Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


sabato 29 settembre 2012

CONGRESSO PES - la nuova presidenza affidata a Stanishev, già Primo Ministro in Bulgaria

Con il 91.3% dei voti a favore è stata approvata oggi la nuova Presidenza del PSE, in cui è confermata la presenza del Partito Socialista Italiano grazie all’elezione di Luca Cefisi all’interno della Presidenza di Sergei Stanishev. L’elezione è stata accolta dal pubblico con un’ovazione, cui è seguito il discorso del neoeletto Presidente. Stanishev, già Primo Ministro in Bulgaria, ha voluto sottolineare quali saranno i principi che ne guideranno il mandato: coesione, solidarietà, rispetto, coordinamento territoriale, inclusione e sviluppo, con particolare attenzione al mondo sindacale.

Dopo aver ringraziato per la fiducia in lui riposta oggi, ha dichiarato: “Se vogliamo cambiare la direzione intrapresa dall’Europa, che porterà solo a maggiore austerità e a politiche di breve termine e se vogliamo uscire insieme dalla crisi, la nostra famiglia politica deve dare l’esempio. Questo è il motivo per cui la democrazia e la solidarietà sono l’essenza del congresso del PSE: perché queste sono il vero cuore del progressismo e dell’europeismo”. Stanishev ha poi aggiunto che il 9° congresso svoltosi oggi ha dimostrato che il PSE è un partito unito e che l’obiettivo principale che si pone è far tornare la speranza nei cittadini europei e ripristinare la fiducia nei progetti che l’Europa pone a base del cammino per un futuro migliore.

“Le persone qui presenti oggi credono che un’alternativa all’austerità non sia possibile, ma necessaria – ha aggiunto – abbiamo compiuto grandi passi avanti nelle politiche economiche, sociali e democratiche. Abbiamo fatto pressione per la tassa sulle transazioni finanziarie, per la trasparenza delle agenzie di rating e per un sistema bancario genuino oltre che per gli Eurobonds. Abbiamo dichiarato chiaramente quali sono i nostri piani per un candidato democratico comune”. Sin dal primo giorno di mandato infatti le priorità della nuova presidenza saranno il sostegno per uno sviluppo sostenibile, portare più democrazia, trasparenza e affidabilità all’Unione Europea, sostenendo particolarmente la campagna EuropeanYouth Guarantee, la Garanzia europea per i giovani contro la disoccupazione.

Ha poi preso la parola Hannes Swoboda, leader dell’eurogruppo S&D, che dopo le congratulazioni a Stanishev, ne ha elogiato il lavoro svolto sino ad oggi, ribadendo la fiducia che pone nel nuovo presidente per la vittoria alle elezioni nel 2014. “Non è accettabile”, ha detto Swoboda, “che i leader conservatori dicano ai cittadini che non ci sono soldi per la scuola e per la sanità, dal momento che quei fondi mancanti sono stati depredati da una crisi provocata dalle banche. La finanza non ha fatto nulla per limitare il danno che ha creato. E’ necessaria una tassa sulle transazioni finanziarie, adesso. E questo è il dovere del congresso: questo è ciò per cui lottiamo in Europa, è il motivo per cui abbiamo bisogno di cambiare l’Europa ed è anche il motivo per cui l’Europa ha bisogno di noi. L’Europa cambierà solo con una forte socialdemocrazia europea: noi”.

Dopo l’ovazione di applausi, è salito sul palco Martin Schulz, che ha lanciato un appello nei confronti del “vergognoso” livello raggiunto dal tasso di disoccupazione giovanile. Perciò obiettivo primario della nuova Presidenza sarà offrire riparo ai giovani europei, costretti spesso ad emigrare, nonostante vivano nel continente più ricco del mondo. E’ impossibile cambiare l’Europa senza preoccuparsi dei suoi giovani. E per ottenere politiche più efficaci la strada è una sola: un partito socialista europeo coeso.

Elisa Gambardella – Avantionline

Eurozona - Federalismo o morte

Come dimostrano i precedenti storici, un’unione monetaria non può sopravvivere senza un’unione politica. E senza l’euro anche l’Ue è destinata a scivolare nell’oblio, sostiene il celebre filosofo francese.

Bernard-Henri Lévy 28 settembre 2012 LE POINT Parigi

Se non si fa l'Europa politica, l'euro scomparirà. Questa scomparsa può prendere molte forme e strade diverse. Può esserci un'esplosione, un'implosione, una morte lenta, una dissoluzione, una divisione. Questo può prendere due, tre, cinque, dieci anni, ed essere preceduto da numerose remissioni che ogni volta daranno l'impressione di essere riusciti a scongiurare il peggio.

L'evento scatenante potrà essere il crollo di una Grecia messa in ginocchio da piani di rigore irrealizzabili e insopportabili per la popolazione, o l'iniziativa di un organo nazionale, come la Corte di Karlsruhe per la Germania, che rifiuta il rischio illimitato derivante dal fallimento di uno stato membro.

Ma scomparirà. In un modo o nell'altro, se non si fa nulla, scomparirà. Questa non è solo un'ipotesi, un vago timore, un panno rosso sventolato davanti a degli europei recalcitranti. È una certezza. E la si deduce non solo dalla logica (se tutto rimanesse com'è, questa moneta unica sarebbe un'assurda chimera, astratta e fluttuante, non sostenuta da economie, risorse e fiscalità comuni), ma anche dalla storia (tutte le situazioni che negli ultimi due secoli ricordano la crisi che oggi stiamo vivendo).

Non dobbiamo dimenticare che l'euro non è la prima esperienza di moneta unica tentata dall'Occidente. Ve ne sono state almeno sei, la cui storia – anche se come sempre le situazioni non sono paragonabili – è ricca di insegnamenti.

Due sono fallite in modo evidente e sono fallite proprio a causa degli egoismi nazionali sommati alle disuguaglianze di sviluppo fra paesi che non potevano – senza unirsi – parlare la stessa lingua monetaria (del resto nel primo caso l'episodio chiave è stato proprio il fallimento della Grecia!). Si tratta di due avventure oggi dimenticate: l'Unione latina (1865-1927) e l'Unione scandinava (1873-1914).

Due invece hanno avuto successo, un successo evidente e rapido. E questo successo è stato possibile perché il processo di unificazione monetaria è stato accompagnato da un'unificazione politica. Si tratta della nascita del franco svizzero che nel 1848, con la costituzione che dà vita alla Confederazione elvetica dopo mezzo secolo di incertezze dovute al rifiuto di pagare il prezzo politico dell'unione economica. La moneta sostituisce le varie monete locali coniate dalle città, cantoni e territori.

L'altro successo è rappresentato dalla lira italiana, che trionfa al momento dell'unità italiana sulla miriade di monete indicizzate agli stati tedeschi, al franco o basate sulle tradizioni ducali o delle vecchie repubbliche.

Due, infine, hanno proceduto nell'incertezza ma alla fine hanno avuto successo. Due unioni che hanno creato una moneta veramente comune, ma solo dopo mille crisi, passi indietro, abrogazioni provvisorie e grazie a dei dirigenti coraggiosi che avevano capito che una moneta unica può esistere solo sostenuta da un bilancio, da una fiscalità, da un regime di distribuzione delle risorse, da un diritto del lavoro, da regole della vita sociale, in altre parole da una politica realmente comune.

Questa è la storia del nuovo marco, che circa 40 anni dopo lo Zollverein del 1834 si è imposto sul fiorino, sul tallero, sul kronenthaler e sugli altri marchi delle città anseatiche; ed è la storia del dollaro, che ha impiegato cento anni per imporsi e che in realtà lo ha fatto solo dopo che si era acconsentito a federare il debito degli Stati membri dell'Unione.

Il teorema è spietato: senza federazione non c'è moneta comune. Senza unità politica la moneta dura al massimo qualche decennio per poi, in seguito a una guerra o a una crisi, scomparire.

In altre parole senza il progresso di questa integrazione politica, il cui obbligo è inserito in tutti i trattati europei ma che nessun responsabile politico, sia in Francia che in Germania, sembra voler prendere sul serio, senza l'abbandono di competenze da parte degli stati-nazione e senza quindi un'evidente sconfitta di quei "sovranisti" che spingono i popoli all'isolamento e al fallimento, l'euro scomparirà come sarebbe scomparso il dollaro se i sudisti avessero vinto la guerra di Secessione.

