Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


sabato 22 marzo 2014

ITALIA – Il processo burla a Penati e l’adesione al PSE


Se il buon giorno si vede dal mattino, lo stato reale di un Paese, la sua storia, i suoi problemi e la sua attuale situazione, si possono decifrare da certi dettagli.
E, infatti, analizzando con la lente di ingrandimento i particolari di due avvenimenti della scorsa settimana, si capisce quanto ancora l’Italia non riesca a fare i conti con il suo recente passato.

Primo:
la Cassazione ha stabilito in via definitiva di doversi applicare la prescrizione a Filippo Penati, ex presidente pd della provincia di Milano processato per tangenti.
Lo ha fatto respingendo la richiesta di Penati di volersi sottrarre alla prescrizione.
Ma era una richiesta consapevolmente tardiva.

Quando era il tempo giusto, l’esponente PD si è ben guardato dal presentarsi al processo per avanzarla validamente.
Con risvolti comici, da commedia all’italiana: il presidente del collegio giudicante che chiedeva all’avvocato difensore cosa intendesse fare il suo assistito, quest’ultimo assente e irraggiungibile telefonicamente, nonostante avesse dichiarato a destra e a manca di non volersi sottrarre al giudizio.

Il più importante processo a carico di un esponente pd, la cartina di tornasole per verificare l’assioma della “diversità” morale della sinistra comunista, ora piddina, finisce così con una burla.
Ed ognuno si tenga strette le proprie opinioni.

Da una parte la “diversità” non scalfibile, che non ammette controprove; dall’altra la sensazione (e qualcosa di più) che i processi, da tangentopoli in poi, abbiano un andamento sbilenco.
Misurabile attraverso la loro velocità (la prescrizione per Penati, le sentenze per i tre gradi di giudizio per Craxi in un solo anno) e per il rigore delle indagini: non sappiamo che fine abbiano fatto i soldi delle tangenti eventualmente riscosse da Penati (come il miliardo portato a Botteghe Oscure ai tempi dell’ Enimont); sappiamo molto di più di tutto dei soldi dati a partiti e uomini di diverso orientamento politico.

Secondo: 
il gesto politico ad oggi più importante di Matteo Renzi come segretario del PD è senza dubbio l’adesione al Partito del socialismo europeo (PSE).
E’una decisione saggia anche se tardiva.
L’anomalia dell’assenza in Italia di un partito progressista collegato con chi, nell’Unione, esprime con maggior  forza la linea del riformismo era un handicap per il Paese, non solo per il PD.

Che tutto ciò avvenga con un segretario ex DC è un paradosso che rivela tutti i limiti di chi aveva retto il partito sino ad oggi, cioè il gruppo dirigente ex PCI-PDS-DS.
Naturalmente solo la visione taumaturgica che ne hanno i suoi fedeli fa di Renzi l’artefice esclusivo della svolta.
Chi ha una semplice infarinatura di queste questioni sa bene come siano necessari lunghi tempi, spesso molti anni, per perfezionare l’adesione dei partiti alle varie famiglie internazionali.

Del resto, il congresso del PSE a Roma era stato deciso prima che Renzi scalasse la segreteria.
Ma a Renzi è giusto e doveroso chiedere di rendere convinta ed effettiva l’adesione.
Il dibattito ascoltato nella Direzione del PD che ha sancito il passo ha avuto aspetti surreali.
Salvo D’Alema e qualche altro, è sembrata una adesione “subita”, motivata con il fatto che ormai la “coloritura” socialista e socialdemocratica si è fortemente annacquata.

Così, tanto per rassicurare che né i postdemocristiani né i postcomunisti corrono il rischio di diventare socialdemocratici.
Nemmeno tre mesi fa, il comportamento di non pochi europarlamentari del PD provocò la bocciatura di una risoluzione che chiedeva che l’aborto sicuro fosse un diritto garantito all’interno degli stati membri.
Si trattava di una risoluzione presentata proprio dai socialisti.

Renzi, come presidente del consiglio e segretario PD potrà trarre grande giovamento ora che il suo partito è collegato con la grande famiglia socialista d’Europa.
Purchè nessuno pensi ad una coabitazione improntata alle solite ambiguità e furbizie all’italiana.
Nemmeno i socialisti, in Europa, le tollerano.

