Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


venerdì 31 maggio 2013

UE - Dalla Spagna all'Italia i partiti impantanati in una politica stantia


Aznar pensa al ritorno. Il Cav non molla. Per il politologo Monedero l'Europa è vittima del vecchio che avanza.

Un’immagine si aggira per la Spagna. È quella dell’abbraccio sorridente tra il premier spagnolo Mariano Rajoy e José Maria Aznar, fondatore del Partito popolare, a capo del governo di Madrid dal 1996 al 2004.
Il sodalizio ricorda la coppia Angelino Alfano-Silvio Berlusconi: il delfino con il vecchio maestro, il giovane vicino al decano. Che, nonostante dichiarazioni e promesse, non ha nessuna intenzione di farsi da parte. Anche Aznar, che di Berlusconi peraltro è amico, aveva infatti promesso di fare spazio ai più giovani quando il socialista Luis Zapatero gli rubò la poltrona. Ma erano parole al vento.
L'ANNUNCIO DI UN POSSIBILE RITORNO. Il 61enne leader dello storico partito della destra spagnola ha infatti dichiarato a maggio di essere «pronto a prendersi le proprie responsabilità davanti al Paese», e annuncia un possibile ritorno con una ricetta anti-austerity e parole molto dure nei confronti delle politiche economiche di Bruxelles.
SARKÒ PER TRAINARE I CONSERVATORI. Il copione si ripete uguale in angoli diversi d’Europa. Anche nella Francia colpita dalla recessione, infatti, l’ex presidente Nicolas Sarkozy ha immaginato un proprio ritorno sulle scene, per trainare i conservatori che non riescono a farsi strada nemmeno di fronte al declino di consensi del progressista François Hollande.
Il sistema, insomma, sembra auto perpetuarsi. E non ci sono Beppe Grillo o affini che bastino davvero a rivoluzionare il panorama: maggiore è la difficoltà del Paese, maggiore pare anzi la tendenza a rivolgersi al vecchio.
«Non c’è democrazia senza partiti, ma non con questo tipo di partiti», ha spiegato Juan Carlos Monedero, politologo dell’università Complutense di Madrid. Anzi, i partiti «devono essere riformati sul modello della democrazia partecipativa».


DOMANDA. Cosa non va nei partiti come li conosciamo?
RISPOSTA.
Sono stati per decenni delle imprese di collocamento per incarichi pubblici, e questo non è più possibile. Basta finanziamenti pubblici, basta gerarchie e congressi.
D. Questo garantirebbe il rinnovamento?
R.
Bisogna cominciare dalla democrazia partecipativa, che deve essere alla base del nuovo sistema. E poi inserire un vero ed efficace meccanismo di controllo dei cittadini sull’attività dei partiti. Rendere vincolanti tutti i referendum.
D. Sembra di sentire le proposte di Beppe Grillo, in Italia.
R.
Io sono d’accordo sul fatto che bisogna de-professionalizzare la politica.
D. Sì, ma il M5s e i suoi dilettanti sono stati puniti alle elezioni amministrative.
R.
Sono stati puniti tutti, a quanto ho visto. Perché ha vinto l’astensionismo.
D. E questo cosa significa?
E.
Mi pare un altro segno che i partiti, così come sono oggi, sono destinati a fallire. Non credo che quello del M5s sia un fallimento definitivo: forse è sbagliata la forma, ma le idee sono corrette.
D. Qual è la forma giusta?
R.
Per arrivarci bisogna affrontare un processo lungo e tortuoso, e quando si parte da zero è più facile sbagliare. Ma la sensazione è che qualcosa sia cambiato per sempre.
D. Cosa?
R.
In ampi strati della società c’è una domanda di partecipazione e di cambiamento fortissima. La distruzione del verticismo, l’orizzontalità, la partecipazione sono concetti rivoluzionari e condivisi. Gli esponenti del Movimento 5 stelle in Italia e gli indignados in Spagna, sia pure in modo improvvisato e a tratti immaturo, sono stati gli unici a intercettare questa esigenza di cambiamento.
D. Gli indignados però oggi sono poco presenti sulla scena.
R.
I giovani non sono riusciti a comporre in un sistema al quale sia riconosciuta una legittimità politica.
D. E i vecchi ne hanno approfittato per tornare. Per esempio Aznar.
R.
Per gli italiani non è difficile capire perché lo abbia fatto: gli serviva per garantirsi un salvacondotto giudiziario. E questo vi ricorderà qualcuno.
D. Chi?
R.
Silvio Berlusconi.
D. José Aznar, però, non è imputato in alcun processo.
R.
Sì, ma ci sono due inchieste in corso. I giudici hanno accertato l’esistenza di fondi neri per finanziare i popolari, e una trama di corruzione tra partito e imprese. Gli inquirenti sostengono che Aznar abbia incassato per anni uno stipendio extra proveniente da quei fondi.
D. Dunque il suo ritorno sarebbe dettato da secondi fini?
R.
La sua non è una volontà reale di rimettersi in gioco. Vuole invece spaventare l’attuale governo e i vertici del partito in modo da essere difeso e tutelato.
D. Nella politica spagnola c’è un cambio generazionale?
R.
La generazione di politici emersa durante la transizione dal franchismo è stata molto potente, pervasiva, ha egemonizzato il dibattito culturale. Si disse che loro avevano «ucciso i loro padri», perché avevano rotto con tutto quello che c’era prima.
D. Ma oggi non si fanno rottamare.
R.
No, perché è rimasto a loro il complesso che i figli avrebbero fatto lo stesso con loro.
D. Esiste una categoria di politici inamovibili?
R.
In Spagna chi si avvicinava alla politica negli Anni 90 e 2000 poteva guardarla solo attraverso il filtro della generazione della transición. Un filtro che nel tempo è diventato un tappo.
D. Perché?
R.
Perché oggi i principali partiti sono guidati da leader che bloccano ogni vera proposta di rinnovamento: il socialisti sono guidati da un uomo che 30 anni fa era già ministro e nei popolari sono ancora dominanti alcuni ex franchisti.
D. C’è mai stato un momento in cui i partiti sono stati efficaci e vicini alla gente?
R.
Forse solo nei primi anni dopo la dittatura, perché c’era da ricostruire l’identità di un Paese. Ma in generale sono sempre stati uno strumento di potere, strutture per cedere parti di potere o benefici economici. Da questa consapevolezza, in tutta Europa, si deve ripartire.
 
Marco Todarello

UE - Londra discrimina sul welfare


Bruxelles non arretra. Pure Madrid rischia.

Giovedì, 30 Maggio 2013 - L'accusa è arrivata dalla Commissione dell'Unione europea. E nel mirino è finita la Gran Bretagna.
Bruxelles ha deciso di farsi paladina dei diritti - riconosciuti dai Trattati - dei cittadini Ue che vivono, lavorano o viaggiano in un altro stato membro, ma vengono discriminati e privati dei vantaggi sociali a cui hanno diritto solo perché di un'altra nazionalità.
OLTRE 28 MILA CASI CONTESTATI. Secondo l'Ue, infatti sono stati circa 28.400 casi di discriminazione nell'applicazione tra il 2009 e il 2011 dei benefici sociali - assegni per i figli, disoccupazione, crediti di pensione e allocazioni complementari - da parte di Londra approdati sul tavolo di Bruxelles, contro cui, dopo mesi di 'dialogo tra sordi', la Commissione Ue ha deciso di agire. E ha scelto le maniere forti, portando la Gran Bretagna davanti alla Corte di giustizia Ue.
«Londra discrimina ingiustamente i cittadini di altri stati membri», ha scritto la Commissione Ue, «e contravviene alle regole comunirarie sul coordinamento dei sistemi sociali che vietano discriminazioni dirette e indirette nel campo dell'accesso ai benefici della sicurezza sociale».
CONTRO IL TURISMO DEL WELFARE. La mossa ha fatto infuriare la Gran Bretagna, che insieme con Germania, Olanda e Austria, aveva scritto ad aprile a Bruxelles chiedendo un giro di vite sulle regole comunitarie per impedire il 'turismo del welfare' - mai comprovato da cifre per l'Ue - in vista della fine delle limitazioni imposte agli spostamenti dei lavoratori bulgari e romeni il 1 gennaio 2014.
«Combatterò questo a ogni passo della procedura», ha avvertito il ministro britannico responsabile Iain Duncan Smith.
ALTRI EPISODI ANCHE IN SPAGNA. Intanto sono finiti sotto il tiro di Bruxelles anche gli ospedali spagnoli, dove molti turisti - con i britannici proprio tra i più assidui 'vacanzieri' in Spagna - si sono visti rifiutare cure di emergenza al pronto soccorso o addebitare cifre da capogiro nonostante avessero la regolare tessera sanitaria Ue.
Madrid ha ora due mesi di tempo per mettersi in regola, o come Londra è destinata a trovare davanti i giudici di Lussemburgo.

