e rinascita dei partiti: solo così si riparte


Monti ha portato l'Italia fuori dal baratro. Ma non ha creato sviluppo per mancanza di dialogo con la società.

di Fabrizio Barca

Lunedì 10 aprile - Due mila e 500 chilometri in 60 ore. Novara, Vercelli, Trani, Bari, Maglie, Martina Franca: sono le tappe dell’ultimo fine settimana dedicato a questo mio strano giro per l’Italia dello «sperimentalismo democratico» (che ci prova o vorrebbe provarci, anche se altra è la cultura dominante).
L'IMPORTANZA DELLA PARTECIPAZIONE. Rientrando a Roma, l'altra sera, ho visto che una mia dichiarazione in merito al governo Monti di cui ho fatto parte rimbalzava sui media: «Non abbiamo risolto i problemi del Paese. La produzione di beni pubblici richiede il coinvolgimento di migliaia di persone. Con la partecipazione si fanno cose che altrimenti non si potrebbero fare».
In effetti, in ognuno dei luoghi visitati in queste settimane, abbiamo discusso di come l’efficacia dell’amministrazione richieda il coinvolgimento motivato e monitorato tanto dei produttori pubblici quanto dei beneficiari: dall’istruzione a un’alta velocità che sia davvero utile a tutti, dalla salute alla manutenzione del patrimonio culturale, è solo estraendo e aggregando le conoscenze diffuse che si realizzano buoni interventi pubblici. È proprio quello che non si riesce a fare in Italia da oltre 20 anni. Ed è la ragione per cui il Paese è bloccato.
I LIMITI DEL GOVERNO MONTI. Questo limite ha riguardato anche il governo di cui ho fatto parte e di questo scrivo nel documento Un partito nuovo per il buon governo sottolineando «la grande difficoltà del governo di impegno nazionale costituito nel novembre 2011, che pure ha sottratto il Paese all’emergenza finanziaria, a disegnare e attuare provvedimenti che aprissero una prospettiva di sviluppo, soprattutto per la carenza di dialogo con la società, essendo rarefatta l’intermediazione dei partiti».
Proprio l’altra sera, in Puglia, dicevo che un giorno, lontano da questi anni difficili, proverò a raccontare a mio nipote di come il governo Monti, nei primi sei mesi di vita, sia riuscito a salvare l’Italia dal baratro (anche se in molti se ne sono già dimenticati).
LA RINASCITA DEI PARTITI. Quel giorno proverò a spiegargli anche perché abbiamo potuto far questo e come, invece, non esistessero le condizioni perché potessimo rilanciare lo sviluppo. Fra queste condizioni, teniamolo bene a mente, spicca la rinascita dei partiti come strumento flessibile della società.

domenica 9 giugno 2013

ITALIA - Pensioni d'oro: Corte costituzionale no a tasse su quelle dei ricchi


Vietato tassare i ricchi. Dopo lo stop sugli stipendi superiori a 90 mila euro, arriva il no ai prelievi di natura fiscale che tocchino i soli pensionati, quand'anche titolari di pensioni d'oro. Lo ha stabilito la Consulta, giudicando incostituzionale un comma del decreto legge 98 del 2011. La norma censurata disponeva un contributo perequativo per le pensioni oltre 90 mila euro lordi. Contributo che la Corte Costituzionale considera di natura tributaria e in cui ravvisa "un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini". Una decisione che potrebbe provocare qualche grattacapo al ministro del Lavoro, Enrico Giovannini. Il responsabile del Welfare nei giorni scorsi aveva infatti annunciato che i futuri provvedimenti sull'occupazione sarebbero stati finanziati anche tassando le pensioni d'oro.

A sollevare la questione di legittimità costituzionale di fronte alla Consulta è stata la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, a seguito del ricorso di un magistrato presidente della Corte dei conti in quiescenza dal 21 dicembre 2007 e titolare di pensione superiore a 90mila euro: nel mirino, il comma 22.bis dell'art.18 del decreto-legge 98 emanato il 6 luglio 2011, contenente disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria.

La norma censurata disponeva che, dal primo agosto 2011 fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi superassero 90 mila euro lordi annui, fossero assoggettati a un contributo di perequazione del 5% della parte eccedente l'importo fino a 150 mila euro; pari al 10% per la parte eccedente 15 0mila euro; e al 15% per la parte eccedente 200mila euro.

La Consulta ha giudicato questa norma in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, rispettivamente sul principio di uguaglianza e sul sistema tributario. "Al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria - si legge nella sentenza della Corte Costituzionale n. 116 depositata oggi, relatore il giudice Giuseppe Tesauro - il legislatore ha imposto ai soli titolari di trattamenti pensionistici, per la medesima finalità, l'ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura, attraverso una ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi".