Nicola Cariglia

giovedì 20 marzo 2014

ITALIA - Il nuovo virsus influenzale che invade anche l'europa: il renzismo


Ormai un virus si diffonde rapidamente dall'Italia all'europa, è la nuova influenza che questa volta non arriva dai paesi asiatici ma è autoctona, ha preso vita da una delle regioni più antiche d'Italia: la toscana.

Il virus è il renzismo, una variante del berlusconismo con qualche influenza del grillismo. Dopo che i ricercatori avevano iniziato a trovare qualche rimedio per il primo, il berlusconismo, e mentre il secondo, il grillismo, si stava praticamente autodistruggendo a causa di una sorta di anticorpo sviluppato in maniera autonoma, ecco che in poche settimane si è manifestata questa variante forse molto pericolosa.

Infatti mentre i primi due avevano assunto una forma più violenta e si manifestava con inviettive più o meno urlate contro coloro non ancora infettati dalle due forme, il nuovo virus, il renzismo, ha assunto una forma più piaciona, più educata, più pulita ma che ad un attento esame ha gli stessi effetti.

Il sintomo più di diffuso che manifesta l'infezione è la perdita totale della capacità di mettere in funzione i propri neuroni e sopratutto la perdita totale di mancanza di analisi delle sparate a raffica che escono dalla bocca dei ceppi che hanno dato origine al virus stesso: Berlusconi, Grillo, e Renzi.

L'ultimo arrivato presenta una variante che lo rende ancora più pericoloso: mentre il contagio dei primi due era limitato all'Italia, il renzismo sta contagiando anche l'europa, Francia e Germania per il momento ma ora si accinge a colpire il resto dei paesi dell'unione.

I contagiati ascoltano ammaliati il fiume di parole che escono dalla bocca dell'origine del nuovo virus, Matteo Renzi, e credono che tutte quelle dichiarazioni siano relative ad atti, decreti, provvedimenti e riforme già realizzate e concluse. In realtà si tratta solo di chiacchere, di promesse, di faremo ma senza dare spiegazioni nè delucidazione su come riuscirà a portare a termine i suoi progetti soprattutto per quelli che richiedono risorse finanziarie.

Ed intanto alcune sparate si sono già rivelate dei colpi a salve come quelle promesse al momento del suo insediamento: riforma elettorale a febbraio per procedere al ritmo di una riforma al mese ... ma il mese di marzo è già agli sgoccioli e nemmeno la prima è stata portata a termine.

Tutti sono entusiasti ma per il momento si va sulla fiducia perchè fumo tanto, condito con slide pesciolini battutine, ma l'arrosto ancora non si vede.

CRIMEA - Tutti gli attriti fra Obama e Putin sulla Crimea


Che cosa sta davvero succedendo dopo il referendum in Crimea e l'annessione alla Federazione Russa

LA TRAMA RUSSA E IL RITIRO DI KIEV Obama ha escluso un intervento militare degli Stati Uniti in Russia (“Non sarebbe appropriato”, ha detto), ma la Casa Bianca potrebbe inviare delle truppe nelle ex repubbliche sovietiche, secondo quanto detto a Vilnius dal vicepresidente americano Joe Biden.

Sul campo in Crimea L’esercito russo ha occupato ieri altre due basi militari della Crimea. Il premier ucraino chiede all’Onu di demilitarizzare l’area e invia il ministro della Difesa a Simferopoli per tentare un dialogo, ma il premier di Crimea rifiuta l’incontro.

L’ostaggio Nelle stesse ore il comandante della flotta ucraina, Serghiei Gaiduk, è stato portato via dalla sede dello stato maggiore di Sebastopoli. Inizialmente si è pensato che l’atto fosse opera dei servizi segreti russi. Poi da Mosca hanno indicato che sarebbe stato fermato dalla locale procura. Kiev ha dato un ultimatum per la liberazione minacciando di tagliare elettricità e acqua, e anche Mosca (ma chi ha il controllo in Crimea?) ha chiesto che l’uomo sia liberato.