ITALIA - Altro che gratis, la Melandri stipendiata al Maxxi. Ennesima promessa tradita da casa PD.


Disse: «Niente paga». Ma Profumo cambiò la destinazione d'uso dell'ente. Ed ecco il compenso.

Venerdì, 31 Maggio 2013 - La promessa tradita di Giovanna Melandri e la Maxxi ondata di polemiche.
Non c'è pace per l'ex ministro finito a presiedere il Maxxi, ovvero il museo d'arte moderna di Roma fondato nel 2010.
Al veleno della stampa e al fuoco incrociato di Pdl-Pd contro il riciclo di una esclusa eccellente della politica, la Melandri aveva risposto: «Vado gratuitamente a rilanciare un'istituzione pubblica».
E ancora: «Da oggi querelo tutti quelli che parlano di spese folli».
Poi però le cose sono cambiate, come rivelato da Dagospia: il compenso ci sarà.
COLPO DI CODA DI PROFUMO. Tutto merito dell'ex ministro dell'Istruzione del governo tecnico Francesco Profumo, che poco prima di lasciare il suo incarico ha firmato l'ok per cambiare la destinazione d'uso della struttura: da museo a ente di ricerca. Di conseguenza l'ex deputata del Partito democratico incasserà, come Paolo Baratta - il suo omologo alla Biennale di Venezia - una paga, grazie ovviamente a soldi pubblici.
CIFRA DECISA DA DUE CONSIGLIERE. A quanto ammonta la cifra? Ancora non è stato deciso. Ma la scelta spetta a due consigliere d'amminsitrazione indicate dalla stessa Melandri, cioè Monique Veaute e Francesca Trussardi.
E ora se anche la remunerazione diventerà 'Maxxi', la promessa tanto sbandierata dell'impegno gratis risuonerà come un annuncio beffardo.

lunedì 27 maggio 2013

UNIONE EUROPEA: Senza opposizione non c’è democrazia


Il deficit di democrazia dell’Ue non dipende dalla poca rappresentatività delle sue istituzioni, ma dalla mancanza di un’alternativa credibile che organizzi il dissenso come negli stati.

Armin Nassehi 24 maggio 2013 SUDDEUTSCHE ZEITUNG Monaco

sostenitori e i detrattori dell'organizzazione politica europea e dei suoi processi decisionali transnazionali sono concordi nel diagnosticare un deficit di democrazia. Per i sostenitori del sistema questo deficit è soprattutto dovuto all'assenza di una coscienza e di un'opinione pubblica europea. I detrattori invece mettono in evidenza il fatto che una tale coscienza non può essere imposta a causa dei particolarismi culturali, politici e soprattutto – nel contesto attuale – economici dei vari paesi.

Il problema sembra quindi chiaramente esposto: la politica europea soffre di un deficit di democrazia. Rimane il problema di sapere cosa vuol dire questo deficit. Il Parlamento europeo è eletto democraticamente, i membri della Commissione europea sono nominati da parlamenti eletti democraticamente e approvati dal Parlamento europeo. E in questo settore la Corte di giustizia europea vigila sul rispetto del diritto. Di conseguenza il deficit di democrazia in Europa risiede nell'assenza di opposizione, cioè di un'organizzazione politica delle opinioni di minoranza.

I mandati sono legittimati dalle maggioranze in occasione di elezioni più o meno dirette: questo è il principio di base della democrazia. Ma questi mandati sono democratici solo se hanno una durata determinata. Per questo motivo l'atto determinante in una democrazia non è il voto, ma la destituzione esplicita attraverso il voto. E per fare in modo che la destituzione si applichi a tutti è necessario avere nel sistema politico un'opposizione che possa essere eletta. Questa opposizione deve essere dotata delle risorse e delle competenze necessarie, di un programma appropriato, di un'équipe e di un gruppo di riferimento sensibile ai suoi discorsi. È l'opposizione che permette la destituzione dei dirigenti o dei governi e questa è la condizione fondamentale di una politica democratica.

Una volta chiariti questi concetti possiamo definire con più precisione il deficit democratico dell'Europa. In occasione delle elezioni europee è ovviamente possibile cambiare maggioranza, con pesanti ripercussioni sulle decisioni politiche concrete in Europa. Ma questo non equivale a un'esplicita destituzione, che segna una rottura e rende più evidente la comunicazione politica all'opinione pubblica.

L'opacità dell'Europa non è il frutto di strutture vaghe o di un eccesso di burocrazia, gli apparati politici nazionali sono altrettanto complessi. Se l'Europa sembra così complessa è solo perché l'opinione pubblica non può integrare un'opposizione nella sua percezione del processo politico europeo. Si potrebbe dire che il problema della politica europea è quello di essere giudicata su un piano puramente fattuale. Di fatto ci si interessa molto di più ai suoi risultati che all'attività dei politici, che devono dimostrare le loro capacità difendendo delle soluzioni davanti all'opinione pubblica e che devono tenere conto dell'eventualità di una destituzione.

Una conseguenza di questa mancanza di opposizione in Europa è la rinazionalizzazione della comunicazione politica in occasione della crisi europea. In questo sistema non esiste alcuna politica di opposizione né alcuna possibilità di destituzione attraverso il voto, come non esiste alcuna soluzione alternativa nella politica europea e nelle sue istituzioni – o quanto meno nessuna che sia comprensibile per l'opinione pubblica. L'unica opposizione visibile prende la forma di un atteggiamento antieuropeo che avvelena la politica promuovendo la chiusura all'interno delle frontiere comuni e la rinazionalizzazione. Il risultato è che le soluzioni proposte prendono la forma di alternative tra modelli nazionali e non tra scelte politiche. Il fatto che il partito antieuropeo nato di recente in Germania si chiami Alternativa per la Germania si inserisce in questo contesto.

A livello nazionale una formazione del genere avrà l'effetto di limitare i margini di manovra, mentre a livello europeo non rappresenterà una vera opposizione. Alternativa per la Germania si limita a danneggiare la democrazia europea, perché rappresenta un'opposizione che non sarà mai capace o anche solo intenzionata a governare. L'Europa ha più che mai bisogno di critica, ma di una critica – e di un'opposizione – politica a livello europeo.

Forza mediatica


Le campagne promozionali dell'Europa non dovrebbero puntare sulle professioni di fede e sugli appelli alla solidarietà, che sono facili da ottenere. Queste campagne possono avere influenza solo se sarà possibile destituire il governo europeo con il voto o se ci sarà un'opposizione ufficiale alla Commissione europea, [sul modello dell'opposizione ufficiale nel Regno Unito], dotata di una vera forza mediatica. Un'opposizione del genere porterebbe all'affermazione di un'opinione pubblica europea transnazionale.

Paradossalmente l'Europa avrebbe molto da imparare dalla genesi delle nazioni. Le nazioni europee sono riuscite ad arrivare all'unità politica solo quando sono state capaci di integrare delle forme interne di opposizione. L'Europa dovrebbe dotarsi di una costituzione comune – in modo che ci si possa opporre in Europa, contro l'Europa e per l'Europa. In altre parole bisogna dare all'opinione pubblica la possibilità di revocare il "governo" europeo senza revocare la governance europea.