Un tempo si diceva: socialismo o barbarie. Oggi bisognerebbe dire: unione politica o barbarie. Anzi, federalismo o dissoluzione, e sulla scia di questa dissoluzione: regressione sociale, precarietà, esplosione della disoccupazione, miseria. O l'Europa fa un ulteriore passo, si indirizza in modo risoluto sulla strada di questa integrazione politica senza la quale nessuna moneta comune è mai riuscita a sopravvivere, oppure esce dalla storia e sprofonda nel caos.

Non abbiamo più scelta: o l'unione politica o la morte. Tutto il resto – illusioni di alcuni, piccoli compromessi di altri, fondi di solidarietà, meccanismi di stabilizzazione – non fanno altro che ritardare la scadenza e alimentare un'illusione moribonda.

EUROPA - Senza peli sulla lingua

Una nuova generazione di ministri degli esteri, guidata dal polacco Radosław Sikorski, sta cambiando il modo di fare diplomazia in Europa. Con un linguaggio diretto e una maggiore attenzione ai mezzi di comunicazione.

Jordi Vaquer 28 settembre 2012 EL PAIS Madrid

"I vostri interessi sono in Europa. Ed è tempo che vi sia anche il vostro cuore", ha dichiarato il ministro degli esteri polacco a Oxford, dove era stato invitato il 21 settembre. Nulla a che vedere con quello che viene di solito definito il linguaggio diplomatico, ma Radosław Sikorski non è un ministro tradizionale, e non ha peli sulla lingua: sostenete e partecipate a un'Ue più forte o rischiate l'isolamento.

Questo discorso ricorda il suo intervento a Berlino nel novembre 2011: "Non siete la vittima innocente della prodigalità degli altri, voi stessi avete più volte violato il Patto di crescita e di stabilità. Le vostre banche hanno autorizzato prestiti senza alcun controllo preventivo e hanno comprato obbligazioni ad alto rischio", ha detto ai tedeschi. In quel giorno Sikorski ha pronunciato un'altra frase storica per un ministro polacco: "Ho meno paura della potenza tedesca che di quello che comincia ad assomigliare all'inattività tedesca". Diretto e inequivocabile.

Tra i ministri degli esteri europei Sikorski si distingue, ma non solo a causa del suo stile insolito. Anche Carl Bildt, il responsabile svedese della diplomazia, ha la lingua tagliente e non ha paura delle polemiche. Le sue dichiarazioni hanno fatto scandalo, in particolare quando ha paragonato l'intervento russo in Ossezia del sud all'annessione nazista dei Sudeti, o quando ha definito Israele come un pericolo.

Ma a parte le polemiche, Sikorski e Bildt hanno uno stile – diretto e senza giri di parole – che assomiglia a quello di altri membri del Consiglio degli Affari esteri, l'organo che riunisce i ministri europei responsabili della diplomazia, come il giovane finlandese Alexander Stubb, che scrive spesso sui giornali e su Twitter ed è molto attivo nei dibatti politici nazionali ed europei (per esempio difende, al contrario della maggioranza dei suoi connazionali, l'adesione della Finlandia alla Nato) o il bulgaro Nikolai Mladenov, che si esprime regolarmente sul Medio Oriente.

Tutti questi ministri sono di destra, relativamente giovani, hanno fatto i loro studi in ambienti di lingua inglese e comunicano senza interpreti. In questo modo stanno dando un nuovo volto alla politica estera europea. Con i loro discorsi diretti e con la loro presenza sui social network, con le alleanze preliminari ai vertici e con gli stretti rapporti intrecciati con i think tank e gli opinion maker, cercando la complicità delle istituzioni europee, l'impatto di questo nuovo gruppo di ministri sulla politica estera dell'Ue è più importante di quanto si potrebbe pensare, soprattutto se si tiene conto del peso relativo dei loro stati. Ma questo non impedisce loro di difendere gli interessi nazionali.

La strategia polacca è un esempio evidente, e non solo a causa del ruolo attivo del suo ministro nei confronti dell'opinione pubblica di altri paesi. Quando la Polonia presiedeva l'Ue nel secondo semestre del 2011, Varsavia ha aumentato il suo aiuto ai centri polacchi di relazioni internazionali e ha sostenuto decine di testi in tutta l'Ue, allo scopo di mettere le priorità polacche al centro delle discussioni a Bruxelles e nelle altre capitali europee. La Polonia punta sugli analisti del suo ministero, che sono cinque volte più numerosi di quelli della Spagna, e prevede di raddoppiarne il numero entro la fine del 2013. Le idee, le proposte e la partecipazione a una comunità di idee europee che trascende i negoziati fra i governi sono un aspetto centrale della strategia di Varsavia.

La crisi attuale mette in primo piano la crescente interdipendenza fra gli stati membri dell'Ue. Esprimersi attraverso le stesse formule utilizzare nel quadro della diplomazia tradizionale e adottare nell'Ue le stesse procedure usate durante un classico negoziato internazionale può difficilmente rivelarsi efficace.

Il linguaggio diplomatico che trionfa in Europa, l'unico che può contrastare la politica del fatto compiuto e contrastare l'onnipotenza delle tre grandi (Francia, Germania e Gran Bretagna), non si limita ai circoli intergovernativi di Bruxelles, ai vertici e alle ambasciate. Si tratta di uno stile diretto e coraggioso, che non indietreggia di fronte al confronto di idee, che non considera la diplomazia come uno scambio di interessi definiti a livello delle capitali nazionali.

La politica estera europea si sta gradualmente trasformando in un esercizio comune di analisi, di creazione di opinioni e di idee. Non basta enunciare la posizione corretta e poi avviare i negoziati necessari. Concepire e argomentare le proprie idee in uno spazio di pensiero europeo, nei confronti dei governi, dei media, degli analisti e dei cittadini di altri stati, grazie non solo alla cooperazione con gli altri responsabili della diplomazia, ma anche con gli attori sociali, economici e con la stampa costituisce una missione essenziale per i ministeri degli esteri. E chi lo ha capito, a cominciare dalla Polonia, è al centro della nuova politica estera dell'Unione europea.(Traduzione di Andrea De Ritis)

EUROZONA – Da dove deriva la parte illegittima del debito pubblico

La crisi ha scosso l’Unione europea nelle sue stesse fondamenta, scriveva Eric Toussaint nell’aprile 2011 sul portale d’informazione globalresearch.ca : “Con l’aiuto e il favoreggiamento dei governi attualmente in carica, della Commissione europe, della Banca centrale europea e del FMI, gli istituti finanziari responsabili della crisi stanno facendo un sacco di soldi speculando sul debito pubblico.”

“Una parte significativa del debito pubblico nei paesi dell’Unione europea è illegittima – prosegue Toussaint nel suo articolo ancora oggi più che mai attuale – in quanto è il risultato di una politica deliberata da parte dei governi che hanno deciso di privilegiare sistematicamente le classi agiate, a scapito di altri membri della società.
La riduzione delle imposte sui redditi più elevati, sulla ricchezza personale e sugli utili delle società private hanno indotto le autorità ad aumentare il debito pubblico per compensare il calo delle entrate pubbliche.
Essi hanno inoltre aumentato il carico fiscale sulle famiglie a basso reddito, cioè sulla maggioranza della popolazione.
Inoltre, il salvataggio del 2007-2008 delle istituzioni finanziarie private responsabili della crisi, ha significato un enorme dispendio di denaro pubblico e un rapido aumento del debito pubblico. La diminuzione dei ricavi a causa della crisi innescata da istituzioni finanziarie private, ha dovuto essere finanziata ancora una volta dal massiccio ricorso al prestito.

Da tale contesto si evince chiaramente l’illegittimità di una parte significativa del debito pubblico.

In un certo numero di paesi ricattati dai mercati finanziari si devono aggiungere altre fonti evidenti di illegittimità.
Dal 2008 in poi, il denaro pubblico è stato preso in prestito da banche private (ed altre istituzioni finanziarie private), che hanno usato il denaro ricevuto a tassi molto bassi dalle banche centrali, per speculare e costringere i governi ad aumentare gli importi che vengono loro versati.
In paesi come Grecia, Ungheria, Lettonia, Romania e Irlanda, i prestiti del FMI sono stati concessi a condizioni sfavorevoli agli interessi economici e sociali della popolazione. Peggio ancora, queste condizioni favoriscono di nuovo le banche ed altre istituzioni finanziarie. Devono quindi essere considerate illegittime.
Infine, in alcuni casi i governi sono andati contro la volontà del popolo: per esempio, mentre nel febbraio 2011 una grande maggioranza degli irlandesi ha votato contro i partiti che avevano concesso regali ai banchieri ed accettato le condizioni imposte dalla Commissione europea e dal Fondo monetario internazionale, la nuova coalizione di governo ha attuato le stesse politiche di quelle precedenti.