La ritirata In serata si è saputo che Kiev sta preparando un piano per far evacuare dalla Crimea i propri militari e le famiglie. Ieri l’Ucraina ha anche annunciato l’uscita dalla Csi, la comunità di Stati indipendenti nata alla fine dell’Urss.

Qua Mosca La Corte costituzionale russa benedice l’annessione della Crimea alla Russia. Oggi arriva a Mosca il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon (Ria Novosti).

Qua Kiev Yulia Timoshenko è una doppia protagonista, nota il Nyt: simbolo dell’oligarchia e della piazza. Anche in futuro va seguita.

Quale Europa? Oggi a Bruxelles il Consiglio europeo dovrà concordare una posizione unitaria sulla crisi. Ma non è facile, e così non dovrebbero arrivare nuove sanzioni (Bloomberg). Anche Confindustria non tifa per le restrizioni: calzature, mobili, e abiti da donna sono i settori “più esposti” in caso di nuove sanzioni alla Russia.

ITALIA - La spending review si ferma davanti alle porte della Chiesa


Il commissario per la revisione della spesa pubblica ha individuato possibili risparmi per sette miliardi l'anno. La religione ne costa più di sei, ma non è stata considerata.

I quotidiani hanno dedicato oggi molta attenzione alla spending review. Per chi non parla l'inglese e/o non è a suo agio con gli anglismi, si tratta dell'incarico, assegnato all'economista Carlo Cottarelli, di individuare tra le spese pubbliche quelle che necessitano di essere riviste. Ovviamente al ribasso: siamo in tempi di crisi. L'elenco dei possibili tagli è cospicuo. Ma non mancano le clamorose assenze.

Tra le proposte presentate da Cottarelli, la parte del leone la fanno i tagli al personale: secondo il commissario straordinario vi sarebbero circa 85.000 esuberi nella pubblica amministrazione e si potrebbe dunque bloccare il turnover. Altri risparmi potrebbero venire da tagli agli acquisti, agli stipendi dei dirigenti, ai trasferimenti alle imprese, al trasporto pubblico, alla sanità, all'illuminazione pubblica. L'intento palese di Mister Forbici è di intervenire un po' ovunque: persino sulla Difesa, sinora ritenuta intoccabile.

Ma c'è qualcuno realmente intoccabile: la Chiesa cattolica. I cui costi pubblici sono cospicui, come ha documentato l'Uaar, e spesso sarebbero facilmente eliminabili, se solo vi fosse la volontà di farlo. Dalle scelte inespresse dell'Otto per mille ai contributi alle scuole private cattoliche, dall'esenzione Tasi sugli immobili "ibridi" di proprietà ecclesiastica ai beni immobili di proprietà pubblica adibiti a edifici di culto. Sono del resto infiniti i rivoli che invariabilmente sfociano nei capienti serbatoi di diocesi e parrocchie.

Sembra dunque che la montagna abbia partorito il topolino. Il lavoro di Cottarelli ha prodotto un potenziale risparmio di sette miliardi nel 2014. L'Uaar, con la sua inchiesta, ne aveva individuati sei e mezzo. Intervenendo in un solo ambito e lavorando pure gratis, mentre le prestazioni di Cottarelli sono costate 260.000 euro. Ma abbiamo la sensazione che i privilegi della religione siano off limits anche per i sacerdoti della spending review.

giovedì 6 marzo 2014

UCRAINA - Ecco come la strategia italo-tedesca può sbrogliare la matassa ucraina


E’ difficile dire chi abbia vinto e chi abbia perso nella vicenda ucraina. Bisognerebbe conoscere gli obiettivi di Putin. Secondo taluni, i suoi obiettivi erano limitati alla sola Crimea. Secondo altri, sarebbero stati più ambiziosi. Lo “zar” si sarebbe proposto di “finlandizzare” l’intera Ucraina, riportandola nell’orbita di Mosca. Sarà impossibile saperlo.

A parer mio, Putin si sarebbe comportato a seconda delle circostanze. Senza reazione occidentale, si sarebbe spinto dalla Crimea alle regioni russofone e russofile dell’Ucraina orientale e meridionale. Non penso però che si proponesse di conquistare l’intero Paese. Se avesse fatto avanzare le sue truppe, avrebbe verosimilmente dovuto fronteggiare una reazione militare da parte ucraina e una nuova guerra fredda con l’Occidente.

