Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


giovedì 16 maggio 2013

UE - Il Vecchio continente è ancora in gamba


Ormai è un luogo comune affermare che l'Ue è in declino. Ma dietro le esagerazioni sulla crisi dell'euro, l'Unione continua a essere una potenza di prim'ordine a livello politico, economico e militare. Estratti.

Mark Leonard/Hans Kundnani 10 maggio 2013 FOREIGN POLICY Washington

Prima Parte

“L’Europa è storia passata"


No. Di questi tempi molti parlano dell’Europa come se fosse già caduta nel dimenticatoio. Con la sua crescita anemica, la crisi dell’euro in corso e le complessità del suo processo decisionale, l’Europa è indubbiamente un bersaglio facile per le critiche. La sbalorditiva ascesa di paesi come Brasile e Cina negli ultimi anni oltretutto ha indotto molte persone a credere che il Vecchio mondo sia destinato a diventare il proverbiale cumulo di ceneri.

Ma i sostenitori del declino farebbero bene a tenere a mente alcuni incontrovertibili dati di fatto. Non soltanto l’Unione europea continua a essere l’economia più grande del mondo, ma oltretutto ha il budget per la difesa più cospicuo dopo quello degli Stati Uniti, con oltre 66mila uomini dispiegati in varie parti del globo e circa 57mila diplomatici (l’India ne ha più o meno 600). Il pil procapite dell’Ue in termini di potere d’acquisto è ancora oggi il quadruplo di quello cinese, il triplo di quello brasiliano e nove volte superiore a quello dell’India. Se questo significa declino, di certo supera di molto la qualità della vita in una potenza in ascesa.

Il potere, naturalmente, dipende non solo da queste risorse, ma anche dalla capacità di convertirle in risultati tangibili. E anche in questo caso l’Europa raggiunge in pieno l’obiettivo: nessun’altra potenza, a esclusione degli Stati Uniti, ha avuto un impatto simile sul resto del pianeta negli ultimi venti anni. Dalla fine della Guerra fredda, l’Ue si è espansa pacificamente fino ad annettere 15 nuovi stati membri e ha trasformato buona parte dei paesi confinanti, riducendo i conflitti etnici, esportando la legalità e sviluppando le economie locali dal Baltico ai Balcani. Provate a paragonare tutto ciò con la Cina, la cui ascesa provoca paura e resistenze in tutta l’Asia.

È vero: l’Ue oggi è alle prese con una crisi esistenziale. Pur facendo fatica, tuttavia, contribuisce ancora in maggior misura rispetto ad altre potenze a risolvere sia i conflitti regionali sia i problemi globali. Quando nel 2011 scoppiarono le rivoluzioni arabe, l’Ue che si presumeva in bancarotta in realtà ha offerto molti più soldi per sostenere la democrazia in Egitto e in Tunisia di quanti ne abbiano dati gli Stati Uniti. Quando il leader arabo Muammar Gheddafi nel marzo 2011 era in procinto di scatenare un massacro a Bengasi, sono state Francia e Regno Unito a fermarlo e a prendere in mano le redini della situazione. Quest’anno la Francia è intervenuta per evitare che i jihadisti e i trafficanti di droga prendessero pieno possesso del Mali. Gli europei forse non hanno fatto abbastanza per fermare il conflitto in Siria, ma di sicuro hanno fatto quanto chiunque altro per porre termine a queste tragiche vicende.

Da un certo punto di vista è vero che l’Europa sta vivendo un declino inesorabile. Per quattro secoli, del resto, è stata la forza dominante nelle relazioni internazionali. Era dunque inevitabile, oltre che auspicabile, che col tempo altri protagonisti gradualmente affiorassero e colmassero il divario in termini di ricchezza e potere. Dalla Seconda guerra mondiale, questo processo di recupero delle altre potenze si è accelerato. Ma gli europei ne traggono vantaggio: per mezzo della loro interdipendenza economica con le potenze in ascesa, comprese quelle in Asia, gli europei hanno continuato ad aumentare il loro pil e migliorato la loro qualità della vita. In altri termini, gli europei sono in declino relativo come gli statunitensi – a differenza, per esempio, dei russi alla frontiera orientale del continente – non in declino assoluto.

