Per rispondere alle
domande “Quale Europa ci serve?” e “Quale Europa possiamo permetterci?”
dobbiamo adottare l’ottica degli europei, quelli di oggi e quelli di domani.
Dopo tutto, infatti, stiamo parlando di una compagine reale, di qualcosa che
esiste, composto di persone che ne sono parte integrante, non soltanto
intellettuali, uomini politici, alti funzionari, ma anche gente del tutto
comune. Quelli che votano e quelli che se ne astengono, quelli che si
interessano agli affari pubblici e quelli che non lo fanno, quelli che eleggono
presidenti e parlamentari saggi o imbecilli, esercitando fino in fondo o per
niente i loro diritti civili, politici ed economici.
Ho l’impressione che
si trascuri eccessivamente il problema che i cittadini, gli europei,
rappresentano per l’Europa anche se questo problema non è esclusivo del
continente europeo. I cittadini sono cambiati moltissimo e non sono più gli
stessi che circa mezzo secolo fa erano governati da grandi leader europei del
calibro di De Gasperi, Schuman, Adenauer o de Gaulle. Questo cambiamento non
influisce soltanto sulla democrazia presente e futura negli stati-nazione, ma anche
sulla forma odierna e futura della stessa Unione europea.
È impossibile pensare
all’Unione senza ricordarne alcuni aspetti generali. L’Unione nacque dal trauma
della seconda guerra mondiale e fu creata dalle società che sopravvissero a
quest’ultima. Di conseguenza, i cittadini conoscevano troppo bene i rischi di
una cattiva pratica di governo per disinteressarsi degli affari pubblici:
leggevano i giornali, partecipavano alle elezioni, si impegnavano nei partiti e
nelle organizzazioni sindacali. In occidente i primi trent’anni del dopoguerra
sono stati una vera epoca d’oro dal punto di vista della cittadinanza attiva.
Nel corso dei decenni
seguenti la sociologia e le pratiche democratiche sono cambiate tantissimo.
Poco alla volta il cittadino è stato rimpiazzato dal consumatore. Nella sfera
pubblica il dibattito aperto e l’informazione sono stati soppiantati
dall’intrattenimento. I partiti politici tradizionali, disposti a sinistra o a
destra a seconda di rigorosi criteri ideologici e di classe, sono capitolati di
fronte a un’ideologia senza nome che ha sottomesso tutti gli ambiti della vita
all’economia. Poi hanno imboccato a braccetto la strada della sottomissione
delle idee all’economia.
Se ciò sia stato un
bene o un male ce lo dirà soltanto il futuro. Già adesso, però, prendiamo atto
di un cambiamento profondo che interessa la cultura delle società occidentali,
la struttura sociale, il livello intellettuale, le relazioni umane, il sistema
dei valori. Ed è proprio a questo cambiamento che i politologi e i sociologi da
svariati decenni imputano l’origine stessa della crisi della democrazia nelle
sue forme tradizionali di rappresentanza.
La democrazia
rappresentativa, in declino negli stati-nazione (male che Jürgen Habermas
combatteva con il suo concetto di democrazia deliberativa), sarà capace di
porre rimedio alla crisi dell’Unione europea? Io credo di no. In effetti, non
capisco in che modo il modello rappresentativo – che si basa sull’idea di un
senso di responsabilità collettiva – possa riuscire a salvare l’Unione nel
momento stesso in cui è in via di sparizione. Come può salvare le istituzioni
sovranazionali un modello che sul piano nazionale si va esaurendo? Conoscendo
non soltanto il pensiero di Habermas, ma anche quello di John Keane, io
cercherei soluzioni più innovative, più appropriate alla nostra epoca, per
esempio forme istituzionalizzate e paneuropee di deliberazione e di
partecipazione per tutti coloro che lo desiderano.