In sostanza la Corte Costituzionale ha bocciato le modalità di applicazione del contributo di solidarietà a carico delle pensioni più alte, perché discrimina una sola categoria - i pensionati - rispetto agli altri titolari di reddito: "L'intervento - si legge in sentenza - riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi".

C'è quindi un contrasto con il principio della "universalità dell'imposizione" e si determina una "disparità di trattamento" non tanto "fra dipendenti o fra dipendenti e pensionati o fra pensionati e lavoratori autonomi o imprenditori, quanto piuttosto fra cittadini". I redditi derivanti dai trattamenti pensionistici - specifica ancora la Corte - non hanno natura diversa e inferiore rispetto agli altri redditi. Nella sentenza la Corte specifica che la disposizione giudicata illegittima "trova applicazione, in relazione alle erogazioni di trattamenti pensionistici obbligatori, sia in favore del personale del pubblico impiego, sia in relazione a tutti gli altri trattamenti corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatori".

"I RICCHI NON PAGANO MAI" "La sentenza della corte costituzionale sul contributo di solidarietà per le pensioni più alte, "che riprende lo spirito e la lettera di quella sull'analogo contributo per gli stipendi degli alti dirigenti pubblici, non sorprende ma svela molto del pressapochismo e della superficialità con cui si è legiferato negli ultimi anni". Lo afferma il segretario confederale della Cgil, Vera Lamonica.

"La giusta esigenza - sottolinea lamonica in una nota - di chiedere qualcosa ai redditi più alti ha invece prodotto la situazione paradossale per cui a chi più ha dovrebbe essere perfino restituito, mentre ai più deboli si è fatto pagare l'unico vero salato conto delle cosiddette riforme. Alla fine - sostiene - c'è sempre un'unica categoria che deve pagare: i lavoratori e i pensionati a reddito più basso, cui è stata peraltro bloccata la rivalutazione, mentre stipendi e pensioni d'oro permangono intoccati".

"Per cambiare strada - conclude la sindacalista - bisogna ripartire da un'ineliminabile esigenza di equità e giustizia sociale, da come in un paese che affonda nella crisi si fanno pagare i grandi patrimoni e i grandi redditi, e di come si costruisce un meccanismo credibile che impedisca, ad esempio, di avere pensioni e cumuli di stipendi sproporzionati".

UE - COMMISSIONE EUROPEA: Chi ascolta ancora Bruxelles?


Da anni la Commissione moltiplica le raccomandazioni agli Stati membri sulle riforme economiche da realizzare. Ma le capitali europee obbediscono più volentieri alle pressioni dei mercati o alle clausole dei piani di salvataggio. Così facendo minano la credibilità e l’autorità dell’esecutivo europeo.

Claudi Pérez 5 giugno 2013 EL PAIS Madrid

Capire di cosa ha bisogno l’Europa è relativamente semplice: un’abbondante dose di riforme per i paesi periferici e piani di rilancio a Bruxelles, Berlino e ovunque è possibile, un’unione bancaria reale e una Bce che funzioni come ultima risorsa.

Le istituzioni europee hanno fatto un passo in questa direzione, ma per quanto riguarda le riforme la situazione è abbastanza complicata: la Commissione ha appena invitato la Francia a riformare il sistema pensionistico, i Paesi Bassi a porre fine alla bolla immobiliare, la Germania a sostenere la sua azione, il Belgio a ridurre le spese, la Slovenia a soccorrere le sue banche e la Spagna a continuare a fare tutto ciò contemporaneamente, districandosi come un acrobata che fa volteggiare i piatti sulle bacchette.

Tutto questo ha perfettamente senso, ma c’è un piccolo problema: quasi nessuno è disposto a seguire i consigli di Bruxelles. Sono anni che la Commissione chiede le stesse cose, ma nessuno muove un dito a meno di non essere minacciato dai mercati o costretto a rispettare le condizioni di un piano di salvataggio.

E così nei cassetti della Commissione si accumulano, anno dopo anno, raccomandazioni tutte uguali e regolarmente ignorate. I paesi europei non prestano alcuna attenzione ai consigli di Bruxelles nonostante un sistema di regole e sanzioni che oggi è più solido che mai. La realtà è che le capitali sanno benissimo che alla fine dei conti le decisioni vengono prese dal Consiglio europeo, e dunque dagli Stati membri.