“La zona euro è un fallimento economico”


Soltanto in parte. Molte persone descrivono l’eurozona, l’insieme di 17 paesi che condivide un’unica valuta, l’euro, come un disastro economico. Nel complesso, però, quest’area ha un indebitamento minore e un’economia più competitiva di molte altre regioni del mondo. Per esempio, il Fondo monetario internazionale prevede che il deficit pubblico congiunto in termini di percentuale del pil nel 2013 sarà del 2,6 per cento, appena un terzo di quello degli Stati Uniti. L’indebitamento pubblico lordo rispetto al pil è più o meno come quello statunitense, e molto inferiore a quello giapponese. Alla zona euro si deve il 15,6 per cento delle esportazioni mondiali, un dato di molto superiore a quello degli Stati Uniti (8,3 per cento) e del Giappone (4,6 per cento).

La vera differenza tra la zona euro e gli Stati Uniti o il Giappone è che vi sono squilibri interni ma non è un paese vero e proprio, e che essa ha una valuta comune ma non un tesoro comune. I mercati finanziari pertanto prendono in considerazione i dati peggiori dei singoli paesi – per esempio quelli di Grecia e Italia – invece che le cifre aggregate. E più di ogni altra cosa, la crisi della zona euro è un problema politico più che un problema economico.

“Gli europei vengono da Venere”


Assolutamente no. Nel 2002, il famoso scrittore americano Robert Kagan scrisse “Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere”. In tempi più recenti Robert Gates, segretario alla Difesa degli Stati Uniti, nel 2010 ha messo in guardia dal processo di “smilitarizzazione” dell’Europa. Invece, non soltanto gli eserciti europei sono tra i più forti al mondo, ma oltretutto questi giudizi trascurano del tutto uno dei più grandi successi della civiltà umana: un continente che ha scatenato i conflitti più devastanti della storia ha ormai concordato di rinunciare alla guerra sul suo territorio.

Inoltre, all’interno dell’Europa vi sono enormi discrepanze di atteggiamento nei confronti degli usi e degli abusi della forza. I paesi più falchi da questo punto di vista, Polonia e Regno Unito, sono più vicini agli Stati Uniti che alla colomba Germania. E diversamente da potenze in ascesa come la Cina, che proclamano il principio di non ingerenza, gli europei sono ancora pronti a utilizzare la forza per intervenire all’estero. Chiedetelo agli abitanti della città maliana di Gao, occupata per circa un anno dagli islamisti finché i soldati francesi non li hanno cacciati, se considerano gli europei dei timidi pacifisti.

Al tempo stesso, ora che gli Stati Uniti si sono ritirati dalle guerre in Afghanistan e Iraq per concentrarsi sul processo di “nation-building a casa nostra” paiono loro sempre più venusiani. Secondo Transatlantic Trends, un sondaggio a scadenze regolari effettuato dal fondo tedesco Marshall, soltanto il 49 per cento degli americani pensa che l’intervento in Libia fosse la cosa giusta da fare, rispetto al 48 per cento degli europei. E adesso vogliono ritirare i loro contingenti dall’Afghanistan più o meno tanti americani (68 per cento) quanti europei (75 per cento).

Molti americani che criticano l’Europa puntano il dito contro i bassi livelli delle spese militari del Vecchio continente. In realtà, secondo l’Istituto di ricerche per la pace internazionale di Stoccolma, nel complesso gli europei hanno pagato nel 2011 l’equivalente del 20 per cento delle spese militari mondiali complessive, rispetto all’otto per cento della Cina, al quattro della Russia e a meno del tre per cento dell’India. (Traduzione di Anna Bissanti)

Seconda Parte

“L’Europa ha un deficit di democrazia”


