Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


giovedì 2 maggio 2013

ITALIA – Riflessioni di un militante PD: quel che era, quel che è, cosa vorrebbe che fosse


Tempo fa ero in piedi sul tram quando una ragazza si alza e mi guarda. Ohibò, mi son detto ho ancora del fascino. Nient’affatto, voleva lasciarmi il posto a sedere considerando la mia età e il mio aspetto degno di solidale aiuto.

Ne restai stupefatto e basito, tanto l’immagine che avevo di me così poco rispondeva a quella che evidentemente avevano gli altri.

Al PD capita esattamente lo stesso. Una parte dei suoi elettori e dei suoi attivisti lo immagina l’erede della tradizione comunista italiana, un partito della sinistra europea, l’erede del PCI e di Aldo Moro (qualsiasi cosa voglia significare). Nonostante il fondatore e rifondatore Veltroni lo abbia sempre detto: “quella storia è finita per sempre, forse con la morte di Moro, certamente con quella di Enrico Berlinguer… il PD non è un partito socialista… non è semplicemente una forza della tradizione progressista della sinistra”, una parte del PD non se ne è mai convinta.

Periodicamente compaiono discussioni sull’identità, sul Pantheon delle memorie e periodicamente si finge di aver raggiunto una sintesi che non c’è.
Finché si è all’opposizione questa incongruenza non risalta, basta manifestare contro Berlusconi che tutti i gatti sembrano bigi. Lo stesso avviene nelle campagne elettorali quando il comune obbiettivo di vincere fa passare in secondo piano le quisquilie. Se si tratta poi di elezioni monocratiche anche il dopo è risolto: ogni responsabilità spetta all’eletto.

I problemi emergono quando si tratta di scegliere i candidati e quando si tratta di governare in alleanza.
Alle primarie nazionali la cosa più strana era l’atteggiamento di una parte del partito nei confronti di Renzi considerato a tutti gli effetti un infiltrato.

Indicativo, per Milano, l’anatema contro Gori di Messina “Non voglio che lui sia il regista del centrosinistra milanese. Lui con le sue trasmissioni televisive e i suoi reality è stata una delle rovine culturali degli ultimi anni in Italia. È un’offesa verso tutti quelli che hanno lavorato in questi anni a costruire un nuovo centrosinistra e un nuovo Partito Democratico”. Dove più che astio vi è disprezzo e sorpresa, come quando trovi una blatta in cucina, nella tua cucina. (Indicativo anche il fatto che Messina sia oggi un leader renziano).

La metabolizzazione di Renzi come parte del partito è stata possibile, in parte grazie alla performance elettorale delle primarie considerata però dai più un incidente di percorso ma sopratutto dopo la sconfitta elettorale e il suicidio di Bersani.
Con Marini è andata anche peggio. Un cislino? Un ex democristiano? Ma che c’entra con noi? Queste le domande più comuni. Ma l’equivoco si presenta a ogni primaria dove non solo l’elettore ma fette consistenti del partito “attivo” votano il candidato altro, in genere quello più radicale o almeno apparentemente tale.

Da qui anche la ricorrente polemica contro l’apparato, misteriosa identità che frenerebbe le magnifiche sorti e progressiste del PD. Apparato che ha confini diversi secondo chi parla e nel quale ciclicamente entrano tutti coloro che hanno un qualsivoglia ruolo. Se lunedì eri una risorsa fresca mercoledì rischi di essere apparato, illuminante in questo senso lo sguardo allibito di Fassina rispetto ai contestatori, mai si sarebbe immaginato di essere trattato alla stregua di un Craxi qualsiasi.
Anche la scelta dei parlamentari è avvenuta in modo contraddittorio: da una parte candidature scelte in primarie affrettate e populiste, dall’altra candidature dirigisticamente imposte dal segretario, con una legge elettorale (che non si è voluto cambiare) tagliata su misura per partiti leaderistici.

Ma il PD non ha leader e questo fa immaginare a molti parlamentari che la loro rielezione futura è perlomeno dubbia, le primarie hanno convinto molti di avere il bastone da maresciallo nello zaino (“se ce l’ha fatta quella/o ce la posso fare pur io”) e quindi preferiscono cercare consenso individuale che manifestare responsabilità, anche sparando sciocchezze a raffica.
Questa dicotomia si ripercuote su tutte le valutazioni politico programmatiche: per alcuni i grillini sono una pericolosa aggregazione qualunquista con venature fascistoidi per altri una costola della sinistra protestataria che sbaglia ma che fa sempre parte della famiglia; per alcuni Santoro e Landini sono avversari alla pari di Brunetta e Verdini per altri indispensabili partner; per alcuni il solo sindacato esistente è la CGIL, UIL e CISL notoriamente essendo gialli e Bonanni un delinquente, per altri la CGIL è il freno a ogni proposta di ammodernamento del mercato del lavoro e tutela solo i già garantiti; per alcuni il termine corrente è sinonimo di disgregazione e personalismo, altri hanno politicamente vissuto solo in corrente.