I COSTI DELL’OCCUPAZIONE
I costi dell’occupazione sarebbero stati enormi. La guerriglia ucraina contro l’Armata Rossa, pur vittoriosa nella “Grande Guerra Patriottica”, continuò per una decina di anni dopo la fine della guerra, pur senza gli aiuti esterni che questa volta non le sarebbero mancati. La Russia non sarebbe in grado di sostenere una nuova guerra fredda con l’Occidente. La Russia non è una “piccola URSS”. In primo luogo, non lo sarebbe finanziariamente. Sanzioni finanziarie avrebbero grandemente colpito la base della siua ricchezza. Il 70% delle sue esportazioni e il 50% del bilancio statale dipendono dalle materie prime. Le sue industrie manifatturiere sono tecnologicamente arretrate, con l’eccezione di quelle degli armamenti, nucleare e spaziale. La modernizzazione di quelle che producono beni di consumo è poi improbabile. Lo impedisce la supremazia che ha al Cremlino la fazione dei siloviki, uomini del potere provenienti dai servizi di sicurezza. Essi dominano l’industria estrattiva, che hanno espropriato agli oligarchi del periodo Eltsin.

VULNERABILE ALLE SPECULAZIONI
Sanno che il loro potere diminuirebbe se si creasse una diffusa classe media imprenditoriale, a capo delle industrie produttrici di beni di consumo. La Russia è destinato rimnere un “petrostato”. Come tale continuerà ad essere vulnerabile alla speculazione dei mercati delle materie prime. In tutto il mondo esse sono pagate in dollari e soggette ai crediti concessi dalle grandi banche americane. Sono persuaso che anche nel caso ucraino esse ci abbiano “messo lo zampino”, forse perché indotte a farlo da Washington. Non credo che l’aumento della fuga di capitali e il crollo della borsa di Mosca siano dovuti solo alla “mano invisibile del mercato”. Tanto invisibile non lo è mai. La “bacchettata” che il Cremlino ha subito dato all’incauto funzionario, che aveva proposto di svincolarsi dal dollaro e di farsi pagare le esportazioni in rubli, prova che i dirigenti russi conoscono bene come funziona il mercato delle commodities.

GLI OBIETTIVI DI PUTIN
In conclusione, penso proprio che gli obiettivi di Putin fossero limitati alla sola Crimea o che lo siano divenuti per quanto successo al rublo e alla borsa.
La strategia seguita da Putin è un tipico caso di strategia indiretta, secondo le modalità definite come “strategia del carciofo”. Il modello è simile a quello seguito da Hitler negli anni trenta, per erodere progressivamente le clausole imposte alla Germania a Versailles. La “strategia del carciofo” è quella dei piccoli passi – simili a quelli già fatti da Putin nel 2008 in Abkazia e in Ossezia del Sud ai danni della Georgia – di iniziative effettuate in regioni tutto sommato marginali per i potenziali avversari. Ciascuna di queste aggressioni successive, ad effetto geopolitico cumulativo, sono tanto piccole da non provocare una pesante escalation.

L’INTERVENTO SUL RUBLO
L’intervento finanziario degli USA è stato simile a quello che Washington aveva effettuato nel 1956 in occasione dell’attacco all’Egitto della Gran Bretagna e della Francia. La speculazione al ribasso della sterlina aveva costretto Londra a ritirarsi. Quella avvenuta sul rublo e sulla borsa di Mosca ha certamente convinto Putin alla cautela. Non ha quindi esteso l’intervento alle regioni nordorientali e meridionali ucraine. Anche il governo di Kiev ha scelto la massima cautela. Ha ordinato alle sue truppe schierate in Crimea di non sparare. Quello che rimarrà nell’immaginario collettivo sarà la sfilata dei 200 soldati ucraini disarmati, che cantavano l’inno nazionale, di fronte alle imbarazzate forze speciali russe, mascherate come se fossero al Carnevale, che sparavano per aria forse per sentirsi meno a disagio.