No, ma ha un problema di legittimità – Da anni gli scettici sostengono che l’Europa ha un “deficit di democrazia” perché la Commissione europea non è stata eletta o perché il Parlamento europeo non ha abbastanza poteri. Ma i membri della Commissione europea sono nominati da governi nazionali eletti direttamente, e gli europarlamentari sono eletti direttamente dai cittadini europei. In generale, le decisioni nell’Ue sono prese congiuntamente dai governi nazionali democraticamente eletti e dal Parlamento europeo. Rispetto ad altri stati, o anche a una democrazia ideale, l’Ue effettua più controlli e valutazioni, e richiede maggioranze più ampie per approvare le leggi. L’Unione europea è molto democratica.

La zona euro, tuttavia, ha un problema più pressante di legittimità, imputabile alle modalità con le quali è stata creata. Anche se le decisioni sono prese da leader eletti democraticamente, l’Ue in sostanza è un progetto fondamentalmente tecnocratico, basato sul cosiddetto “metodo Monnet”, dal nome del diplomatico francese Jean Monnet, uno dei padri dell’Europa unita. Questa strategia incrementale – prima comunità dell’acciaio e del carbone, poi mercato unico, infine unione monetaria – ha conquistato molte più aree oltre alla sfera politica. Ma quanto più questo progetto aveva successo, tanto più limitava i poteri dei governi nazionali e inaspriva la violenta reazione populista.

Per risolvere la crisi attuale, i paesi membri e le istituzioni dell’Ue stanno estrapolando dalla sfera politica più aree delle politiche economiche. I paesi dell’eurozona, Germania in testa, hanno firmato un trattato fiscale che li vincola all’austerità a tempo indeterminato. C’è quindi un pericolo concreto che ciò porti a una democrazia senza vere scelte: i cittadini avranno facoltà di cambiare i governi, ma non le politiche. Possiamo dire che sì, le politiche europee soffrono di un problema di legittimità, e la soluzione verrà più facilmente da un cambiamento politico che, per esempio, dal conferire ancora più poteri al Parlamento europeo. Non date retta a quello che dicono gli scettici: il Parlamento europeo ha ampi poteri già adesso.

“L’Europa sta per precipitare in una crisi demografica”


Come molti altri paesi – L’Ue ha un grave problema demografico. A differenza degli Stati Uniti – la cui popolazione secondo le previsioni aumenterà fino a 400 milioni di abitanti entro il 2050 – gli abitanti dell’Ue dovrebbero passare dagli attuali 504 milioni ai 525 nel 2035, per poi iniziare gradualmente a ridursi fino a raggiungere i 517 milioni nel 2060, secondo quanto calcola il dipartimento europeo di statistica.

La popolazione europea oltretutto sta anche invecchiando: quest’anno gli europei in età da lavoro inizieranno progressivamente a diminuire, per passare dagli attuali 308 milioni a 265 nel 2060. Si prevede quindi che questo dato aumenti il rapporto di dipendenza della popolazione anziana (il numero in percentuale degli ultrasessantacinquenni rispetto alla popolazione complessiva in età da lavoro), che si prevede passerà dal 28 per cento del 2010 al 58 per cento del 2060.

Ma queste fosche previsioni demografiche non sono esclusive dell’Europa. Infatti quasi tutte le più importanti potenze del mondo devono affrontare un considerevole invecchiamento della popolazione, in alcuni casi ancora più grave di quello europeo. Si calcola che la popolazione della Cina passerà da un’età media di 35 anni a una di 43 entro il 2030 e che in Giappone tale percentuale passerà da 45 a 52, in Germania dal 44 al 49. Il Regno Unito, invece, passerà da 40 a 42, con un tasso di invecchiamento equiparabile a quello statunitense, una delle potenze con le migliori prospettive demografiche.