Inoltre nella pratica le riforme sono ostacolate da seri problemi di natura politica, soprattutto legati alla disoccupazione, alla recessione e a un malessere generale che continua a crescere in tutto il Vecchio continente.

“Bruxelles ha un problema di credibilità a causa del suo passato remoto, dato che Berlino e Parigi hanno infranto le condizioni del patto di stabilità, e soprattutto del suo passato recente: le sue soluzioni si sono rivelate disastrose; la sua ossessione per il deficit ha impedito a Bruxelles di rendersi conto che il vero problema era la competitività; mentre l’eccesso di austerity ha sprofondato l’eurozona nella recessione.

In questo senso è facile comprendere la reticenza delle capitali europee a mettere in atto le riforme, soprattutto quando la disaffezione generale viene rafforzata dalla recessione autoinflitta”, sottolinea una fonte anonima vicina al governo francese.

Le ricette proposte dalla squadra [del presidente della Commissione José Manuel] Barroso vengono applicate soltanto sotto la pressione dei mercati o quando è in atto un piano di salvataggio. Bruxelles lancia un messaggio ambiguo: più riforme e meno austerity. Per la Commissione questa soluzione favorisce la flessibilità in politica economica, ma per i suoi detrattori facilita il lassismo.

Bruxelles infatti concede più margine di manovra ai paesi che hanno ridotto le spese, ma anche a quelli che continuano a sperperare il denaro pubblico, e in entrambi i casi il prezzo da pagare sono riforme difficili da attuare e una ripresa complicata.

I Paesi Bassi hanno rinviato le riforme con la scusa di un patto sociale per non aggravare la recessione. Il presidente francese François Hollande ha fatto sapere che non intende accettare i consigli di Bruxelles. In Germania, in vista delle elezioni, nessun partito ha scelto di includere nel proprio programma le raccomandazioni della Commissione.

Libera interpretazione


Se esaminiamo le raccomandazioni degli anni passati emerge chiaramente che sono state seguite soltanto in pochi casi, fatta eccezione per i paesi che hanno beneficiato di un piano di salvataggio o hanno subìto le pressioni dei mercati. La Francia ha realizzato appena una riforma del lavoro e soltanto dopo aver trovato un accordo con le parti sociali, mentre le altre riforme consigliate non sono mai partite.

Italia e Spagna hanno cominciato a ridurre il budget soltanto dopo l’ultimatum della Bce e ancora oggi proseguono a malincuore. Berlusconi ha fatto marcia indietro e Rajoy ha realizzato appena quattro delle sette riforme promesse. A questo punto è difficile che le cose cambino in futuro: “i paesi interpreteranno le raccomandazioni come meglio credono”, riassume Mujtaba Rahman, del gruppo Eurasia.

È vero che in passato la Germania ha portato avanti le riforme dopo la riunificazione, ma il prezzo da pagare è stato il patto di stabilità e l’erosione della credibilità di Bruxelles. Da allora la Commissione tenta di mettersi al riparo: “Bruxelles ha stabilito regole più severe, ma ancora nessuno può dire se questo sistema funziona. Ed è proprio questo il problema, i paesi danno sempre la colpa a Bruxelles”, sottolinea una fonte europea.

Per Bruxelles il tempo stringe: il mandato di questa Commissione è giunto quasi al termine (a un anno dalle elezioni europee) e i suoi rapporti con Parigi e Berlino non sono dei migliori. Francia e Germania non hanno risparmiato le critiche nei confronti di Bruxelles. E tra l’altro, appena qualche ora dopo le raccomandazioni della Commissione europea, i due paesi hanno presentato al mondo la loro idea sul futuro dell’Europa. L’asse franco-tedesco torna alla ribalta. (Traduzione di Andrea Sparacino)

“I grandi paesi europei resistono ai diktat di Bruxelles”

3 giugno 2013 El País

I principali paesi dell’eurozona ignorano le raccomandazioni di Bruxelles, mentre Francia e Germania si oppongono apertamente alla Commissione, nota El País.

"La crisi sta erodendo l'influenza della squadra [del presidente della Commissione José Manuel] Durão Barroso”, sottolinea il quotidiano aggiungendo che “la Commissione europea, impegnata in un braccio di ferro con la Germania, attraversa una crisi di credibilità”.

Nonostante i poteri dell’esecutivo europeo siano stati rafforzati negli ultimi anni, le raccomandazioni di Bruxelles e i provvedimenti richiesti ai paesi europei sono stati rispettati soltanto “quando lo hanno chiesto anche i mercati o nell’ambito di un programma di salvataggio”, ricorda El País.