DIPENDENTE DA MOSCA
Una reazione violenta avrebbe reso impossibile qualsiasi compromesso. Sulla sua possibilità conta il governo di Kiev, che sa bene quanto l’economia dell’Ucraina dipenda dalla Russia. Non per nulla ha inviato a Mosca, per trattare con il suo vecchio amico Putin, la “Giovanna d’Arco” ucraina, Yulia Timoshenko – che in effetti tanto “Giovanna d’arco” non è mai stata.
Ma come andrà a finire? Il ministro degli esteri russo Lavrov ha rifiutato a Parigi di incontrare il ministro degli Esteri del governo provvisorio ucraino, affermando che non rappresenta legittimamente il suo Paese. Stati Uniti e Unione Europea hanno raggranellato un po’ di soldi per fronteggiare le esigenze immediate di Kiev. Ma sostenere per sempre un Paese di 46 milioni di abitanti, come è l’Ucraina, supera le possibilità dell’Occidente. Sarebbe come versare acqua in un secchio senza fondo.

IL SOSTEGNO FINANZIARIO
Occorre che al sostegno finanziario del Paese concorra anche la Russia. Almeno dovrebbe ridurre il prezzo del gas, come era stato promesso al fuggito presidente Yanukovich, e non ostacolare le importazioni dall’Ucraina. In cambio, l’Ucraina potrebbe rinunciare alla Crimea, che ha ormai perso, garantire a Mosca di non accettare sul suo territorio forze occidentali e un libero accesso al porto di Odessa, e permettere lo schieramento di una missione dell’OSCE per controllare che siano garantiti i diritti dei russo-ucraini. Non conviene a nessuno spingere il confronto oltre un certo punto. La linea seguita dalla Germania e dall’Italia mi sembra vincente. La Russia resta essenziale per il ritiro delle truppe NATO dall’Afghanistan e per la soluzione delle crisi siriana e iraniana.

Carlo Jean

 

UE - Fra Cameron e Hollande rapporti molto bilaterali e poco europei


Dalla difesa all'energia, ecco tutte le recenti intese a due fra Inghilterra e Francia...

I rapporti commerciali tra Francia e Regno Unito nei settori di difesa, aerospazio ed energia si intensificano, sottolineando per l’ennesima volta quanto il ruolo di Bruxelles nell’indirizzare le politiche industriali degli Stati membri sia al momento marginale. Recenti fatti lo dimostrano. Eccoli.

L’IRRILEVANZA DI BRUXELLES
Non è passato molto tempo dal Consiglio di difesa europeo tenuto a dicembre scorso, che avrebbe dovuto favorire una maggiore integrazione delle imprese del settore e, di conseguenza, delle scelte produttive e strategiche dei Paesi dell’Unione. Invece la tendenza continua ad essere quella di muoversi in ordine sparso.

L’ACCORDO SUI DRONI
A testimoniarlo è il recente accordo siglato il 31 gennaio scorso tra i ministri della Difesa di Francia e Regno Unito per lo sviluppo di un nuovo sistema aereo da combattimento, il Future Combat Air System. La lettera di intenti firmata dai due Paesi a seguito di un vertice tra il primo ministro britannico e il presidente transalpino nella base aerea di Brize Norton in Uk – si legge sul sito specializzato Defense News – formalizza il lancio di studi congiunti di fattibilità nel settore dei sistemi UCAV (unmanned combat air systems, cioè sistemi di combattimento aereo a pilotaggio remoto), più conosciuti come droni. Entrambe le nazioni investiranno ognuna 100 milioni di sterline, per un totale di 200. A questo si affiancherà una collaborazione in campo missilistico e di sistemi difesa da attacchi sottomarini.

IL PLAUSO DI DASSAULT
La scelta ha ottenuto il plauso del colosso Dassault Aviation, produttore dei caccia Rafale, che in un comunicato ha definito l’operazione “un importante passo avanti nella cooperazione aeronautica franco-britannica“. La decisione di Londra e Parigi segue i Lancaster House Treaties del novembre 2010 e si inserisce nella scia degli studi congiunti già effettuati in questo campo. A prendere parte al progetto saranno proprio Dassault e BAE Systems in qualità di capofila, a cui si affiancheranno partner come Safran, Rolls-Royce, Thales e Selex, controllata dell’italiana Finmeccanica. L’operazione, inoltre, viene dopo gli investimenti francesi fatti negli anni recenti, particolarmente nel dimostratore di combat UAV nEUROn.