In una tale situazione problematica, sapendo noi che numerosi paesi dovranno presto affrontare uno scenario di insolvenza per mancanza di denaro, e che il rimborso del debito illegittimo è inaccettabile per definizione, dobbiamo parlare a voce alta e chiara a favore della cancellazione del debito illegittimo.
Il costo della cancellazione deve essere sostenuto dalle istituzioni finanziarie private, vale a dire da quelli che sono responsabili della crisi.”

fonte: altrenews.com

TUNISIA - Giornalisti contro le ingerenze del potere

I lavoratori dell'informazione del Paese nordafricano hanno indetto uno sciopero, il 17 ottobre, per manifestare contro le intromissioni dello Stato nei media.

A chiusura dei lavori del direttivo del 25 settembre, il sindacato dei giornalisti tunisini (Snjt) ha indetto uno sciopero generale per il 17 ottobre. Si tratterà di una manifestazione di protesta contro l'ingerenza del potere politico nella nomina dei responsabili dei media pubblici, in particolare la tv, che è il maggiore strumento di raccolta dei consensi da parte del potere tunisino.
I media del Paese nordafricano sono da tempo oggetto di dibattito. Secondo Chouikha Larbi, docente presso l'Istituto di scienze dell'informazione, una priorità in Tunisia è appunto costituita dal «distacco totale dello Stato dai dei mezzi di comunicazione pubblici, che deve realizzarsi al più presto per permettere a questi ultimi di svilupparsi autonomamente».

RUSSIA - Pussy Riot, una voce dal carcere

In attesa della sentenza d'appello del processo per odio religioso a carico del gruppo punk russo, la leader Nadezda ha rilasciato un'intervista a "Elle". Ecco cosa ha detto.

(Elle) Com'è la vita in prigione?
(Nadezda Tolokonnikova) Come in un monastero. Ho sempre sognato di trascorrere parte della mia vita come un'asceta, dunque non mi lamento e non biasimo nessuno. Sono serena, imparo a conoscermi e lavoro su me stessa.

Come hai reagito all'immenso sostegno che le Pussy Riot hanno ricevuto?
Non ho la tv né i giornali. Posso solo immaginare quello che sta succedendo fuori di qui. Comunque i nostri avvocati ci riferiscono quel che accade. Vedo che la solidarietà nei nostri confronti diventa sempre più grande. Vedo che il sistema si divora da solo. Il nostro processo, in particolare, ne è una prova. Nonostante la massiccia propaganda mediatica di Putin, sempre più russi smettono di credere nello Stato e cominciano ad ascoltare noi attivisti, noi manifestanti.

Qual è il vostro stato d'animo?
Siamo positive e ottimiste. Il mio particolare stato d'animo è: niente emotività e niente rimorsi. Voglio essere attiva e comportarmi come sempre. Quando non si ha più niente da perdere, non si può che essere ottimisti. Siamo state condotte a un livello estremo di ottimismo! Non si è riusciti a nascondere o ad affossare il nostro caso. Generalmente il sistema russo fa di tutto affinché le iniziative sociali passino completamente inosservate. Le Pussy Riot sono riuscite a infrangere questa cortina.

Cosa pensi dell'intervento del primo ministro Dmitri Medvedev che si è espresso, a titolo personale, per la vostra liberazione?
Il parere di Medvedev in questa storia non conta niente.

Come trascorri le tue giornate?
Scrivo di tante cose: politica, idee, società, il coming out, la religione, la prigione... Quando si mette la testa in queste cose, tutto il resto va bene.

Come vedi il domani?
Il domani? Solo il tempo potrà dirlo.


Nathalie Dolivo
Articolo originale su Elle, traduzione di Belinda Malaspina

ITALIA - Piemonte, l'M5s attacca Cota

Il consigliere grillino Davide Bono contro il presidente della Regione: «Introdusse lui l'autocertificazione dei rimborsi 11 anni fa. Ora spieghi perché».

di Silvia Caprioglio

Venerdì, 28 Settembre 2012 - La reazione è unanime, e scontata: «Non abbiamo nulla da nascondere». A poche ore dal blitz della Guardia di finanza di Torino il 28 settembre negli uffici dei gruppi politici del Consiglio regionale piemontese, dopo che la procura torinese ha aperto un'indagine per accertare eventuali casi di malversazione, tutti i partiti si dicono certi della propria innocenza e disposti a collaborare con la magistratura. Nel mirino delle Fiamme gialle, i bilanci dei gruppi e le rendicontazioni delle spese dei consiglieri, in particolare le autocertificazioni di missioni e trasferte.  
A innescare la miccia, dopo lo scandalo della Regione Lazio, una dichiarazione del deputato Pdl Roberto Rosso alla trasmissione Iceberg di Telelombardia, durante la quale il parlamentare piemontese ha parlato di un consigliere che si sarebbe fatto rimborsare, spacciandola per impegno istituzionale, una settimana bianca a Sestriere. I riferimenti sembravano portare a Luca Pedrale, presidente degli azzurri in Consiglio regionale, che ha minacciato querela, inducendo Rosso a smentire il suo coinvolgimento, e si è detto non sorpreso per l'arrivo della Finanza.
RESCHIGNA (PD): «SOLO RIMBORSI DOCUMENTATI». Stessa reazione da parte del Partito democratico: «Questa visita non mi stupisce», commenta il capogruppo Aldo Reschigna, «e per certi aspetti auspicavo i controlli; se in un momento storico di sfiducia come questo avessi dichiarato che era tutto a posto, magari non sarei stato creduto. I controlli esterni confermeranno che abbiamo agito secondo le regole». Reschigna sostiene di non avere dubbi nemmeno per il passato, ma per quel che riguarda l'attuale legislatura si dice certo della correttezza del proprio operato: «Da quando sono capogruppo, dalle elezioni di maggio 2010, in accordo con tutti i consiglieri, i rimborsi sono erogati solo a fronte della di presentazione di documenti giustificativi».
Massima disponibilità a collaborare con la magistratura, quindi, o almeno è quanto tutti vogliono far vedere. In casa leghista ci si dice «assolutamente tranquilli che qui si non troverà nulla. Questa giunta è capofila nella riduzione dei costi della politica, già in tempi non sospetti».
L'M5S ATTACCA COTA. Di diverso avviso è invece il capogruppo del Movimento 5 Stelle, Davide Bono, che sferza un duro attacco alla volta del presidente Cota. «L'autocertificazione è stata introdotta nel 2001 dall'allora presidente del Consiglio regionale Roberto Cota e votata da tutto l'emiciclo», spiega Bono, «il governatore dovrebbe essere chiamato a rispondere del perché 11 anni fa ha fatto questa scelta e perché in questo mandato non vi ha posto rimedio. Così come dovrebbe rispondere l'ex presidente Mercedes Bresso del perché non abbia fatto nulla neanche lei».
NECESSARI RISCONTRI OGGETTIVI. Il capogruppo grillino ha depositato un esposto-notizia di reato in procura per chiedere indagini sulle spese consiliari e getta l'affondo sulle misure pro-trasparenza e contro gli sprechi. «Se non si richiedono ai consiglieri date e riscontri oggettivi, i dati pubblicati dal Consiglio regionale delle missioni sul territorio non servono a granché. E anche ridurre le spese dei gruppi, in sé, non impedisce malversazioni, se non si obbliga a giustificare sempre luoghi e date. Credo che in alcuni gruppi si troverà di tutto e di più».
Intanto, il 2 ottobre in Consiglio regionale arriverà la proposta di legge per ridurre i costi della politica, con l’abolizione delle famigerate autocertificazioni e dei viaggi in ambito Ue, la riduzione di quelli nazionali e la certificazione dei bilanci dei gruppi.

ITALIA - Renata Polverini, tutta casa e... Ior

Italiani memoria corta: chi ricorda più la storia delle case dell'ex governatrice del Lazio, che ora si dimette a causa di un consiglio regionale "indegno"?