Traduzione di Andrea De Ritis

domenica 26 maggio 2013

ITALIA - Partiti, all'estero non rinunciano ai soldi


Il Governo trova l’accordo per l’abolizione dei finanziamenti. E Letta minaccia un decreto. Ma nel resto del mondo i fondi alla politica resistono. Berlino ha pure alzato il tetto. Renzi: “Vittoria dell’Italia”.

Dopo anni di attese, promesse e proclami, qualcosa si è mosso sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Per ora ci sono le linee guida del governo guidato da Enrico Letta che ha promesso di «intervenire con un decreto» nel caso in cui «dopo l'estate il parlamento non abbia approvato un testo per sbloccarlo».
«Non arriveremo alla fine del 2013 senza aver abrogato il finanziamento ai partiti», ha poi precisato il premier dalle colonne del quotidiano Il Corriere della Sera.
DONAZIONI DAI CITTADINI. Nei progetti del presidente del Consiglio, la cui battaglia sui finanziamenti pubblici è stata bollata come un «bluff» da parte di Beppe Grillo (il Partito democratico, soprattutto nella sua componente renziana, ha accolto con soddisfazione la proposta, ad eccezione del segretario Guglielmo Epifani), c'è anche la volontà di regolarizzare i fondi privati: «I cittadini, se vogliono, potranno destinare l'1 per mille dell'imposta sul reddito», ha continuato Letta.
PREVEDERE DETREAZIONI. La modalità immaginata dal governo per il finanziamento ai partiti attraverso il versamento dell'1 per mille ha «due opzioni: la prima è che i soldi vadano direttamente ai partiti scelti dagli elettori, la seconda è convogliare le donazioni in un monte risorse che venga poi diviso in base ai risultati elettorali».
La Ragioneria sta lavorando a deducibilità e detraibilità dei soldi per «evitare meccanismi fraudolenti e fissare le soglie». Ma bisogna anche «creare un meccanismo per rendere trasparenti i bilanci delle forze politiche e vedere chi li controlla».
FINANZIAMENTO UNIVERSALE. Tuttavia, il finanziamento pubblico ai partiti non è un tema che interessa solo il nostro Paese. Dalla Francia alla Germania, passando per gli Usa, i fondi destinati alla politica, con modalità e forme diverse, sono previsti ovunque.
E mentre l'Italia ha trovato l'accordo sulla sua abrogazione, la Germania ha fissato, per il 2013, il tetto più alto della storia della Repubblica federale per finanziare le forze politiche.

Ecco come viene disciplinato nei diversi Paesi

FRANCIA. I partiti hanno un finanziamento pubblico in due tranche.
La prima (33 milioni di euro nel 2007) è proporzionale ai risultati del partito alle precedenti elezioni politiche. Il finanziamento viene attribuito a ogni formazione che abbia presentato dei candidati che abbiano ottenuto almeno l'1% dei voti in almeno 50 circoscrizioni. In pratica, ogni voto frutta circa 1,70 euro annuali fino alle politiche successive.
La seconda tranche (circa 40 milioni di euro nel 2007) è proporzionale al numero di parlamentari che si dichiarano iscritti a ciascun partito. Le spese elettorali vengono rimborsate ai candidati che ottengono almeno il 5% dei suffragi.

GERMANIA. È regolato in base alla legge sui partiti. Lo Stato fissa ogni anno un tetto complessivo, che per il 2013 sarà il più alto della storia della Repubblica federale, pari a oltre 154 milioni di euro.
A ogni partito vanno 70 centesimi per ogni voto conquistato per ciascuna elezione. Per i primi 4 milioni di voti viene calcolata una somma di 85 centesimi. A questi si aggiungono 38 centesimi per ogni euro ricevuto come donazione da iscritti, eletti o sostenitori, ma con un tetto di 3.300 euro per persona fisica.
Ogni partito non può ricevere dallo Stato più di quanto abbia raccolto con i propri mezzi. Per ottenere il finanziamento un partito deve raggiungere lo 0,5% delle preferenze nelle elezioni federali o europee o l'1% in quelle dei Laender. 

GRAN BRETAGNA. Gran parte del finanziamento ai partiti arriva da donazioni private. C'è comunque un contributo pubblico, che nel 2012 è stato di 8,8 milioni di sterline (11,3 milioni di euro). Gran parte di questi fondi fanno parte del cosiddetto Short Money, destinato ai partiti che stanno all'opposizione sulla base del loro 'peso' politico.

SPAGNA. Il sistema di finanziamento è misto: tramite rimborso elettorale, in base ai seggi conquistati (almeno uno) e sui voti conquistati e con finanziamenti privati.
Nel 2011 il totale di quello pubblico è stato di 131 milioni (2,84 euro per abitante): 86,5 milioni di contributo e 44,5 come rimborso elettorale. Per il 2012 è previsto un taglio del 20 per cento dei finanziamenti pubblici.

USA. Il sistema americano pone al centro i candidati, non i partiti, e prevede sia finanziamenti pubblici sia privati. Quello pubblico è previsto solo durante le campagne elettorali. Ma ogni candidato può decidere di usufruire del denaro raccolto presso privati attraverso i cosiddetti fundraiser, oppure attraverso i comitati elettorali (vedi i cosiddetti 'Superpac' durante la campagna per le presidenziali) o attraverso le donazioni dei singoli cittadini. Un sistema che solleva crescenti dubbi sulla dipendenza dei politici dalle lobby. Per le elezioni locali, ognuno dei 50 Stati Usa o ognuna delle città ha le sue norme.

GIAPPONE. Sulla base dei voti ricevuti nelle ultime elezioni generali, i soggetti con lo status di partiti politici (Seito, cioè che abbiano cinque rappresentanti nella Dieta o abbiano avuto il 2% dei voti a livello nazionale, proporzionale o locale nell'ultima elezione per la Camera bassa o in una delle due ultime elezioni della Camera alta) ricevono come finanziamento pubblico 250 yen a cittadino, per un monte totale di circa 32 miliardi di yen (240 milioni di euro, al cambio attuale) per ogni anno fiscale.

ITALIA - Boldrini: «Caro Davide, l'omofobia sarà reato»


La risposta alla lettera di un 17enne gay.

Domenica, 26 Maggio 2013 - Laura Boldrini auspica che il parlamento approvi al più presto la legge contro l'omofobia. La presidente della Camera ha risposto su Repubblica alla lettera scritta ieri al quotidiano dal diciassettenne Davide Tancredi, nella quale lo rassicura scrivendo «le tue parole ce le ricorderemo» e «spero davvero che la legislatura appena iniziata possa presto sdebitarsi», invitandolo alla Camera per «parlare di quello che stiamo cercando di fare».
«L'ULTIMA ALTERNATIVA AL SUICIDIO». «Io sono gay, ho 17 anni e questa lettera è la mia ultima alternativa al suicidio in una società troglodita», aveva scritto il giovane nella sua lettera al quotidiano, «in un mondo che non mi accetta sebbene io sia nato così. Il vero coraggio è sopravvivere all'adolescenza con un peso del genere, con la consapevolezza di non aver fatto nulla di sbagliato se non seguire i propri sentimenti».
LA VICENDA DI CAROLINA. Nella sua missiva Boldrini cita anche la vicenda di Carolina che «fa male al cuore e alla coscienza: ha deciso di farla finita, a 14 anni, per sottrarsi alle umiliazioni che un gruppo di piccoli maschi le aveva inflitto per settimane sui social media. E consola davvero troppo poco apprendere che ora questi ragazzini dovranno rispondere alla giustizia della loro ferocia».
«Vi metto insieme, Davide», scrive la presidente della Camera, «perché tu e Carolina parlate a noi genitori e ad un Paese che troppo spesso non sa ascoltare» e «a una società che non sa proteggere i suoi figli».
IL MONITO SUI SOCIAL. Boldrini sottolinea inoltre che è «urgente trovare il modo per crescere insieme nell'uso dei nuovi media. Le loro potenzialità sono straordinarie, possono essere e spesso sono poderosi strumenti di libertà, di emancipazione, di arricchimento culturale, di socializzazione. Ma se qualcuno li usa per far male, per sfregiare, per violentare, non possiamo chiudere gli occhi». 