A TUTTA ENERGIA
Ma la liasion tra Parigi e Londra – divise su temi politici come la riforma del trattato comunitario invocata da Cameron – sembra essere felice quando si parla di denaro e anche in campo energetico, mentre le altre nazioni europee adottano politiche e visioni diverse per ridurre le emissioni di CO2 del 40 per cento entro il 2030, come proposto dalla Commissione di Bruxelles. Un tema che è tornato alla ribalta in queste ore anche per le lamentele del mondo produttivo per l’alto costo dell’energia, che in Europa sarebbe superiore rispetto ad altre aree del mondo, come gli Stati Uniti, che godrebbero di un vero e proprio vantaggio competitivo – destinato ad ampliarsi – nei confronti del Vecchio Continente.

CONVERGENZE NUCLEARI
Per questo, dopo che lo scorso anno il governo britannico ha concesso l’autorizzazione a costruire una centrale nucleare dell’Edf (Electricité de France) ad Hinkley Point, nell’ovest dell’Inghilterra, ora i due Paesi fanno squadra anche sul fronte del cambiamento climatico. A suggellare l’intesa,  la firma di un accordo che intensifica la cooperazione, anche in tema di energia atomica, per venire incontro agli obiettivi fissati per ridurre l’inquinamento.

Michele Pierri

LIBIA - Una priorità per la politica estera dell’Italia. Parla Amendola (Pd)


La Libia è una priorità della politica estera italiana. A sostenerlo è Enzo Amendola, capogruppo del Pd in commissione esteri della Camera, che in una conversazione spiega i prossimi passi del nostro Paese nella ricostruzione di Tripoli, alla vigilia della Conferenza Internazionale preparata dalla Farnesina e dal neo ministro Federica Mogherini che – se non sarà annullata per un possibile concomitante vertice a Bruxelles sulla crisi ucraina -, vedrà a Roma il Segretario di Stato americano John Kerry.

Onorevole, com’è la situazione oggi in Libia?
Non è un Paese in pace, bensì diviso da lotte interne tra varie fazioni. L’assetto tribale della società ha prodotto, nel vuoto del dopo Gheddafi, una sorta di dissoluzione del Paese, con gruppi diversi che hanno il controllo su zone diverse e in feroce contrapposizione.

Quali sono le sue aspettative e quelle del Governo – in particolar modo delle titolari di difesa ed esteri, Roberta Pinotti e Federica Mogherini – per la Conferenza internazionale di domani a Roma?
Il nostro Paese, anche in ragione del suo passato coloniale, ha avuto dal G8 il compito di guidare il gruppo di contatto con Tripoli. Certo, in queste ore l’attenzione internazionale è concentrata sulla crisi ucraina, ma per la vocazione culturale e geopolitica dell’Italia, la Libia è una priorità.

In che modo questa conferenza, che segue la visita del presidente del Consiglio in Tunisia, può contribuire a un disegno più omogeneo per rilanciare il ruolo dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo?
Tripoli è fondamentale non solo per la stabilizzazione dell’area, ma anche per i rapporti tra Unione europea e Africa. In questo senso il referente naturale di Bruxelles nel Mare nostrum – e non solo in Libia – non può essere che l’Italia.
Matteo Renzi ha fatto bene a visitare la Tunisia perché una delle ambizioni italiane nel semestre europea a nostra guida è quella di portare l’Unione a girare lo sguardo proprio verso il Mediterraneo, un’area in cui come europei siamo stati o poco attenti, o protagonisti di errori clamorosi, come quello in Libia o nelle delicate transizioni in Paesi come l’Egitto. C’è stata un’assenza completa di partenariato da parte dell’Unione europea. E auspico che, anche col contributo del nostro Paese, Bruxelles possa essere protagonista di nuova stagione meno retorica e più concreta.