Il 26 gennaio 2010, con il titolo "la furbetta del palazzo", Marco Lillo, giornalista de il Fatto quotidiano, presenta ai lettori un'inedita Renata Polverini. L'ex segretario generale della Ugl e da ieri ex governatrice della Regione Lazio, avrebbe ottenuto a prezzi stracciati due immobili di lusso a Roma e sull'atto di acquisto del secondo avrebbe dichiarato trattarsi di prima casa per poter usufruire delle agevolazioni di legge (aliquota al 3% invece che al 10).

Ma andiamo con ordine. Come riporta il Fatto, nel 2002 la Polverini, già proprietaria di un immobile nella zona di Monteverde, avrebbe acquistato dall'Inpdap un appartamento all'Eur-Torrino (sette vani e un box) al prezzo irrisorio di 148mila e 583 euro. Subito prima dell'acquisto, per non pagare l'aliquota prevista per la seconda casa, avrebbe donato l'appartamento di Monteverde alla mamma, risparmiando così circa 10mila euro.
Nove mesi dopo alla Polverini si sarebbe presentata un'altra imperdibile occasione: l'acquisto di un appartamento di lusso all'Aventino (sei stanze, tre bagni, due box e tre balconi) al prezzo stracciato di 272mila euro (quanto un mini appartamento in zona periferica). E il venditore, stavolta, è addirittura lo Ior, la Banca vaticana. Essendo a tutti gli effetti una seconda casa, la Polverini avrebbe dovuto pagare il 10% di aliquota. Invece sembra che abbia dichiarato al notaio «di non essere titolare esclusiva di diritti di proprietà di altra casa nel comune di Roma». Peccato che al Catasto la casa del Torrino risulti di sua proprietà fino al 2007, il che significa che la Polverini, acquistando l'appartamento all'Aventino, avrebbe evaso il fisco per 19mila euro (la differenza tra il 3 e il 10% di aliquota). Ma oggi i tempi di legge per gli accertamenti sono scaduti, e la candidata del Pdl non rischia più nulla.

Il 27 gennaio 2010, ossia il giorno dopo la denuncia del Fatto, la Polverini scrive una lettera al quotidiano in cui ammette la notizia e parla di un "disguido": «Il tema su cui è costruito l'intero pezzo riguarda una presunta irregolarità fiscale che - in ogni caso- non avrebbe alcuna rilevanza penale. L'episodio in questione risale a circa otto anni fa, e avvenne in una fase di avvicendamento dei consulenti che seguivano la mia attività; suppongo sia questa la causa del disguido». Se ne deduce che Polverini all'epoca non sapesse che dichiarare il falso in atto pubblico è reato. Ma, nonostante l'ammissione dei fatti, annuncia di aver dato mandato ai suoi legali per procedere contro il giornale diretto da Padellaro.
E il giochetto della donazione del primo appartamento (che poi la madre, sempre stando a quanto dice il Fatto, le avrebbe restituito dopo cinque anni)? E l'acquisto, a prezzi da regalo, di un immobile di lusso dello Ior in una delle zone più esclusive della capitale? E, infine, i suoi presunti rapporti con la controversa Banca vaticana? Silenzio.

Gli elettori della Polverini si saranno accontentati di sapere che tutta la vicenda è stata solo un disdicevole e imbarazzante "disguido". Ormai dimenticato dopo la bufera di proporzioni ben maggiori che ha investito il consiglio regionale portando l'ex sindacalista alle dimissioni.

Cecilia M. Calamani

ITALIA - Pse: due anni di mora, il Psi non vota più

POLITICA AL VERDE - Il partito non ha i soldi per le quote.

Sabato, 29 Settembre 2012 - Senza soldi, sospesi per morosità dal Pse. È quanto successo al Partito socialista italiano, a cui è stato tolto il diritto di voto all'interno della formazione che raduna le più importanti forze della sinistra europea (il Psi è l'unico rappresentante italiano con diritto di voto, dal momento che il Partito democratico, per scelta, è solo osservatore).
STANISHEV PRESIDENTE. Da due anni il partito diretto da Nencini non paga le quote di iscrizione. «Non abbiamo potuto pagare le quote perché non abbiamo ricevuto l'ultima tranche del finanziamento pubblico, ma appena avremo i soldi pagheremo», ha detto l'europarlamentare socialista Pia Locatelli.
Così il Psi non ha potuto prendere parte all'elezione del nuovo presidente Sergei Stanishev, ex premier bulgaro, candidato unico, vincente col 91% dei voti: percentuali bulgare. Come vice è stato eletto il francese Jean-Christophe Cambadelis.
PRESIDENZA COMMISSIONE: SCHULZE POSSIBILE CANDIDATO. All'interno del congresso è stata inoltre lanciata la campagna per le elezioni europee del 2014, per le quali il Pse deve scegliere un candidato unico alla presidenza della Commissione europea (probabile che sia il presidente dell'Europarlamento, il tedesco Martin Schulz).
A Bruxelles Nencini ha lanciato la volata a Bersani per le primarie del centrosinistra: «Abbiamo condiviso col presidente dell'Internazionale socialista, George Papandreou, e col presidente del Pse, Sergei Stanishev la proposta di sostenere Pier Luigi Bersani. Si è ritenuto che i partiti che si richiamano al socialismo europeo sostengano, in piena autonomia, unitariamente, la candidatura attorno alla quale costruire un programma coerente con le idee del Pse, perché l'Italia torni ad essere protagonista con un esecutivo che operi all'insegna di equità, rigore, laicità, innovazione».

venerdì 28 settembre 2012

ITALIA - Kissinger, un criminale di guerra al Quirinale con Napolitano

di Gianni Lannes

 Se Heinz Albert non fosse il maggiore sospettato in qualità di mandante diretto dell’omicidio di Aldo Moro e della strage della sua scorta, le 5 fotografie attualmente in bella mostra sul sito del Quirinale, dell’ex segretario di Stato Usa a colloquio sorridente con il presidente della Repubblica uscente, Giorgio Napolitano, non avrebbero rilievo politico e sociale. Ma c’è di più, Henry il potente boss politico - al servizio di ben due presidenti Usa (Nixon & Ford) è pure ricercato a livello internazionale: infatti, tempo fa, è dovuto fuggire dall’Irlanda dove la polizia stava per arrestarlo in seguito ad una segnalazione di attivisti per i diritti civili. Nel 2001, mentre Kissinger si trovava a Parigi, gli è stato recapitato un mandato di comparizione emanato dal giudice LeLoire per testimoniare sulla scomparsa di cittadini francesi in Cile durante l’era dittatoriale del suo socio generale Pinochet. Invece di presentarsi al magistrato, Kissinger ha preferito fuggire in tutta fretta. Lo stesso ex segretario di Stato USA, vanta una denuncia per concorso nell’omicidio del comandante militare cileno Renè Schneider. Nel 2001 il giudice argentino Rodolfo Corral ha emesso nei suoi confronti un mandato di comparizione per la presunta complicità nell’ ”Operazione Condor”. Ad Henry Kissinger - già membro della Trilateral Commission e del Club Bilderberg - sono imputabili crimini contro l'umanità. L'11 settembre 1973 Kissinger ebbe un ruolo di sostegno attivo ordinando l'utilizzo di caccia statunitensi per mettere a segno il colpo di Stato militare di Augusto Pinochet contro il presidente socialista cileno Salvador Allende, eletto democraticamente. Relativamente ancora poca cosa rispetto alle accuse a ragion veduta dello sterminio di milioni di persone in vari continenti per assicurare il dominio Usa. Nello Stivale nessuno si scandalizza se piomba un macellaio - ombra nera della Cia - che ha trascorso la vita tra affari e genocidi su commissione e detta ancora legge nel nostro Paese a sovranità azzerata.

Impunemente l’ex braccio destro di Nixon atterra in Italia e viene addirittura ricevuto in pompa magna a Villa Madama dal sodale Napolitano che lui stesso definisce “My favorite communist”. In questa tenuta di rappresentanza del ministero degli Esteri, un’associazione privata nord-americana - l’Aspen Institute - ha organizzato una conferenza. Le accuse ad Henry Kissinger si sono fatte molto pesanti, almeno all’estero, come indiscutibilmente è altrettanto forte la richiesta di molti illustri personaggi di revocare il premio Nobel assegnatogli indebitamente nel 1973. E’ certo però che se l’ex Segretario di Stato americano lanciò frasi riguardanti il golpe cileno di questa portata: «Non si può permettere che il Cile diventi marxista, per il semplice motivo che la sua popolazione è irresponsabile» le riflessioni diventano obbligatorie anche da noi. Cile, Uruguay, Argentina almeno a pelle, sangue, dna e storia non ci sono indifferenti come, il Pakistan, l’Indonesia e Timor Est.