venerdì 24 maggio 2013

ITALIA - “Per il Pd unico approdo: socialismo”


Parla Buemi, leader dei socialisti piemontesi, appena (ri)entrato in Parlamento: “Siamo portatori di un modello politico che resta punto di riferimento anche negli anni Duemila”. I democratici devono ancora celebrare la loro Bad Godesberg

Questioni di nemesi storica, in fondo. «Siamo i portatori di un modello politico che resta punto di riferimento indispensabile anche negli anni Duemila» afferma senza remore. E lo dice mentre in un’Europa ancora alla ricerca di un nuovo sistema valoriale e di ideali si sono – forse troppo frettolosamente – archiviati schemi attribuiti al secolo passato. Un vuoto che colpisce anche uno dei principali partiti della famiglia progressista europea, quel Pd che non è socialista ma che non vuol morire democristiano, che annovera nel suo variegato pantheon Madre Teresa e Che Guevara, passando per Craxi e Mandela. Un Pd erede della “doppiezza” del suo antenato e che ancora oggi non ha celebrato il proprio Bad Godesberg, congresso storico della Spd in cui – era il 1959 - i socialisti tedeschi abiuravano definitivamente il marxismo e la prospettiva del socialismo reale. Un percorso seguito anche dallo stesso Buemi, prima comunista di area migliorista, poi, con la fine degli anni Ottanta, trasmigrato nella famiglia socialista, «perché lì vedevo la prospettiva di un cambiamento per lo il nostro Paese, un nuovo slancio». Invece, secondo il senatore socialista «il Pd è un partito capace di cambiamenti più nel nome che nelle prassi, negli atteggiamenti politico-culturali, nelle modalità d’azione. E lo si vede nelle proposte che ancora emergono da pezzi rilevanti di quella comunità sulle politiche del lavoro. Un partito che allo stesso tempo resta indietro sui diritti civili e il testamento biologico, vittima delle contraddizioni al proprio interno». E nel pieno travaglio, nelle stesse ore in cui l'Spd avvia il suo terzo cambio di pelle delineando "un nuovo inizio", il Pd è ancora fermo alla sua Bad Godesberg mancata.

 

“Il Partito doroteo” lo definì a più riprese in una sua arringa all’assemblea dello Sdi, quando ormai tramontava il progetto della Rosa nel Pugno e con lui la sua - di Buemi - leadership sul territorio subalpino: «Doroteo è il loro tentativo di comporre le divisioni in base ai rapporti di potere piuttosto che sulla base di una riflessione e di uno scontro culturale sui contenuti» Ma poi ammette: «Ho sempre dichiarato che auspicavo e avrei lavorato per una ricomposizione della sinistra riformista, pur conscio dei rapporti di forza in campo». Una frase con la quale si attirerà gli spergiuri dei reduci socialisti, che già puntano le puntano il dito contro accusandola di aver svenduto il garofano per uno strapuntino in Parlamento: «Io sono stato chiamato come commissario da Roma, per prendere la responsabilità di un partito che avevo lasciato nel 2008, dopo aver perso il congresso. Nelle mie esperienze parlamentari sono stato tra i pochi in grado di far approvare miei provvedimenti anche quando ero all’opposizione. Nel 2006 fui promotore di provvedimenti di indulto e amnistia. Penso di aver dimostrato sul campo le mie competenze».


Lo Spiffero – Bruno Babando
Pubblicato Giovedì 23 Maggio 2013

giovedì 23 maggio 2013

ITALIA – Riforma elettorale o semplice girotondo sul “Porcellum”


Il Porcellum modificato? Solo un “salvavita”, ma poi occorre di più

Gianfranco Pasquino, politologo, docente di European Studies al Bologna Center della Johns Hopkins University e candidato a far parte della Convenzione per le riforme spiega a Formiche.net il senso dell'accordo trovato oggi dalla maggioranza. E sul sistema proporzionale ricorda che...

Il mini accordo per riformare il Porcellum? “E’ come un farmaco salvavita, una dose di Cumadin contro la coagulazione del sangue. Ma poi serve anche altro”. E’la lettura che offre a Formiche.net Gianfranco Pasquino, politologo, docente di European Studies al Bologna Center della Johns Hopkins University e candidato a far parte della Convenzione per le riforme.

C’è l’accordo di maggioranza per correggere il Porcellum entro l’estate: le riforme “minimali” saranno sufficienti?
Non sono per forza di cose sufficienti ma, per giocare con le parole, sono necessarie. Alcuni dei tratti del Porcellum devono essere assolutamente eliminati. Credo però che bisogna sapere esattamente cosa poi è stato davvero modificato: l’idea di inserire una soglia per il premio di maggioranza da portare al 40% potrebbe significare che andremo incontro solo a grandi ammucchiate per ottenerlo, è ciò non mi piacerebbe. Penso che uno dei guasti del Porcellum fosse quello di andare al voto con liste bloccate, quindi almeno una preferenza bisognerebbe inserirla e ridurre probabilmente l’entità di quel premio.

L’idea è ricostituzionalizzare il Porcellum, ma perché prevedere due tempi e non scegliere di riformare già ora in chiave presidenziale?
Questa è stata una loro scelta. Direi che, come mi auspico vorrà fare il ministro per le riforme Quagliariello, se accettassero il regime semipresidenziale di tipo francese, ciò comporterebbe il sistema a doppio turno, una soglia di sbarramento e collegi uninominali. Credo bisognerebbe operare in quella direzione. Però capisco anche che hanno timore che crolli tutto addosso in qualsiasi momento, per cui intendono ritoccare la legge esistente. Inoltre la Cassazione ha dato delle indicazioni, che a volte sono abbastanza curiose e molto controverse. Ma non le seguirei fino in fondo e suggerirei di essere un pochino più innovativi.

Lasciando Palazzo Chigi il ministro Quagliariello ha detto che ci saranno comunque uno o più referendum, perché su una materia del genere il popolo deve esercitare la sua sovranità…
Ma al di là di questo, il Parlamento ha sempre la possibilità di procedere a chiedere un referendum. Penso che qui si ponga un problema delicato: sottoporre alla consultazione popolare tutto il pacchetto di riforme costituzionali o consentire di avere più referendum. Perché a quel punto si potrebbe essere in accordo con una riforma e non con le altre.

Il premier Letta ha commentato che sul percorso di riforma costituzionale si gioca la vita del governo: crede che questa miniriforma sia un’assicurazione sulla vita dell’esecutivo?
Mi vengono in mente i farmaci salvavita. Ecco, questo provvedimento è come il Cumadin per evitare la coagulazione del sangue. E’una dose di quel farmaco, senza dubbio apprezzabile, ma vorrei insistere sul fatto che molto spesso il diavolo si annida nei dettagli, per cui dopo serve anche sapere come si intende procedere. Non credo che la sopravvivenza del governo dipenda dalle riforme costituzionali, bensì dalla sua capacità di dare risposte in termini di occupazione, pressione fiscale e rilancio dell’economia. Letta lo sa meglio di chiunque altro e certamente sarà in grado di operare bene su quel terreno: ma è proprio lì che si gioca il suo futuro.

Epifani ha espresso il non gradimento del Pd alla riforma, in quanto si avrebbe, a suo dire, un Parlamento proporzionale, e quindi ingovernabile: è così?
Non è affatto detto che i Parlamenti proporzionali siano ingovernabili. Quello italiano dal 1948 al 1992 è stato ampiamente governato, quello tedesco non solo è perfettamente governato ma anche governante. Quella di Epifani la reputo un’affermazione, in linea di principio, sbagliata. Vi sono anche delle buone leggi proporzionali, come appunto quella tedesca. Ma devono essere valutate nella loro interezza e non a brandelli.