Su tutti il rapporto con Vendola (ma vale anche per Emiliano, De Magistris, Crocetta), per alcuni il vecchio sodale della FGCI partner indiscutibile in base alla legge di Renoult, per altri un confuso parolaio che non porta voti, non vince neppure dove governa e comunque non governa bene.
In questa situazione la sconfitta al senato ha fatto da detonatore.

Al cannibalismo nei confronti dei candidati presidente, all’ondeggiamento della linea politica è seguita una scelta di responsabilità governativa che pur tuttavia è esattamente l’opposto di quello che unanimemente e convintamente il partito ha sostenuto in campagna elettorale e sopratutto comporta un’alleanza con Silvio. I partiti tradizionali avrebbero forse convinto gli iscritti che si è fatto di necessità virtù, il PD non c’è riuscito.

Per una parte dell’elettorato e della militanza allearsi con Berlusconi, sia pure momentaneamente, è pura e semplice bestemmia, da qui occupazioni, proteste, blitz, psicodrammi, accuse di voltagabbanismo, ipotesi di scissioni etc. Ergo le contraddizioni aumentano: prendiamo l’eventualità di deputati che avessero votato contro Letta, per alcuni è l’ovvia esplicitazione della scissione per altri un normale dissenso come effettivamente è avvenuto per decenni, basta rileggersi la storia del PSI fino al 1921.
C’è una soluzione? Semplicissima: smettere di immaginarselo come un partito del ’900 e cercare di organizzarlo come coalizione, rassemblement dove la sintesi viene fatta sui candidati che godono di totale e assoluta autonomia nel mandato, dove il programma fa fede ma c’è un programma minimo e uno massimo, dove ci sono sedi in cui campeggerà Berlinguer e sedi in cui campeggerà Zanetti e sedi che esistono solo sul web. Magari anche smetterla di chiamarlo partito.
L’ipotesi della candidatura di Barca è in senso metodologico un passo avanti. In qualsiasi partito tradizionale l’ipotesi che chicchessia si iscriva il lunedì per candidarsi il martedì a leader comporterebbe una chiamata al neurodeliri ma non in una coalizione tra pari. Certo una legge elettorale fondata sui collegi e il doppio turno aiuterebbe. In questo senso la Lombardia potrebbe essere un laboratorio.
Il PD milanese e lombardo da anni e nonostante il peso elettorale (vale sempre ricordare che il PD da solo è mediamente tra il 70% e il 90% delle coalizioni) ha fatto della ricerca del leader esterno il suo credo, forse anche per mancanza di materia prima interna. Abbiamo così visto passare Pisapia e Ambrosoli, Boeri e Colaninno, Sarfatti e Ferrante esterni di ogni genere e tipo mai una leadership prodotta dalla selezione interna.
Certo rimangono forti ambiguità, un nome, suo malgrado, le rappresenta tutte: Mario Tronti. Il filosofo, indipendentemente da quello che ha scritto e detto negli ultimi decenni rimanda al mondo di Quaderni rossi, di Raniero Panzeri, dell’allora consigliere comunale Psi Toni Negri etc. Un mondo scomparso, che è parte della storia della sinistra, è l’album di famiglia. Candidarlo ha significato voler orgogliosamente ribadire “veniamo da lontano e andiamo lontano”. Il problema è che un’altra parte del PD ritiene quella provenienza semplicemente sbagliata, da dimenticare. Perchè come c’è una parte del partito che considera con diffidenza tutto quello che non ha i sacri crismi della sinistra ce n’è un’altra che considera quella tradizione totalmente obsoleta e neppure commendevole.
Tuttavia il fatto di avere una scarsa leadership identitaria e di provenire da un filone e una tradizione minore della storia politica, culturale della città e della regione consente al PD di sperimentare. Consente ai nativi PD di “fottersene” dei rituali degli ex qualchecosa, consente di immaginare che se si è vinto a Milano e Como si può costruire una ipotesi vincente anche verso Roma.
Destrutturare deve essere l’obbiettivo del prossimo congresso che dovrà essere più che un congresso di partito il congresso di una federazione di sigle e associazioni, accomunate dall’accettazione di poche regole comuni, un po’ com’era si erano immaginati il partito Andrea Costa e Bissolati o come tentò di essere la FAI; un congresso in cui si prende atto anche delle leadership naturali: sindaci, eletti con preferenze, rappresentanti di comitati etc.
Il congresso per eleggere il segretario va riposto nelle bacheche del costruendo museo della vecchia sinistra, inutile cercare un sincretismo dei rituali e i linguaggi, ognuno tenga il suo, quello che conta sono il programma e le realizzazioni, non è importante che il gatto sia bianco o nero purché prenda i topi, diceva Deng. Va costruito non un partito di compagni e fratelli, ma una libera associazione di cittadini, dove ognuno si chiamerà come gli pare e si identificherà con quel che gli pare, financo Letta.

Walter Marossi- Arcipelago Milano

 

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