Delitto Moro - Nel 1982 grazie alla testimonianza giurata in sede giudiziaria diCorrado Guerzoni (collaboratore di Moro) - prontamente rimossa e dimenticata dagli addetti ai lavori di pulizia ed ignota alla coscienza collettiva - l’Italia e l’Europa (ma non gli Stati Uniti) appresero che Kissinger era dietro la morte di Aldo Moro. Sicuro nella sua posizione di membro della più potente fra le società segrete del mondo, il tedesco Kranz non solo terrorizzò Moro, ma portò avanti le sue minacce di far “eliminare” l’uomo politico pugliese se non avesse rinunciato al progetto di far progredire l’economia e l’industria in Italia.

Nel giugno e luglio di 30 anni fa, la moglie di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli Moro, testimoniò in tribunale che l’assassinio del marito fece seguito a serie minacce di morte, esercitate da colui che lei definì «una figura politica americana di alto livello». La signora Eleonora Moro ripeté la stessa frase attribuita ad Henry Kissinger nella testimonianza giurata di Guerzoni: «O tu cessi la tua linea politica oppure pagherai a caro prezzo per questo». Richiamato dai giudici, a Guerzoni fu chiesto se poteva identificare la persona di cui aveva parlato la signora Moro. Guerzoni confermò che si trattava di Henry Kissinger, come d’altra parte aveva precedentemente dichiarato. Il giornalista Guerzoni spiegò in tribunale come Kissinger fece le sue minacce ad Aldo Moro in una stanza d’albergo durante una visita ufficiale di alcuni leader italiani. Secondo Guerzoni, Moro, che solo in seguito divenne Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, era un uomo di prim’ordine, uno che non si sarebbe mai piegato a minacce ed avvertimenti di stile mafioso. Moro era accompagnato nella sua visita agli Usa dal Presidente della Repubblica in carica. Kissinger era un importante agente del RIIA, un membro del CFR e del Club di Roma.

Ecco come l’analista John Coleman ha ricostruito e documentato l’eliminazione di Moro ed il coinvolgimento di Kissinger, nel libro THE STORY OF THE COMMITTEE OF 300 (pubblicato nel 1992 e mai tradotto in Italia).

«Aldo Moro fu un leader che si oppose alla “crescita zero” e alla riduzione della popolazione pianificata dal NWO per l’Italia, per questo incorrendo nelle ire del Club di Roma, un’entità creata dagli Olympians della Commissione dei 300 per portare a compimento le sue politiche. In un tribunale di Roma, un amico intimo di Aldo Moro, il 10 di Novembre del 1982, testimoniò che l’ex Presidente del Consiglio fu minacciato da un agente della RIIA (Istituto Reale per gli Affari Internazionali) – che era anche membro della Commissione dei 300 – mentre era il Segretario di Stato USA in carica. Quest’uomo era Henry Kissinger . Moro fu rapito dalle Brigate Rosse nel 1978 ed in seguito assassinato brutalmente. Fu al processo alle Brigate Rosse che diversi di loro testimoniarono che erano a conoscenza di un coinvolgimento degli USA ai massimi livelli nel complotto per uccidere Aldo Moro. Mentre minacciava Moro, Kissinger stava agendo non in qualità di rappresentante della politica estera degli Stati Uniti, ma piuttosto secondo le istruzioni ricevute dal Club di Roma, il braccio che si occupava della politica estera della Commissione dei 300».

Nella sua esposizione di questo atroce crimine, Coleman dimostrò come Aldo Moro, un leale membro del partito della Democrazia Cristiana, fu ucciso da assassini controllati dalla loggia Massonica P2 con l’obiettivo di riportare l’Italia in linea con i piani del Club di Roma per deindustrializzare il paese e ridurre in modo considerevole la sua popolazione. Il piano di Moro di stabilizzare l’Italia attraverso la piena occupazione e la pace industriale e politica avrebbe da una parte rafforzato l’opposizione cattolica al comunismo e dall’altra reso la destabilizzazione del Medio Oriente molto più difficile. L’Italia fu scelta come paese-test dalla Commissione dei 300. L’Italia è importante per i piani dei cospiratori perché è il paese occidentale avente rapporti politici ed economici col Medio Oriente più vicino a tale area. Inoltre ospita alcune delle famiglie della Nobiltà Nera più potenti d’Europa. Se l’Italia fosse uscita indebolita dall’affaire Moro, ci sarebbero state ripercussioni anche nel Medio Oriente, e questo avrebbe indebolito l’influenza degli USA nella regione. L’Italia è importante anche per un’altra ragione: è la porta d’ingresso in Europa della droga proveniente dall’Asia e dal Libano.

Vari gruppi si sono aggregati sotto la bandiera del “socialismo” da quando si formò ufficialmente il Club di Roma (Aurelio Peccei) nel 1968. Fra questi, la Nobiltà Nera di Venezia e Genova, la loggia Massonica P2 e le Brigate Rosse, tutti operanti per i medesimi scopi. Investigatori della Polizia a Roma che operavano nel caso di Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse incapparono nei nomi di diverse potenti famiglie italiane che operavano in modo stretto con i terroristi. La Polizia scoprì anche che in almeno una dozzina di casi, queste potenti famiglie bene in vista avevano messo a disposizione le loro case o proprietà come covi sicuri per le Brigate Rosse.

La “nobiltà” finanziaria internazionale opera analogamente per distruggere la Repubblica Italiana, ed un grande apporto è stato offerto da Richard Gardner anche nel periodo in cui svolgeva il ruolo di ambasciatore del presidente Carter a Roma. Non a caso la recensione di Giorgio Napolitano al libro di Gardner (Mission: Italy) - che “re Giorgio” chiama affettuosamente “Dick” - è stata pubblicata proprio dalla rivista Aspenia (numero 27, anno 2004) è oltremodo illuminata. Insomma, tutto torna prima o poi, basta dare un’occhiata ai contenuti reali senza farsi confondere dagli abbagli. Nel Gruppo dei 300 figurano anche gli italiani Giovanni Agnelli, Umberto Ortolani (il vero deus ex machina della P 2) e Carlo De Benedetti.

16 marzo 1978 - «49 dei 92 proiettili che furono ritrovati in via Fani erano ricoperti da una particolare vernice a lunga conservazione - specifica l’esperto storico Gianni Cipriani - ed erano senza la data di fabbricazione. La prima perizia parlò di proiettili un uso a forze armate non convenzionali».

Colpì la geometrica potenza. Le brigate rosse non avevano la forza né la capacità di portare a termine un sequestro militarmente così complesso. Si trattava di un’organizzazione fatta da giovani con poca o scarsa esperienza bellica. A parte gli infiltrati dei servizi segreti, addestrati a Capo Marrargiu in una base di Gladio. E poi un rapimento in pieno giorno nel centro di Roma, nella primavera del 1978, tutte le sue guardie del corpo freddate in pozze di sangue. Inverosimile.

Federico Umberto Valerio, a capo per decenni dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, nonché fondatore, anzi “padrino” (come amava ricordare e farsi chiamare) del Club di Berna - che riunisce i servizi segreti europei, elvetici ed Usa - si è vantato che «Le brigate rosse erano ampiamente infiltrate». Inoltre, tutti i componenti delle br erano noti agli ambiti di comando superiore di carabinieri, polizia e servizi segreti.

Lo storico dell’intelligence italiana, Gianni Cipriani così argomenta: «Valerio Morucci il brigatista che fu arrestato non molto temo dopo l’eliminazione di Aldo Moro aveva un’agenda piena di documenti e di numeri di telefono con annotazioni molto riservate. E tra queste, quella del generale Giovanni Romeo a che era capo dell’Ufficio D del Sid, cioè l’ufficio più importante durante il sequestro. E’ stato proprio il generale che nel 2001 in Commissione Stragi ha parlato in maniera chiara della presenza di agenti dei servizi segreti all’interno delle brigate rosse». Anzi, la mattina dell’agguato sul luogo della mattanza c’era il colonnello Guglielmidell’ufficio sicurezza interna (già addestratore di Capo Marrargiu) che interrogato in seguito ha dichiarato una cosa piuttosto singolare. Vale a dire di “essere stato invitato a pranzo da un amico alle nove del mattino”.