22 - 05 - 2013 Francesco De Palo

Berlusconi gode per la mini riforma del Porcellum

Il via libera a una riforma “minimalista” della legge elettorale premia la linea di Silvio Berlusconi e del suo partito. Il Pdl infatti ha sempre sostenuto che cambiare la legge elettorale non fosse tra le priorità del governo ma sarebbe dovuta avvenire dopo un percorso condiviso di riforme isitituzionale. E così sarà.

L’accordo trovato oggi dalla maggioranza su metodo e tempi delle riforme prevede modifiche “minime” alla legge elettorale vigente da attuare entro il 31 luglio. Su cosa si intenda con “modifiche minime” ancora non è chiaro ma il punto su cui intervenire sembra essere soprattutto il premio di maggioranza, che andrebbe solo a chi supererà il 40% dei voti e varrebbe su base nazionale sia alla Camera che al Senato. Per la legge elettorale “strutturale”, si dovrà invece attendere la conclusione delle riforme costituzionali, se mai ci si arriverà: “Dovrà essere coerente con il sistema istituzionale che sceglieremo”, spiega Renato Brunetta.

Entro la fine di luglio, verrà anche avviato il percorso delle riforme costituzionali con l’insediamento di un “comitato dei 40”, venti deputati e venti senatori appartenenti alle commissioni Affari Costituzionali di Montecitorio e palazzo Madama. Il comitato sarà poi affiancato da un gruppo di esperti, che avrà però solo funzioni consultive. Il risultato che si raggiungerà sarà comunque sottoposto a referendum confermativo: “Il popolo deve poter esercitare la sua sovranità”, fa sapere Gaetano Quagliariello.

Il ministro dei Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini prova a rassicurare gli animi dicendo che “ci sarà una norma di salvaguardia che consentirà, in ogni caso, se si dovesse andare a votare prima della scadenza naturale, di non andare con questa legge elettorale, ma quello che la clausola di salvaguardia conterrà “lo vedremo nelle prossime settimane e cercheremo una mediazione”. Ma nonostante le sue parole, sono in tanti nel Pd a essere delusi dall’intesa.

Oltre alla linea moderata di governo, nel Pd c’è infatti una parte più “oltranzista”, da Anna Finocchiaro ai firmatari della petizione promossa da Roberto Giachetti per il ritorno del Mattarellum, che avrebbe voluto la cancellazione con riga rossa dell’attuale legge elettorale. Si dovranno accontentare invece di modifiche “minime”.  E di assistere il 29 maggio all’approvazione di una mozione di maggioranza che sancirà l’accordo raggiunto oggi.

22 - 05 - 2013 Fabrizio Argano

UE - DISOCCUPAZIONE: Poche risposte per la generazione perduta


L’impennata della disoccupazione giovanile ha finalmente convinto i governi europei a mettere la creazione di posti di lavoro in cima alle priorità. Ma le tradizionali misure di stimolo non bastano.

Fiona Ehlers – Markus Dettmer – Sven Boll – Cornelia Schmergal – Manfred Ertel – Helene Zuber 

22 maggio 2013 DER SPIEGEL Amburgo


Stylia Kampani, 23 anni, ha fatto tutto quello che doveva, ma ancora non sa quale futuro l’aspetta. Ha completato i suoi studi in relazioni internazionali in Grecia, il suo paese, per poi trascorrere un anno all’università di Brema in Germania. Ha terminato un tirocinio presso il ministero degli esteri di Atene e ha lavorato per l’ambasciata greca a Berlino. Adesso è stagista non retribuita presso il quotidiano ateniese Kathimerini. E poi? Che cosa farà dopo? “Bella domanda… non lo so”, risponde. “Nessuno dei miei amici crede che avremo un futuro o potremo condurre una vita normale. Quattro anni fa le cose non stavano così”.

Già, quattro anni fa, quando la crisi non era ancora iniziata. Da allora il governo greco ha approvato una serie di programmi che prevedono misure di austerity particolarmente severe nei confronti dei giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile ha da tempo superato il 50 per cento. La situazione è altrettanto drammatica in Spagna, Portogallo e Italia. Secondo Eurostat, l’ufficio di statistica dell’Unione europea, il tasso di disoccupazione tra i giovani dell’Ue è ormai al 23,5 per cento. In Europa si va delineando una “generazione perduta”. E i governi europei restano confusi quando sentono chi dice di non voler lasciare la Grecia, come Alexandros, neolaureato all’università di Atene, secondo cui “l’incertezza continua ci rende fiacchi e depressi”.

Invece di varare programmi di formazione efficaci per preparare i giovani a una vita professionale post-crisi, le élite politiche del continente hanno preferito combattere le loro vecchie battaglie ideologiche. Alla Commissione europea ci sono state molteplici richieste di programmi tradizionali di stimolo economico. I governi dei paesi più indebitati hanno prestato maggiore attenzione allo status quo dei loro elettori più importanti, quelli di una certa età. Nel frattempo le nazioni creditrici del nord si sono opposte a qualsiasi cosa comportasse una spesa. Così l’Europa ha sprecato tempo prezioso, almeno fino all’inizio di questo mese, quando la disoccupazione giovanile nella fascia di età 15-24 anni in Grecia ha superato la soglia record del 60 per cento.

Adesso l’Europa si affanna per risolvere il problema. La disoccupazione giovanile sarà al primo posto nell’agenda del vertice dei leader europei di giugno. Il nuovo primo ministro italiano Enrico Letta ha chiesto che la lotta contro la disoccupazione giovanile diventi per l’Ue una priorità.

Dalle capitali europee sono arrivate grandi promesse, ma finora nessun fatto concreto. A febbraio il Consiglio europeo ha approvato lo stanziamento di altri sei miliardi di euro per combattere la disoccupazione giovanile entro il 2020. Ma poiché gli stati membri stanno ancora discutendo su come spendere i soldi, il pacchetto non potrà essere allocato prima del 2014.

Altrettanto confusa è una recente iniziativa franco-tedesca: Berlino e Parigi vogliono incoraggiare i datori di lavoro dell’Europa meridionale ad assumere e formare i giovani fornendo loro prestiti tramite la Banca europea di investimento (Bei). Il progetto dovrebbe essere svelato alla fine di maggio. La ministra del lavoro tedesca Ursula von der Leyen ne è una dei più strenui sostenitori.

Gli sforzi tedeschi si sono limitati all’assunzione di lavoratori qualificati provenienti da Grecia, Spagna e Portogallo. Adesso però i politici stanno iniziando a rendersi conto che un alto tasso di disoccupazione ad Atene e Madrid costituisce un pericolo per la democrazia e potrebbe rappresentare la fine per la zona euro. Per riconoscere il problema serve una certa maturità. “Ci occorre un programma che cancelli la disoccupazione giovanile nell’Europa meridionale. Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha fallito”, dice l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, oggi 94enne. “È uno scandalo senza precedenti”.

Anche secondo gli economisti è ora che l’Europa faccia qualcosa. “Le prospettive a lungo termine dei giovani dei paesi in crisi sono estremamente nere. Questo aumenta il rischio di radicalizzazione di un’intera generazione”, avverte Joachim Möller, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca sull’occupazione, un think tank che si occupa di mercato del lavoro.

La proposta franco-tedesca per aiutare i datori di lavoro dell’Europa meridionale ne è la dimostrazione. In base a tale piano i sei miliardi di euro del programma di aiuto ai giovani dell’Unione europea sarebbero distribuiti alle varie aziende tramite la Bei per poi moltiplicarsi, come per magia. In definitiva, ipotizzano gli autori il piano, si potrebbe mettere in circolazione il decuplo di quella cifra, ponendo fine alla stretta creditizia che afflligge le piccole imprese dell’Europa meridionale.