Premesso ciò, è
indispensabile sapere se queste innovazioni, che con difficoltà si stanno
facendo strada sul piano nazionale o locale, abbiano una minima chance di
sfondare e funzionare a livello europeo. Neanche di questo sono sicuro. Ciò
significa che dobbiamo scegliere tra una soluzione indubbiamente inefficace e
un’altra plausibilmente irrealizzabile.
Il cambiamento è
necessario e indilazionabile. L’incapacità decisionale dell’Ue ci porta dritti
dritti al disastro. Rafforzare i meccanismi tradizionali della democrazia
nell’Unione potrà forse sbloccare i processi decisionali a breve termine, ma
sul lungo periodo sembra controproducente. Per esempio, è evidente che le
elezioni presidenziali dirette porterebbero al potere una personalità più forte
di Herman Van Rompuy. Ma saremmo davvero avvantaggiati, per esempio, se grazie
l’appoggio di Mediaset e News Corporation questa nuova personalità fosse Silvio
Berlusconi?
Sempre
più lontani
Un altro fenomeno che
caratterizza la situazione attuale è l’erosione della solidarietà sociale.
Nella maggior parte dei paesi si osservano resistenze sempre più forti ad
accettare i trasferimenti di capitale. I ricchi oggi sono sempre meno propensi
a condividere la loro ricchezza con i più poveri, pur facendo riferimento a una
forte ideologia per giustificare la loro opposizione. Naturalmente, ciò vale
sia per i trasferimenti di capitale tra i vari ceti sociali sia per quelli tra
generazioni e regioni diverse.
Nondimeno, senza un
rafforzamento della solidarietà non si potrà né superare efficacemente la crisi
né mantenere l’Unione europea nella sua forma attuale. E non soltanto perché si
sta allargando a dismisura il divario tra i paesi che hanno seri problemi e
quelli che sono in relativa buona salute, ma anche perché l’Europa intera è
oggetto di un problema comune: la globalizzazione e diversi processi di
cambiamento dei fenomeni sociali comporteranno in un prossimo futuro un
abbassamento significativo del tenore di vita di noi tutti (c’è chi parla di
un’involuzione del 20 per cento). In tale situazione, naturalmente, sarebbe
ancora più difficile sperare in slanci di solidarietà.
Questi due fattori,
l’erosione della cittadinanza e della solidarietà, mi inducono a dire che né la
crisi dell’Unione né i rimedi proposti hanno un carattere istituzionale. La
forma delle istituzioni europee, così come la loro impotenza, riflette
l’attuale situazione socioculturale. Quanto all’aggravarsi della crisi, essa è
espressione dell’erosione dei fondamenti sociali e culturali dell’Unione.
Non si tratta di una
condanna a morte. Io non credo che l’Unione morirà, perché senza di essa non
vedo alcuna vita plausibile per le generazioni di oggi. Il crollo dell’euro non
lascerebbe dietro di sé altro che perdenti (probabilmente a rimetterci più di
tutti sarebbero i tedeschi) e il crollo dell’Unione europea sarebbe una vera
catastrofe, equiparabile a una grande guerra. Per fortuna in Europa si è
abbastanza consapevoli tutti di ciò, per lo meno tra le élite politiche.
Le piccole astuzie
tecniche, istituzionali, giuridiche e costituzionali, in ogni caso, a lungo
termine non porteranno a niente se non riusciremo a influire sulla cultura e le
istituzioni. La crisi economica (finanziaria e del debito) ha radici politiche.
È una conseguenza della crisi della democrazia rappresentativa.
La crisi della
democrazia rappresentativa è di matrice culturale, è il prodotto dell’erosione
della cittadinanza attiva e della solidarietà. A prescindere da quali possano
essere le difficoltà di ordine intellettuale e politico, i rimedi efficaci
dovranno tener conto della natura socioculturale delle attuali tensioni, senza
prendere di mira esclusivamente la gestione a breve termine di questa strana
creatura che è oggi l’Unione europea. (Traduzione di Anna Bissanti)
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