Di certo, quindi, la questione demografica costituirà un problema di primo piano per l’Europa. Sul breve periodo risolvere il problema è complesso, ma l’immigrazione offre la possibilità di alleviare sia il processo di invecchiamento sia il calo della popolazione: a prescindere dal cosiddetto declino, non c’è penuria di giovani che vogliano recarsi in Europa. A medio termine, gli stati membri potrebbero anche aumentare l’età pensionistica – altro difficile scoglio per la politica, col quale per altro sono già alle prese molti paesi. Sul lungo periodo, infine, alcune intelligenti politiche di sostegno alla famiglia – come gli assegni famigliari, i crediti fiscali e l’assistenza pubblica all’infanzia con gli asili nido – potrebbero incoraggiare gli europei a fare più figli. In ogni caso l’Europa è già all’avanguardia rispetto al resto del mondo per ciò che concerne la ricerca di soluzioni al problema di una società che invecchia. E i cinesi brizzolati farebbero bene a prenderne nota.

“L’Europa in Asia è irrilevante”


No – Si sente dire, spesso e ad alta voce soprattutto da Mahbubani a Singapore, che per quanto l’Europa possa continuare a essere determinante nella sua regione, è irrilevante in Asia, l’area che avrà maggior peso nel XXI secolo.

Ma l’Europa è già presente in Asia. È il più importante partner commerciale della Cina, il secondo più importante dell’India e dell’Asean (l’organizzazione delle nazioni dell’Asia meridionale), il terzo del Giappone e il quarto dell’Indonesia.

L’Europa ha rivestito un ruolo centrale nell’imporre sanzioni contro la Birmania, e in seguito nel rimuoverle quando la giunta militare ha dato il via alle riforme. Ha contribuito a risolvere i conflitti di Aceh in Indonesia, e sta mediando a Mindanao nelle Filippine. Anche se l’Europa non ha una Settima flotta dispiegata in Giappone, alcuni stati membri si stanno già occupando direttamente della sicurezza in Asia: i britannici hanno alcune strutture militari in Brunei, in Nepal e nell’isola di Diego Garcia, mentre i francesi hanno una base navale a Tahiti. Inoltre stanno rafforzando questo tipo di legami: per esempio, nel tentativo di diversificare le relazioni per la sicurezza del suo paese, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha detto di voler aderire agli Accordi per la difesa delle cinque potenze, un trattato per la sicurezza che include il Regno Unito. Gli stati membri dell’Unione Europea forniscono armi e attrezzature militari all’avanguardia come aerei e fregate a paesi democratici come India e Indonesia. Insomma, l’Ue è tutt’altro che irrilevante.

“L’Europa si disintegrerà”


É prematuro dirlo – Il rischio di una disintegrazione europea è reale. Lo scenario più ottimistico contempla un’Europa divisa in tre parti: un nucleo centrale, quello della zona euro; una fascia di paesi che come la Polonia si sono già impegnati a entrare nell’euro (i “pre-in”); e un gruppo di paesi che come il Regno Unito non hanno intenzione di entrare nella valuta unica (i paesi “opt-out”). In uno scenario molto più pessimistico, invece, c’è da aspettarsi che alcuni paesi della zona euro come Cipro e Grecia siano costretti ad abbandonare l’unione monetaria e che altri stati membri dell’Ue come il Regno Unito possano uscire addirittura dall’edificio europeo, con enormi implicazioni e conseguenze per le risorse dell’Ue e per la sua immagine nel mondo. Sarebbe una vera tragedia se un tentativo di salvare la zona euro portasse alla disintegrazione dell’Unione europea. Tuttavia gli europei sono ben consapevoli di questo rischio e c’è la volontà politica di scongiurarlo.

Il finale della lunga storia europea resta in buona parte ancora da scrivere. Non si tratta di una semplice scelta tra una maggiore integrazione e la disintegrazione. L’elemento chiave è capire se l’Europa riuscirà a salvare l’euro senza spaccare l’Unione europea. Se gli stati membri saranno in grado di coalizzare le loro risorse, troveranno il loro meritato posto accanto a Washington e a Pechino nel forgiare il mondo del XXI secolo. Come disse Charles Krauthammer parlando dell’America, “il declino è una scelta”. Vale anche per l’Europa. (Traduzione di Anna Bissanti)

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