I soldi non fanno l'occupazione


Per come stanno le cose ci sono molti dubbi sull’utilità di una grossa iniezione di contanti. I primi provvedimenti di Bruxelles erano inefficienti e si conclusero con un nulla di fatto. L’anno scorso la Commissione europea aveva promesso ai paesi in crisi che avrebbero potuto spendere gli avanzi dei fondi strutturali per varare progetti finalizzati a creare posti di lavoro per i giovani disoccupati. Circa sedici miliardi di euro erano stati richiesti entro l’inizio di quest’anno, con l’idea di utilizzarli per aiutare 780mila giovani. Ma le esperienze sono state negative e i successi concreti pochi.

Secondo la bozza di un rapporto che il governo tedesco intende discutere a giugno, la Germania vuole appoggiare i paesi colpiti dalla crisi “incorporando nei rispettivi sistemi elementi di duplice istruzione e formazione professionale”. Il governo ha in mente la creazione di un nuovo “Ufficio centrale per la cooperazione internazionale dell’istruzione” presso l’Istituto federale per l’istruzione e la formazione, che potrebbe inviare consulenti nei paesi in crisi quando necessario. Per il nuovo ufficio sono già state approvate dieci nuove posizioni.

La chiave per combattere la disoccupazione giovanile consiste nel riformare un mercato del lavoro frammentario. Ma, come dimostra un rapporto interno del governo tedesco, i paesi fortemente colpiti dalla crisi non hanno fatto quasi nessun passo avanti da questo punto di vista. Secondo il rapporto il Portogallo potenzialmente avrebbe “ulteriori riserve di efficienza nel suo sistema scolastico”, mentre la Grecia sta mostrando soltanto pochi segnali di progresso, tra cui un piano per “aiutare le giovani donne disoccupate”.

I problemi del mercato del lavoro sono evidenti in Italia, dove i lavoratori più anziani hanno contratti a tempo indeterminato e si aggrappano al loro posto di lavoro rendendolo inaccessibile ai lavoratori più giovani. L’umore che circola tra i giovani è condensato nello slogan stampato sulla maglietta di un manifestante a Napoli: “Non voglio morire di incertezza”.

Ad Atene intanto Stylia Kampani sta pensando di ricominciare da zero e traslocare in Germania, stavolta per restarci. (Traduzione di Anna Bissanti)

mercoledì 22 maggio 2013

ITALIA - Don Gallo ci ha lasciati


Bagnasco: Con lui dialettica e dialogo rispettoso

Nel sociale sempre aiutato da arcivesccovi Genova

Roma, 22 mag.  - Con Don Andrea Gallo il cardinale Angelo Bagnasco ha avuto "un dialogo sempre fraterno e rispettoso": così lo stesso arcivescovo di Genova commentando da Roma con un gruppo di giornalisti incontrati a margine dell'assemblea generale della Cei la scomparsa del sacerdote genovese. "Ci siamo incontrati diverse volte in questi sei anni e c'è sempre stata dialettica e dialogo, lealtà, chiarezza, paternità da parte mia, affetto e amicizia da parte sua, e gli incontri sono serviti anche a chiarire situazioni che a volte creavano perplessità da qualche parte".

Bagnasco ha ricordato l'attività di Don Gallo nel "recupero sistematico" delle persone disagiate, sottolineando che all'inizio del suo sacerdozio "è stato accolto in Diocesi dal cardinale Giuseppe Siri" e nella sua attività sociale con la comunità di San Benedetto al Porto "è sempre stato aiutato dagli arcivescovi che si sono susseguiti a Genova nel corso degli anni".

Bagnasco ha raccontato che una settimana fa era andato a trovarlo in canonica e lo aveva trovato "molto lucido, molto magro, consapevole e sereno" e, dopo un caffè e una ave Maria insieme il cardinale lo ha benedetto. Giunto poi a Roma per l'assemblea Cei, da Genova negli ultimissimi giorni lo avevano avvisato che la situazione "era precipitata". Bagnasco ha infine espresso l'auspicio di fare in tempo a tornare a Genova per presiedere i funerali di Don Gallo "come faccio con tutti i miei sacerdoti" che potrebbero svolgersi venerdì.

Napolitano: Tristezza e rammarico per sua scomparsa


Sacerdote amato per suo impegno su povertà ed emarginazione


Roma, 22 mag. (TMNews) - "Ho appreso con tristezza e rammarico la notizia della scomparsa di Don Andrea Gallo, sacerdote amato per la sua forza spirituale e il suo impegno sui temi della povertà, dell'emarginazione e dell'esclusione sociale". Lo ha scritto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato alla Comunità di San Benedetto al Porto.

Con sentimenti di sincera partecipazione, esprimo ai familiari, alla comunità di San Benedetto al Porto, alla diocesi e alla città di Genova, il mio sentito cordoglio", ha aggiunto.

giovedì 16 maggio 2013

Unione europea - L’era della stupidità è finita

La concessione di una proroga degli obiettivi di bilancio per Francia e Spagna dimostra che Bruxelles ha finalmente scelto il buon senso invece della disastrosa fissazione per il rigore.

LE MONDE

Gli europei stanno per scommettere sulla loro stessa intelligenza e sulla reciproca fiducia? Questa è la speranza alimentata dalla Commissione europea che, nella sorpresa generale, ha deciso di accordare una proroga di due anni alla Francia per riportare finalmente il suo deficit pubblico al di sotto del 3 per cento del prodotto interno lordo. Questo obiettivo dovrà dunque essere raggiunto nel 2015, non più nel 2013 o nel 2014.

Prima di questo annuncio Parigi sperava di ottenere una proroga di un anno, dopo essersi rivelata incapace di rispettare l’impegno preso da Nicolas Sarkozy e confermato in seguito da François Hollande. Ma Olli Rehn, commissario agli affari economici e monetari, ha deciso altrimenti: giudicando che per rispettare la soglia del 3 per cento del pil l’anno prossimo gli sforzi da compiere sarebbero stati troppo consistenti per essere credibili, ha prorogato la scadenza al 2015, per non soffocare ogni speranza di ripresa. In cambio ha chiesto al governo francese di accelerare le riforme e ridurre la spesa pubblica.

La Commissione e gli stati europei escono quindi una volta per tutte da quell’attività di simulazione che ha vanificato la governance economica dell’unione monetaria e portato l’euro sull’orlo del baratro. Riprendendo l’aggettivo qualificativo attribuito al patto di stabilità dall’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi, in un primo tempo c’è stato un periodo “stupido”, quello nel quale per consolidare il proprio potere Bruxelles ha applicato le regole contabili, mentre a partire dal 2003 Francia e Germania se ne sono emancipati. In modo intelligente, nel caso di Gerhard Schröder che ha messo a frutto questa tregua per riformare la Germania; e in modo disinvolto, nel caso di Jacques Chirac che ne ha approfittato per non fare assolutamente nulla.

Gli anni di crisi hanno sospeso le direttive, prima che si inaugurasse la stagione della menzogna autorizzata: tutti si sono fatti promesse pur sapendo di non poterle mantenere. La Commissione e Hollande per mesi hanno finto che nel 2013 la Francia sarebbe scesa sotto la soglia del 3 per cento. La Commissione salvava la faccia e Parigi poteva fingere di comportarsi bene.

Questo giochetto è diventato insostenibile quando l’Europa si è trovata coinvolta in una disputa dogmatica. I sostenitori di un pilotaggio della congiuntura (Francia ed Fmi) si oppongono a chi promuove il rigore (Germania e Commissione). I primi invitano a non accentuare la recessione tramite piani di austerity cumulativi, ma non convincono i secondi. Questi ultimi, infatti, sulla base dell’esperienza lo considerano un pretesto per rimandare le riforme necessarie. E quali sono i risultati? Recessione e assenza di riforme.