Anche a Giovanni Galloni - certo non l’ultimo arrivato - tornò in buona fede la memoria parecchio tempo dopo. Così riporta il settimanale L’Espresso (14 maggio 2007): «Ci sono dei fatti nuovi da scoprire e da introdurre», dice Galloni, «perché non tutte le cose su Moro sono state dette, soprattutto quelle che riguardano la sua fine». Perché solo adesso? Perché, a quasi trent'anni di distanza dalla strage di via Fani e dal ritrovamento del cadavere di Moro nel bagagliaio della famosa R4 rossa, l'ultraottantenne Giovanni Galloni avverte la necessità di riaprire questo capitolo della storia italiana e, soprattutto, della Democrazia Cristiana di cui entrambi furono esponenti di primissimo piano? Gli aspetti ancora nell'ombra, per Galloni, sono soprattutto due: «Le quattro sentenze che ci sono state sulla morte di Moro non hanno soddisfatto la magistratura. Una parte di quei magistrati, compreso il fratello di Moro, mi ha detto di aver rifiutato i verdetti dei tribunali. Sono convinti che le Br abbiamo negato di avere avuto alle loro spalle altri esecutori solo per ottenere degli sconti di pena, che ci sono stati. E ora anche questo va chiarito».

Henry Kissinger è anche proprietario della Kissinger Associates, una società che offre consulenze e contatti a multinazionali e società in genere e che annovera, o ha annoverato tra la sua clientela, le più grandi industrie mondiali come la Coca-Cola, la Daewoo, l’American Express, l’Anheuser-Bush, la Banca nazionale del Lavoro, la Fiat; particolarmente riconoscente alla K.A. è la Freeport McMoran, una società mineraria che ha in gestione la più grande miniera d’oro al mondo e che si trova a Grasberg in Irian Jaya (la parte occidentale della Nuova Guinea annessa dagli indonesiani).

A 34 anni dall’assassinio dello statista Aldo Moro le carte sono ancora vergognosamente coperte dal segreto, in palese violazione della legge 124 dell’anno 2007 che aveva stabilito il limite temporale di 30 anni alla consultazione libera.Ed il generale Dalla Chiesa ci ha rimesso la pelle insieme alla moglie, esattamente dopo le conferme e rivelazioni in tribunale sulle minacce di Kissinger a Moro.

ITALIA - Goldman Sachs vota per il Pd

La banca d'affari aspetta che una maggioranza di centrosinistra segua la linea Monti
Tra gli scenari del report anche il ricorso del premier al fondo Efsm-Esm prima del voto per legare le mani al suo successore


Di Antonio Satta

Le polemiche saranno inevitabili. Per le prossime elezioni Goldman Sachs scommette sul Pd. Il colosso finanziario americano, a sette mesi dalle elezioni politiche italiane, ha pubblicato un report che farà rumore, nel quale si sostengono le chance di una maggioranza di centro sinistra incentrata sul Pd. E questa maggioranza molto probabilmente manterrebbe la linea Monti, anche se non è chiaro se riconfermerebbe Mario Monti a capo del governo. In ogni caso, secondo il report, difficilmente il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, porterà il Paese alle elezioni prima di aver risolto la questione della riforma elettorale. Goldman Sachs ritiene «probabile che vengano introdotte modifiche alla legge con l’idea di garantire una coalizione centrista a favore di una conferma di Monti».

Ora non si può dire che a Goldman Sachs non conoscano la politica e gli effetti che una dichiarazione del genere può scatenare. Se c’è una banca d’affari che con la politica e i governi, in patria e all’estero, ha avuto relazioni strettissime è proprio GS. In America hanno tirato in ballo le revolving doors (le porte girevoli) per definire il fenomeno tipico in Goldman di un dirigente di primo piano che lascia Lloyd Blankfein il suo incarico per passare al governo, e magari, finito il mandato, torna tranquillamente alla casa madre. Per limitarci all’Italia, Mario Draghi è stato vicepresidente di Goldman Sachs per l’Europa dal 2002 al 2005, ma tra i consulenti della banca d’affari ci sono stati anche Gianni Letta, Romano Prodi e Mario Monti.

Ebbene, ora gli analisti di Goldman Sachs, peraltro molto attiva nella vendita di Btp nei momenti in cui lo spread era salito alle stelle e grande sostenitrice di un governo Monti post-Berlusconi nelle fasi calde del novembre scorso, scrivono che il tempo del governo tecnico del loro autorevole ex collega, «sta per finire» e «l’Italia potrebbe risentire dell’incertezza politica collegata alle future elezioni politiche in agenda ad aprile 2013».

Il maggior rischio per il Paese, secondo la banca d’affari, verrebbe da una vittoria delle forze euroscettiche e tra queste colloca il Pdl di Silvio Berlusconi e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Del resto, scrivono gli analisti, «le riforme impopolari del governo Monti, ad esempio l’Imu dal valore di 20 miliardi di euro all’anno, hanno favorito campagne politiche anti-europee e anti-euro di vari partiti». Non va nemmeno sottovalutato l’appeal politico di Grillo, perché «ha buone opportunità di guadagnare un gran numero di seggi in Parlamento, riflettendo la disaffezione degli italiani all’esistente establishment politico.»

GS rimane cauta, ma comunque «costruttiva», sulle dinamiche di mercato dei titoli di Stato italiani che potrebbero soffrire se la credibilità del nuovo programma di acquisto della Bce fosse messa in discussione, soprattutto in considerazione del debole scenario macroeconomico. Ma pesa anche l’incertezza sugli esiti delle prossime elezioni, tanto che gli analisti arrivano a delineare tre possibili scenari che potrebbero portare l’Italia a ricorrere al programma di aiuti Efsf/Esm, così ribattezzati: il vincolato, il tattico e il mani-legate». Nel primo scenario («il meno probabile») l’Italia potrebbe essere obbligata a ricorrere ai fondi per il riemergere «delle tensioni sull’obbligazionario» che potrebbero rendere «illiquido il mercato dei Btp»; un’ipotesi possibile con «una vittoria dei partiti anti-europei». Nel secondo scenario, il governo italiano potrebbe «tatticamente» vincolarsi al Fondo salva Stati prima delle elezioni, «senza in realtà averne bisogno», annullando il rischio contagio dalla Spagna.

Il terzo e ultimo scenario prevede che la richiesta di sostegno possa essere avanzata da Monti stesso, prima delle elezioni, per «legare le mani al suo successore».

Fonte: milanofinanza.i

giovedì 27 settembre 2012

GERMANIA - Altolà della Chiesa cattolica: niente sacramenti senza l’8×1000

In Germania la Chiesa, in seguito al crollo dei versamenti dell’8×1000, esce allo scoperto in un modo che sfiora il grottesco.

D’ora in poi se volete considerarvi cristiani dovete pagare. Altrimenti non avrete diritto ai sacramenti, neppure in caso di morte. Infatti chi non dimostra di aver barrato l’opzione in favore della chiesa nella dichiarazione dei redditi non potrà alla sua morte avere un funerale cristiano.

Ma il compagno Gesù non aveva detto che anche i più poveri e diseredati erano comunque figli di Dio?

Da quando per essere tali occorre la patente fiscale?

Chi non versa l’8 per mille alla Chiesa non è più cattolico e non puo’ avere accesso ai sacramenti, compreso il funerale religioso: è la dura presa di posizione assunta dalla Conferenza episcopale della Germania con l’avallo del Vaticano in risposta alla fuga dei cattolici tedeschi dal pagamento del contributo. A partire da lunedì prossimo chiunque dichiarerà la sua uscita dalla comunita’ ecclesiastica di appartenenza, risparmiandosi così il pagamento dell’8 per mille, si porrà al di fuori della Chiesa cattolica.

Nel documento reso noto a Berlino si sottolinea che l’uscita formale dalla Chiesa costituisce “una grave mancanza nei riguardi della comunità ecclesiale”. “Chi per qualunque motivo dichiara davanti all’autorità civile la propria uscita dalla Chiesa”, e’ scritto nel documento, “viene meno all’obbligo di appartenenza alla comunità ecclesiastica e a quello di consentire alla Chiesa con il suo contributo finanziario di assolvere alle proprie mansioni”.

Chi non paga l’8 per mille non verrà più considerato cattolico e non potrà dunque più avere accesso ai sacramenti, come la confessione, l’eucarestia, ne’ potra’ piu’ essere padrino di battesimo. In caso di morte, poi, gli verra’ negato il funerale religioso, anche se non verra’ automaticamente scomunicato. Con questa misura la Chiesa cattolica cerca di arginare il crescente rifiuto di contribuire al suo sostentamento, ai quali basta una semplice dichiarazione alla cancelleria di un tribunale per essere esentati dal pagamento.

