Pensare Globale e Agire Locale

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martedì 25 settembre 2012

LIBIA - Rivolta permanente

Il Paese alla prova sicurezza. Bengasi contesta le milizie.

di Giovanna Faggionato

Girano con il kalashnikov sulle spalle e sul volto il sorriso di chi si sente un eroe. Al petto hanno appuntate stelle immaginarie, quelle dei combattenti che con la vittoria hanno conquistato l'ingresso nella storia. Le milizie libiche sono riuscite a trascinare nella polvere la dittatura quarantennale del colonnello Muhammar Gheddafi, ne hanno fatto a brandelli l'impero, e in nome della libertà si sono divise terra, armi e potere.
Ora però la popolazione ha chiesto loro di lasciare il passo.

 LA MARCIA DEI 30 MILA. Venerdì 21 settembre in 30 mila hanno marciato per le strade di Bengasi per chiedere ai colpevoli dei disordini al consolato Usa di lasciare la città. Hanno assaltato le sedi dei miliziani, appiccato il fuoco e risposto agli spari: praticamente una seconda rivoluzione. Tanto che il governo finora incapace di controllare il traffico e la detenzione di armi, ha ordinato la dissoluzione delle bande armate non autorizzate, in nome della sicurezza e di una convivenza pacifica per tutti.
IL TEMPO DELLE ARMI È SCADUTO. Ma la legittimità dei gruppi armati è di difficile definizione e anche quelli che agiscono sotto il mandato del ministero degli Interni rivendicano autonomia.
Il compito di riportare l'ordine dunque è arduo e l'intelligence americana, pur presente, finora non è sembrato all’altezza della missione. Resta un'unica via: tocca ai libici dimostrare di saper passare dal tempo delle armi a quello della costruzione dello Stato, da quello della guerriglia a quello della politica.

Il fallimento dell'intelligence e la popolazione in rivolta


Da tempo Tripoli ha perso il controllo di intere aree del Paese: l'universo degli ex combattenti è un calderone di sigle e appartenenze: ci sono gli oppositori che hanno riscattato anni di prigionia in carcere, i guerriglieri scesi dalle montagne per liberare la capitale, i gruppi integralisti, i salafiti e gli affiliati ad al Qaeda. C'è chi ha preso sul serio il compito di garantire la sicurezza e chi taglieggia i commercianti; chi difende gli ospedali e chi depreda i villaggi.
LA CIA AL LAVORO. Eppure il territorio è presidiato, e da tempo, anche dai servizi statunitensi. Quando Washington ha ordinato di evacuare il Paese, decine di cittadini americani si sono ritrovati in fila all'aeroporto di Bengasi. Soprattutto diplomatici e agenti di sicurezza.
MA GLI STANDARD DI SICUREZZA SONO LACUNOSI. La Cia, la prima agenzia di intelligence a stelle e strisce ha ammesso di aver dispiegato il suo personale per tracciare gli spostamenti degli armamenti che componevano l'arsenale dell'ex raìs Gheddafi, per mettere in sicurezza i depositi di armi chimiche e per addestrare gli agenti segreti della nuova Libia.
Tuttavia fonti diplomatiche hanno fatto notare come nella stessa Bengasi, dove è avvenuta la morte dell'ambasciatore J. Christopher Stevens, mancassero i più semplici standard di sicurezza e non vi fosse per esempio una sede di emergenza da affiancare ad ambasciate e consolati per garantire la protezione al corpo diplomatico. Anche per questo i libici hanno finalmente deciso di provvedere alla loro sicurezza da soli.
I CITTADINI CHIEDONO PACE: «NO ALLO STATO AFGHANO». A Bengasi, capitale della resistenza anti Gheddafi ma anche dell'integralismo montante, gli scontri tra dimostranti contrari alle milizie e i guerriglieri di Ansar al Sharia (i partigiani della Sharia) sono andati avanti ore e sono costati una ventina di morti in due giorni.
Al «grido di Pace» e «Non vogliamo uno stato afghano», la popolazione della Cirenaica ha convinto i miliziani ad andarsene, anche se portando via con sé le armi.

La galassia delle milizie e il ritorno dei lealisti


Le milizie nel mirino della protesta di Bengasi sono diversissime per origini e aspirazioni.
C'è Ansar al Sharia Bengasi (Asb), guidata da Muhammad al Zawahi, un ex detenuto del super carcere di Abu Salim. La sua organizzazione conta centinaia di affiliati, abituati a indossare le divise dei muhajeddin afghani e ha l'obiettivo di instaurare la Sharia, la legge coranica.Ma al contrario di Ansar al Sharia Derna (la città della Cirenaica roccaforte dei jihadisti provenienti dall'Iraq e dall'Afghanistan) non ha contatti con al Qaeda. In questi mesi ha tentato di fare proseliti, provvedendo ai bisogni della comunità locale, ha pulito e sistemato le strade e fornito aiuti alle famiglie durante il Ramadan.
LA BRIGATA SAHATI PROTEGGE L'OSPEDALE. La brigata Sahati, invece, ha sede in un'ex residenza di Gheddafi, ora adibita a carcere e a deposito di armi. Nell'ultimo anno si è occupata sia del servizio d'ordine durante le elezioni politiche, sia della sicurezza del Jalaal Hospital. Nonostante sia composto da islamisti radicali, sulla carta il gruppo gode della protezione del governo. Tanto che a difenderla dagli assalti dei dimostranti sono giunti miliziani dall'Ovest.
LO SCUDO DELLA LIBIA E LA BRIGATA 17 FEBBRAIO. Altri gruppi autorizzati sono il Libya Shield, cioè lo scudo della Libia, guidato da Wassam Bin Hamaad, un leader islamista, divenuto celebre per la capacità di risolvere le dispute tra le diverse fazioni tribali, che sono poi moderne corporazioni in lotta per appetiti territoriali ed economici. E infine c'è la Brigata 17 febbraio, il cui leader è il fawzi Abu Kataf, che è invece considerato vicino ai Fratelli musulmani che potrebbero trovare spazio nel nuovo scenario politico.
L'OMBRA DELLE TRUPPE FEDELI AL COLONNELLO. Insomma, non solo salafiti. Ma anche guerriglieri con funzioni e competenze prettamente militari che potrebbero essere integrati nel nuovo esercito; e gruppi politici finora censurati. Al punto che qualcuno ha ipotizzato che dietro all'ondata di protesta contro le brigate, possa celarsi il ritorno delle forze lealiste dell'ex regime. La missione di Tripoli è complessa: servono distinzioni e scelte oculate. Bisogna indurre gli eroi della rivoluzione a farsi da parte, ma senza tradire la rivoluzione.

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