Rinunciando invece al fanatismo del 3 per cento, la Commissione ha deciso di uscire da questo tira e molla nel quale tutti ci rimettevano. E finalmente ha preso una decisione saggia dal punto di vista economico e proficua da quello politico.

UE - Il Vecchio continente è ancora in gamba


Ormai è un luogo comune affermare che l'Ue è in declino. Ma dietro le esagerazioni sulla crisi dell'euro, l'Unione continua a essere una potenza di prim'ordine a livello politico, economico e militare. Estratti.

Mark Leonard/Hans Kundnani 10 maggio 2013 FOREIGN POLICY Washington

Prima Parte

“L’Europa è storia passata"


No. Di questi tempi molti parlano dell’Europa come se fosse già caduta nel dimenticatoio. Con la sua crescita anemica, la crisi dell’euro in corso e le complessità del suo processo decisionale, l’Europa è indubbiamente un bersaglio facile per le critiche. La sbalorditiva ascesa di paesi come Brasile e Cina negli ultimi anni oltretutto ha indotto molte persone a credere che il Vecchio mondo sia destinato a diventare il proverbiale cumulo di ceneri.

Ma i sostenitori del declino farebbero bene a tenere a mente alcuni incontrovertibili dati di fatto. Non soltanto l’Unione europea continua a essere l’economia più grande del mondo, ma oltretutto ha il budget per la difesa più cospicuo dopo quello degli Stati Uniti, con oltre 66mila uomini dispiegati in varie parti del globo e circa 57mila diplomatici (l’India ne ha più o meno 600). Il pil procapite dell’Ue in termini di potere d’acquisto è ancora oggi il quadruplo di quello cinese, il triplo di quello brasiliano e nove volte superiore a quello dell’India. Se questo significa declino, di certo supera di molto la qualità della vita in una potenza in ascesa.

Il potere, naturalmente, dipende non solo da queste risorse, ma anche dalla capacità di convertirle in risultati tangibili. E anche in questo caso l’Europa raggiunge in pieno l’obiettivo: nessun’altra potenza, a esclusione degli Stati Uniti, ha avuto un impatto simile sul resto del pianeta negli ultimi venti anni. Dalla fine della Guerra fredda, l’Ue si è espansa pacificamente fino ad annettere 15 nuovi stati membri e ha trasformato buona parte dei paesi confinanti, riducendo i conflitti etnici, esportando la legalità e sviluppando le economie locali dal Baltico ai Balcani. Provate a paragonare tutto ciò con la Cina, la cui ascesa provoca paura e resistenze in tutta l’Asia.

È vero: l’Ue oggi è alle prese con una crisi esistenziale. Pur facendo fatica, tuttavia, contribuisce ancora in maggior misura rispetto ad altre potenze a risolvere sia i conflitti regionali sia i problemi globali. Quando nel 2011 scoppiarono le rivoluzioni arabe, l’Ue che si presumeva in bancarotta in realtà ha offerto molti più soldi per sostenere la democrazia in Egitto e in Tunisia di quanti ne abbiano dati gli Stati Uniti. Quando il leader arabo Muammar Gheddafi nel marzo 2011 era in procinto di scatenare un massacro a Bengasi, sono state Francia e Regno Unito a fermarlo e a prendere in mano le redini della situazione. Quest’anno la Francia è intervenuta per evitare che i jihadisti e i trafficanti di droga prendessero pieno possesso del Mali. Gli europei forse non hanno fatto abbastanza per fermare il conflitto in Siria, ma di sicuro hanno fatto quanto chiunque altro per porre termine a queste tragiche vicende.

Da un certo punto di vista è vero che l’Europa sta vivendo un declino inesorabile. Per quattro secoli, del resto, è stata la forza dominante nelle relazioni internazionali. Era dunque inevitabile, oltre che auspicabile, che col tempo altri protagonisti gradualmente affiorassero e colmassero il divario in termini di ricchezza e potere. Dalla Seconda guerra mondiale, questo processo di recupero delle altre potenze si è accelerato. Ma gli europei ne traggono vantaggio: per mezzo della loro interdipendenza economica con le potenze in ascesa, comprese quelle in Asia, gli europei hanno continuato ad aumentare il loro pil e migliorato la loro qualità della vita. In altri termini, gli europei sono in declino relativo come gli statunitensi – a differenza, per esempio, dei russi alla frontiera orientale del continente – non in declino assoluto.

“La zona euro è un fallimento economico”


Soltanto in parte. Molte persone descrivono l’eurozona, l’insieme di 17 paesi che condivide un’unica valuta, l’euro, come un disastro economico. Nel complesso, però, quest’area ha un indebitamento minore e un’economia più competitiva di molte altre regioni del mondo. Per esempio, il Fondo monetario internazionale prevede che il deficit pubblico congiunto in termini di percentuale del pil nel 2013 sarà del 2,6 per cento, appena un terzo di quello degli Stati Uniti. L’indebitamento pubblico lordo rispetto al pil è più o meno come quello statunitense, e molto inferiore a quello giapponese. Alla zona euro si deve il 15,6 per cento delle esportazioni mondiali, un dato di molto superiore a quello degli Stati Uniti (8,3 per cento) e del Giappone (4,6 per cento).

La vera differenza tra la zona euro e gli Stati Uniti o il Giappone è che vi sono squilibri interni ma non è un paese vero e proprio, e che essa ha una valuta comune ma non un tesoro comune. I mercati finanziari pertanto prendono in considerazione i dati peggiori dei singoli paesi – per esempio quelli di Grecia e Italia – invece che le cifre aggregate. E più di ogni altra cosa, la crisi della zona euro è un problema politico più che un problema economico.

“Gli europei vengono da Venere”


Assolutamente no. Nel 2002, il famoso scrittore americano Robert Kagan scrisse “Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere”. In tempi più recenti Robert Gates, segretario alla Difesa degli Stati Uniti, nel 2010 ha messo in guardia dal processo di “smilitarizzazione” dell’Europa. Invece, non soltanto gli eserciti europei sono tra i più forti al mondo, ma oltretutto questi giudizi trascurano del tutto uno dei più grandi successi della civiltà umana: un continente che ha scatenato i conflitti più devastanti della storia ha ormai concordato di rinunciare alla guerra sul suo territorio.

Inoltre, all’interno dell’Europa vi sono enormi discrepanze di atteggiamento nei confronti degli usi e degli abusi della forza. I paesi più falchi da questo punto di vista, Polonia e Regno Unito, sono più vicini agli Stati Uniti che alla colomba Germania. E diversamente da potenze in ascesa come la Cina, che proclamano il principio di non ingerenza, gli europei sono ancora pronti a utilizzare la forza per intervenire all’estero. Chiedetelo agli abitanti della città maliana di Gao, occupata per circa un anno dagli islamisti finché i soldati francesi non li hanno cacciati, se considerano gli europei dei timidi pacifisti.

Al tempo stesso, ora che gli Stati Uniti si sono ritirati dalle guerre in Afghanistan e Iraq per concentrarsi sul processo di “nation-building a casa nostra” paiono loro sempre più venusiani. Secondo Transatlantic Trends, un sondaggio a scadenze regolari effettuato dal fondo tedesco Marshall, soltanto il 49 per cento degli americani pensa che l’intervento in Libia fosse la cosa giusta da fare, rispetto al 48 per cento degli europei. E adesso vogliono ritirare i loro contingenti dall’Afghanistan più o meno tanti americani (68 per cento) quanti europei (75 per cento).