Negli ultimi tempi il fenomeno ha assunto grazie alla crisi una dimensione sempre piu’ considerevole, anche per i credenti di fede evangelica, che per risparmiare decidono di uscire dalla Chiesa di appartenenza. Finora le conseguenze sul piano ecclesiastico erano praticamente nulle, mentre adesso chi esce si vedra’ rifiutare ogni tipo di sacramento. Dal 1990 in poi oltre 100mila tedeschi all’anno hanno voltato le spalle alla Chiesa cattolica, mentre nel 2011 e’ stato toccato il record di 126.488 autoesclusioni.

Per tentare di arginare il fenomeno la Chiesa cattolica intende agire in futuro anche in maniera attiva, inviando a chiunque ha dichiarato al tribunale la propria uscita una lettera di invito a parlarne con il proprio parroco. Nel colloquio si cerchera’ di convincere l’eventuale pecorella smarrita a ripensarci e a tornare all’ovile.

Fonte: iconicon.it/blog - tratto da stampalibera.com

ITALIA - Officina Pd, il boss Bersani e il tecnico Renzi (s)ragionano sulle adozioni gay

Il segretario dei democratici e il sindaco di Firenze esprimono le loro riserve sulla visione di Pisapia in materia di famiglie alternative.

L'apertura di Pisapia alle adozione per le coppie omosessuali ha suscitato un terremoto nella carrozzeria Pd. Rottamatori e rottamandi, sorpresi dalle parole del sindaco di Milano, devono avere ben pensato di mostrare il loro vero volto: che non sembra proprio quello di un partito di sinistra, attento ai diritti civili come dovrebbero essere i partiti di sinistra. Anche quando, come Pisapia, si dichiara di parlare «a titolo personale»: ovvio e anche un po' superfluo nel caso in questione, visto che le adozioni non sono certo di competenza dei sindaci.
Renzi, il nuovo che avanza, intervenuto a Porta a Porta ha chiarito la sua posizione in materia di famiglie alternative: ok ad un generale riconoscimento dei fantomatici «diritti alle coppie gay», ma «sulle adozioni ho molti dubbi». L'adozione, caro sindaco, non rientra forse tra i «diritti» di cui sopra? Forse. Perché tanto per confondere le acque il rottamatore del Pd ha aggiunto che «semmai bisogna fare una riforma delle leggi sulle adozioni». Se dovesse riparare le auto come espone le proprie idee, i petrolieri arabi sarebbero sul lastrico già da tempo.

Stesso tono il vecchio che rimane, Bersani, che sfodera opinioni da perfetto cattocomunista. Secondo il pilota del Pd, infatti, la questione è delicata e «non può essere sbrogliata in un paio di battute». Atteggiandosi a maestrina dalla penna rossa Bersani fa notare che ci sono «molti bambini e ragazzi che vivono con coppie gay. C'è una situazione di fatto che non ha nessun elemento di attenzione», ha spiegato il boss. «Bisogna vedere prima di tutto le condizioni, vedere come sono messe le cose sul piano giuridico e come sono messe nella vita reale dei percorsi scolastici». Un genitore omosessuale, insomma, non sarà mai un genitore come tutti gli altri. Porterà i bimbi a fare tardi la sera in discoteca e nelle dark room e la mattina, invece di andare a scuola, i pargoli dei gay si faranno belli nelle saune. «Siamo di fronte a un tema delicato», ha concluso Bersani, «su cui ci vuole grande attenzione e cautela». Giusto: la stessa che ci vuole per le famiglie tradizionali, che da un po' di tempo a questa parte balzano agli onori della cronaca non certo per quanto sono unite e felici.
Insomma fumata nera dall'esausto motore Pd. Sia chiaro, nessuno rimpiange Silvio, il presidente operaio: ma se i meccanici del post berlusconismo sono questi, sarebbe ora che l'officina cambiasse gestione.

Belinda Malaspina

ITALIA - Caso Sallusti: la menzogna non è libertà di espressione

Il dibattito infuocato sulla condanna del direttore de Il Giornale rischia di mischiare aspetti diversi delegittimando da un lato la magistratura, dall'altro lo stesso giornalismo.

Difficile esprimere, come fanno oggi tutti i colleghi e la stessa Federazione nazionale della stampa italiana, solidarietà ad Alessandro Sallusti, ex direttore di Libero e direttore dimissionario del Giornale, per la sentenza che lo vede condannato per diffamazione.
Difficile se si è letto il pezzo incriminato che non esprime un'opinione come tutta la stampa e la politica di matrice berlusconiana vorrebbero far intendere, ma una distorsione dei fatti resa ancora più odiosa dall'argomento, delicatissimo e controverso: l'aborto di una tredicenne.
Ancor più difficile se è noto il personaggio, il modo in cui scrive, la violenza ingiuriosa e populista con la quale da sempre ha condotto il proprio lavoro di giornalista che dovrebbe consistere, in primo luogo, nell'analisi della realtà e nella sua traduzione in un punto di vista serio e credibile anche se non necessariamente condivisibile.

Tuttavia, una seria riflessione dovrebbe trattare separatamente i due aspetti rilevanti della vicenda. Il primo riguarda la sua eco mediatica, ed è la distorsione della sentenza che non parla affatto di reato di opinione, come gli ambienti vicini al giornalista vorrebbero far credere, ma di diffamazione aggravata, ossia di menzogna. Due cose ben diverse che confondere tra loro è un atto di cosciente manomissione della realtà ad uso e consumo di quella destra strillona, volgare e populista che ha tutto l'interesse a difendere uno dei suoi più illustri rappresentanti sulla carta stampata. Tanto più che, incurante della condanna, Sallusti continua a portare avanti la battaglia contro la "magistratura comunista" su cui lo stesso Berlusconi ha costruito la sua fortuna di "perseguitato". «Non chiederò la grazia a Napolitano perché, detto con rispetto, nel suo settennato nulla ha fatto di serio e concreto per arginare quella magistratura politicizzata che con odio e bava alla bocca si e' scagliata contro chiunque passasse dalle parti del centrodestra e che ora, dopo avere ripassato i politici, vuole fare pulizia anche nei giornali non allineati alle loro tesi» scrive oggi sul Giornale il direttore dimissionario. E anche qui ci sarebbe da discutere se si tratta di opinione oppure di nuova diffamazione. Ma lo valuterà la magistratura stessa.
Il secondo aspetto riguarda la pena (poi sospesa), inappropriata in uno stato civile. 14 mesi di reclusione per un giornalista, seppur reo di diffamazione aggravata a mezzo stampa, non sono giustificabili in un ordinamento che sappia distinguere la delinquenza comune dall'uso, se pur improprio, della penna.

Come al solito, nel gran calderone della stampa italiota i due aspetti vengono confusi e invertiti, divenendo due facce della stessa medaglia. Il messaggio che filtra quasi indisturbato è: un direttore di giornale è stato condannato a 14 mesi di carcere per aver pubblicato un'opinione. Un'infamia verso la magistratura, che si è limitata ad applicare la legge, e verso la stessa professione di giornalista che chi afferma di difendere invece infanga.
Allora cominciamo a scindere le due cose e a considerarle separatamente. Sallusti non risponde di reato di opinione ma di diffamazione aggravata; tuttavia la privazione della libertà è pena troppo severa e inconciliabile con il senso "comune" della giustizia. Questi sono i termini corretti sui quali impostare la critica e la successiva discussione. Tutto il resto è solo mistificazione.