Molti americani che criticano l’Europa puntano il dito contro i bassi livelli delle spese militari del Vecchio continente. In realtà, secondo l’Istituto di ricerche per la pace internazionale di Stoccolma, nel complesso gli europei hanno pagato nel 2011 l’equivalente del 20 per cento delle spese militari mondiali complessive, rispetto all’otto per cento della Cina, al quattro della Russia e a meno del tre per cento dell’India. (Traduzione di Anna Bissanti)

Seconda Parte

“L’Europa ha un deficit di democrazia”


No, ma ha un problema di legittimità – Da anni gli scettici sostengono che l’Europa ha un “deficit di democrazia” perché la Commissione europea non è stata eletta o perché il Parlamento europeo non ha abbastanza poteri. Ma i membri della Commissione europea sono nominati da governi nazionali eletti direttamente, e gli europarlamentari sono eletti direttamente dai cittadini europei. In generale, le decisioni nell’Ue sono prese congiuntamente dai governi nazionali democraticamente eletti e dal Parlamento europeo. Rispetto ad altri stati, o anche a una democrazia ideale, l’Ue effettua più controlli e valutazioni, e richiede maggioranze più ampie per approvare le leggi. L’Unione europea è molto democratica.

La zona euro, tuttavia, ha un problema più pressante di legittimità, imputabile alle modalità con le quali è stata creata. Anche se le decisioni sono prese da leader eletti democraticamente, l’Ue in sostanza è un progetto fondamentalmente tecnocratico, basato sul cosiddetto “metodo Monnet”, dal nome del diplomatico francese Jean Monnet, uno dei padri dell’Europa unita. Questa strategia incrementale – prima comunità dell’acciaio e del carbone, poi mercato unico, infine unione monetaria – ha conquistato molte più aree oltre alla sfera politica. Ma quanto più questo progetto aveva successo, tanto più limitava i poteri dei governi nazionali e inaspriva la violenta reazione populista.

Per risolvere la crisi attuale, i paesi membri e le istituzioni dell’Ue stanno estrapolando dalla sfera politica più aree delle politiche economiche. I paesi dell’eurozona, Germania in testa, hanno firmato un trattato fiscale che li vincola all’austerità a tempo indeterminato. C’è quindi un pericolo concreto che ciò porti a una democrazia senza vere scelte: i cittadini avranno facoltà di cambiare i governi, ma non le politiche. Possiamo dire che sì, le politiche europee soffrono di un problema di legittimità, e la soluzione verrà più facilmente da un cambiamento politico che, per esempio, dal conferire ancora più poteri al Parlamento europeo. Non date retta a quello che dicono gli scettici: il Parlamento europeo ha ampi poteri già adesso.

“L’Europa sta per precipitare in una crisi demografica”


Come molti altri paesi – L’Ue ha un grave problema demografico. A differenza degli Stati Uniti – la cui popolazione secondo le previsioni aumenterà fino a 400 milioni di abitanti entro il 2050 – gli abitanti dell’Ue dovrebbero passare dagli attuali 504 milioni ai 525 nel 2035, per poi iniziare gradualmente a ridursi fino a raggiungere i 517 milioni nel 2060, secondo quanto calcola il dipartimento europeo di statistica.

La popolazione europea oltretutto sta anche invecchiando: quest’anno gli europei in età da lavoro inizieranno progressivamente a diminuire, per passare dagli attuali 308 milioni a 265 nel 2060. Si prevede quindi che questo dato aumenti il rapporto di dipendenza della popolazione anziana (il numero in percentuale degli ultrasessantacinquenni rispetto alla popolazione complessiva in età da lavoro), che si prevede passerà dal 28 per cento del 2010 al 58 per cento del 2060.

Ma queste fosche previsioni demografiche non sono esclusive dell’Europa. Infatti quasi tutte le più importanti potenze del mondo devono affrontare un considerevole invecchiamento della popolazione, in alcuni casi ancora più grave di quello europeo. Si calcola che la popolazione della Cina passerà da un’età media di 35 anni a una di 43 entro il 2030 e che in Giappone tale percentuale passerà da 45 a 52, in Germania dal 44 al 49. Il Regno Unito, invece, passerà da 40 a 42, con un tasso di invecchiamento equiparabile a quello statunitense, una delle potenze con le migliori prospettive demografiche.

Di certo, quindi, la questione demografica costituirà un problema di primo piano per l’Europa. Sul breve periodo risolvere il problema è complesso, ma l’immigrazione offre la possibilità di alleviare sia il processo di invecchiamento sia il calo della popolazione: a prescindere dal cosiddetto declino, non c’è penuria di giovani che vogliano recarsi in Europa. A medio termine, gli stati membri potrebbero anche aumentare l’età pensionistica – altro difficile scoglio per la politica, col quale per altro sono già alle prese molti paesi. Sul lungo periodo, infine, alcune intelligenti politiche di sostegno alla famiglia – come gli assegni famigliari, i crediti fiscali e l’assistenza pubblica all’infanzia con gli asili nido – potrebbero incoraggiare gli europei a fare più figli. In ogni caso l’Europa è già all’avanguardia rispetto al resto del mondo per ciò che concerne la ricerca di soluzioni al problema di una società che invecchia. E i cinesi brizzolati farebbero bene a prenderne nota.

“L’Europa in Asia è irrilevante”


No – Si sente dire, spesso e ad alta voce soprattutto da Mahbubani a Singapore, che per quanto l’Europa possa continuare a essere determinante nella sua regione, è irrilevante in Asia, l’area che avrà maggior peso nel XXI secolo.

Ma l’Europa è già presente in Asia. È il più importante partner commerciale della Cina, il secondo più importante dell’India e dell’Asean (l’organizzazione delle nazioni dell’Asia meridionale), il terzo del Giappone e il quarto dell’Indonesia.

L’Europa ha rivestito un ruolo centrale nell’imporre sanzioni contro la Birmania, e in seguito nel rimuoverle quando la giunta militare ha dato il via alle riforme. Ha contribuito a risolvere i conflitti di Aceh in Indonesia, e sta mediando a Mindanao nelle Filippine. Anche se l’Europa non ha una Settima flotta dispiegata in Giappone, alcuni stati membri si stanno già occupando direttamente della sicurezza in Asia: i britannici hanno alcune strutture militari in Brunei, in Nepal e nell’isola di Diego Garcia, mentre i francesi hanno una base navale a Tahiti. Inoltre stanno rafforzando questo tipo di legami: per esempio, nel tentativo di diversificare le relazioni per la sicurezza del suo paese, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha detto di voler aderire agli Accordi per la difesa delle cinque potenze, un trattato per la sicurezza che include il Regno Unito. Gli stati membri dell’Unione Europea forniscono armi e attrezzature militari all’avanguardia come aerei e fregate a paesi democratici come India e Indonesia. Insomma, l’Ue è tutt’altro che irrilevante.

“L’Europa si disintegrerà”


É prematuro dirlo – Il rischio di una disintegrazione europea è reale. Lo scenario più ottimistico contempla un’Europa divisa in tre parti: un nucleo centrale, quello della zona euro; una fascia di paesi che come la Polonia si sono già impegnati a entrare nell’euro (i “pre-in”); e un gruppo di paesi che come il Regno Unito non hanno intenzione di entrare nella valuta unica (i paesi “opt-out”). In uno scenario molto più pessimistico, invece, c’è da aspettarsi che alcuni paesi della zona euro come Cipro e Grecia siano costretti ad abbandonare l’unione monetaria e che altri stati membri dell’Ue come il Regno Unito possano uscire addirittura dall’edificio europeo, con enormi implicazioni e conseguenze per le risorse dell’Ue e per la sua immagine nel mondo. Sarebbe una vera tragedia se un tentativo di salvare la zona euro portasse alla disintegrazione dell’Unione europea. Tuttavia gli europei sono ben consapevoli di questo rischio e c’è la volontà politica di scongiurarlo.

Il finale della lunga storia europea resta in buona parte ancora da scrivere. Non si tratta di una semplice scelta tra una maggiore integrazione e la disintegrazione. L’elemento chiave è capire se l’Europa riuscirà a salvare l’euro senza spaccare l’Unione europea. Se gli stati membri saranno in grado di coalizzare le loro risorse, troveranno il loro meritato posto accanto a Washington e a Pechino nel forgiare il mondo del XXI secolo. Come disse Charles Krauthammer parlando dell’America, “il declino è una scelta”. Vale anche per l’Europa. (Traduzione di Anna Bissanti)