Cecilia Calamani

GERMANIA - Berlino, il tramonto di Kohl

La Germania scarica l'ex cancelliere malato.

di Barbara Ciolli

Giovedì, 27 Settembre 2012 - È l'eterno scartato del Premio Nobel per la Pace e, a 30 anni dall'ascesa al cancellierato, non è riuscito neanche a farsi eleggere il cancelliere più amato dai tedeschi.
In Germania, il capo del governo rimasto più nel cuore non è il padre della riunificazione Helmut Kohl, ma l'architetto della pacificazione: Helmut Schmidt.
Tuttavia per le celebrazioni del suo ingresso, nell'ottobre del 1982, alla guida dell'allora Repubblica federale, Kohl è riapparso in pubblico: il Bundestag e i cristiano-democratici della Cdu lo hanno onorato, libri e convegni sono stati presentati in suo omaggio e tra i politici molte braccia calorose sono tornate a stringersi attorno a lui.
BOCCIATO DAI TEDESCHI. Eppure il popolo che dal 2005 vota la sua ex pupilla Angela Merkel non lo perdona. Probabilmente per la macchia lasciata dallo scandalo sui fondi illeciti al partito che, alla fine degli Anni 90, minò l'eredità politica del principale artefice della caduta del Muro.
Se, infatti, nei sondaggi Merkel è ancora considerata il cancelliere che i tedeschi vorrebbero avere dopo le elezioni del 29 settembre 2013 - con 21 punti percentuali di vantaggio sullo sfidante socialdemocratico (Spd) Frank Walter Steinmeier nella classifica dell'istituto di ricerca Forsa - Kohl è addirittura precipitato al terzo posto, con il 18% delle preferenze, tra i cancellieri più grandi della Bundesrepublik.

Il cancelliere segnato dai lutti e usato dalla giovane moglie


Prima di Kohl, dopo il 94enne e padre nobile della socialdemocrazia tedesca Schmidt (29%), al secondo posto si è piazzato anche il fondatore della Cdu Konrad Adenauer (22%), compagno di partito di Kohl.
Colpa di tanta disaffezione, ha scritto Der Spiegel che all'Altkanzler (vecchio cancelliere) reietto ha dedicato l'ultima copertina, non è solo dovuta agli affaire sui proventi della vendita di carri armati all'Arabia Saudita e sulle tangenti incassate dalla Cdu, che di certo infangarono le indubbie vittorie politiche dello statista.
SCARICATO E ISOLATO. Nel lungo ritratto confezionato dal settimanale tedesco, Kohl viene descritto come un gigante del 900, ormai scaricato dai cittadini, segnato dalla malattia invalidante che gli ha tolto anche la facoltà di parola e dal grave lutto famigliare della prima moglie Hannelore - suicida nel 2001, sfiancata anche lei da una grave malattia - infine isolato dalla seconda moglie, la 48enne Maike Richter, e da parenti privi di scrupoli.
UN DECLINO DA EROE. A detta dei retroscena del magazine, a 82 anni il cancelliere che ha scritto pagine decisive della storia del secolo breve, è accerchiato da nemici che lo usano e si troverebbe in una condizione di reclusione e di perdita quasi completa di autonomia.
Una vicenda personale tragica, che, nonostante gli errori compiuti, nella caduta dovrebbe rendere Kohl quasi un eroe. Invece il destino sembra accanirsi senza sosta sull'Altkanzler in disgrazia.

La lotta contro Merkel e la coltellata del biografo


A settembre, il settimanale Focus lo ha additato come possibile «colpevole della crisi dell'euro», intervistando lo storico Hans Peter Schwarz, autore di una nuova biografia critica sul successore di Schmidt e convinto delle responsabilità di Kohl nel fallimento della moneta unica.
Cancelliere dal 1982 al 1998, Kohl rischia poi di essere messo a nudo anche dal suo ex ghostwriter Heribert Schwan, che, in occasione del 30ennale, ha promesso nuove, scottanti rivelazioni sui segreti politici del vecchio cancelliere.
I SEGRETI POLITICI. In un'intervista allo Spiegel, concessa a margine del lungo ritratto sull'«imprigionato», il documentarista, autore nonché biografo di casa Kohl - è del 2011 il libro di Schwan sulla moglie Hannelore - ha annunciato di voler scrivere un volume con i retroscena degli otto anni trascorsi gomito a gomito con l'ex cancelliere. «Possiedo un tesoro unico, conosco tutte le sue debolezze. Il 10% di questo materiale è finito nelle memorie, ma il 90% è ancora inedito», ha dichiarato Schwan, che in passato ha avuto accesso a 13 faldoni di documenti raccolti dalla Stasi su Kohl.
L'uscita del libro è annunciata per il 2020, anno ideale «per una nuova biografia in occasione del suo 90esimo compleanno».
LE BATTAGLIE DI KOHL. Per leggerla, i tedeschi dovranno quindi attendere un bel po'. E il vecchio cancelliere, che grazie a un ricorso finora è riuscito a impedire che i documenti diventassero pubblici, dovrà rassegnarsi a un'altra lunga battaglia.
La determinazione non gli manca. Dopo una rovinosa caduta nel 2008, Kohl combatte quotidianamente con i traumi debilitanti al cervello, che hanno compromesso la sua autonomia.
Ma non lo hanno fatto smettere di combattere contro la politica della cancelliera, sua allieva e poi (anch'essa) sua traditrice. «Angela sta rovinando la mia Europa», «la sua Germania non possiede più una bussola», ha chiosato l'Altkanzler nelle ultime interviste di fuoco.

USA - Swing States: Obama stacca Romney

Il presidente è sempre più avanti: 10 punti in Ohio e 11 in Florida.

di Ugo Caltagirone

È oramai una battaglia senza esclusione di colpi quella tra Barack Obama e Mitt Romney per la conquista degli 'swing state', gli Stati chiave fondamentali per vincere le presidenziali del 6 novembre.
Gli ultimi segnali sono positivi per Obama: aumenta proprio negli Stati chiave come Ohio e Florida il vantaggio del presidente sul suo avversario, secondo l'ultimo sondaggio New York Times/Cbs.
SFIDA IN OHIO. Nell'industriale Ohio - profondo Midwest degli Stati Uniti - i due si sono resi protagonisti di un'appassionante sfida a breve distanza: l'inquilino della Casa Bianca alla Bowling Green State University, a Sud di Toledo; l'ex governatore a Westerville, alla periferia di Columbus, circa 200 chilometri più a a Sud.
E parlando praticamente in contemporanea, con le tivù americane che rimpallavano le immagini di Obama che in un comizio ha accusato il rivale di «cancellare la metà degli americani» e quelle di Romney che in un dibattito pubblico ha rinfacciato al presidente una crisi dell'occupazione senza precedenti.
«BASTA OBAMA, DOBBIAMO CAMBIARE». «Non possiamo permetterci altri quattro anni di Obama, dobbiamo fare meglio», ha affermato l'ex governatore del Massachusetts, che ha assicurato in caso di sua elezione una svolta non solo in politica economica ma anche in politica estera.
Promettendo soprattutto una linea dura contro la Cina, rea di porre in atto politiche commerciali sleali che danneggiano le imprese e i lavoratori americani. Una linea molto più dura di quella dell'attuale presidente, che da sempre i repubblicani accusano di essere debole, accondiscendente, poco risoluto: non solo nei confronti di Pechino, ma anche di Teheran e di altre capitali del mondo islamico.
In contemporanea - in un botta e risposta che ha anticipato il primo vero dibattito presidenziale del 3 ottobre - Obama ha replicato colpo su colpo. Ha affermato come sul fronte della politica estera Romney «non è credibile», come non sono credibili i suoi «toni duri contro la Cina».
«ROMENY IGNORA METÀ AMERICA». Poi il presidente è tornato sulla famigerata frase del candidato repubblicano che in un video 'rubato' ha affermato di disinteressarsi del 47% degli americani meno benestanti: così «Romney cancella la metà del Paese», ha tuonato Obama, ripetendo come il suo rivale non abbia in alcun modo a cuore le sorti della gran parte della middle class, e pensi solo ad agevolare i più ricchi.
Ohio, dunque, campo di battaglia, come altri nove Stati che possono essere decisivi per eleggere il nuovo presidente. È soprattutto Mitt Romney che spera di uscire rafforzato nelle prossime ore, visto che il vantaggio di Obama nei principali sondaggi aumenta sempre di più.
E aumenta proprio negli Stati chiave come l'Ohio, che insieme alla Florida assegna il maggior numero di grandi elettori (rispettivamente 18 e 29): secondo l'ultima rilevazione New York Times/Cbs, nel primo dei due Stati l'inquilino della Casa Bianca è in testa di 10 punti; nel secondo di 11 punti.
Un divario che comincia a essere difficile da colmare. Anche se il candidato repubblicano sa di avere alle spalle una vera e propria macchina da guerra, soprattutto per quel che riguarda le risorse finanziarie. Soldi in grado di cambiare la situazione nelle ultime settimane prima del voto. Ecco perché nello staff di Obama la parola d'ordine è 'estrema prudenza', nonostante i sondaggi.

Ansa