Che contributo possono dare il nostro Paese e la comunità internazionale nella ricostruzione della Libia?
Credo che bisogni concentrarsi su due aspetti. Da un lato la sicurezza è prioritaria. Noi formeremo le forze di polizia e dell’esercito libici, che avranno il compito fondamentale di riportare l’ordine (anche grazie al supporto della nostra intelligence), soprattutto dopo la situazione lasciata dalla guerra civile. A sud del Paese c’è un territorio messo in ginocchio dal jihadismo e dalla gestione di traffici da parte di tratte criminali. E io sottolineo anche il bisogno di pensare geostrategicamente al ruolo centrale che può avere la Base di Sigonella insieme agli alleati europei e Usa ( e quindi della nato) per la pacificazione.
Il secondo aspetto è invece quello politico-istituzionale. Sia prima sia dopo Gheddafi, la Libia non ha mai conosciuto istituzioni stabili slegate dal tribalismo. Per questo serve un grosso lavoro di cooperazione di national building che crei un’infrastruttura civile. Un impegno che costerà molto in termini di tempo e investimenti e che per questo deve vedere tutti protagonisti.

La Libia rimane un mercato importante per le imprese italiane, che sono presenti sia con grandi realtà sia con Pmi, che però abbandonano il Paese. Come proteggerle?
Tocca un aspetto cruciale. Oggi metà delle fonti petrolifere sono bloccate e condizionate dalla corruzione, in un Paese i cui la nostra Eni recita un ruolo importante. Ma ci sono anche aziende italiane in altri settori: penso alle infrastrutture, ad esempio, ma anche ad altre realtà. Senza contare le potenzialità di crescita. È anche per questo che bisogna mettere in sicurezza la Libia e consentire che gli scambi commerciali tornino floridi e anzi si rafforzino. La prosperità del Paese, alla quale le nostre imprese possono contribuire, è una condizione essenziale per lo sviluppo di una sana democrazia.

Michele Pierri

VENEZUELA - Perché Chávez non è morto


Il presidente venezuelano non è stato consegnato alla dimensione del ricordo, ma continua ad essere protagonista durante le giornate di protesta: i suoi video, i suoi discorsi alimentano il mito della rivoluzione.

Un anno dopo la morte di Chavez, la notizia è che il comandante non è morto. Non è stato consegnato alla dimensione del ricordo, ma continua ad essere protagonista durante le giornate di protesta: i suoi video, i suoi discorsi alimentano il mito della rivoluzione, riproposti in tv perché la sua immagine continua ad essere il motore della rivoluzione. Fallita.

Chávez era l’incarnazione di Bolivar, il nuovo Bolivar adesso è diventato lui, almeno per il presidente Maduro, sindacalista miracolato dal comandante, e trasformato da semplice autista di autobus nel presidente di una Repubblica “non di banane”.

Perché spesso si dimentica che il Venezuela è stata un’eccezione positiva nell’America Latina. Negli anni ’70 ovunque c’erano dittature, in Venezuela la democrazia, e la moneta negli anni ’50 e ’60 arrivò ad essere più forte e più sicura del dollaro. Ora la storia sembra si sia rovesciata.

La rivoluzione, privata della sua retorica pauperistica che piace molto agli europei, ha fatto emergere una realtà poco entusiasmante per chi in Venezuela ci vive: il paese è governato da una cricca politico-militare che ha reso il paese il più corrotto in America Latina, con il tasso d’inflazione più alto del mondo, oltre il 50%, e una criminalità diffusa che non accenna a diminuire. La magistratura è sotto stretto controllo dell’esecutivo, come anche il Banco centrale, e il Consiglio nazionale Elettorale. L’elenco potrebbe continuare all’infinito, perché tutte le istituzioni sono state occupate dal partito socialista, includendo molte imprese di stato (tra cui l’industria del petrolio).
All’opposizione, che pure rappresenta il 49 % degli elettori, non è mai stato concesso nulla.

Tirannia totale della maggioranza. Ma la gente perché vota ancora per il partito socialista? Per le stesse ragioni per cui per 70 anni in Messico hanno votato il PRI: ne sono legati da una dipendenza economica. Dal potere politico dipendono aiuti, programmi sociali, e posti di lavoro, un voto necessario più che ideologico, anche se anche nei barrios l’appoggio alla rivoluzione è ai minimi storici, e il trend è negativo: troppo evidenti corruzione, criminalità e sfacelo economico.
In carcere non finiscono mai esponenti del governo, che pure gestiscono risorse e istituzioni, ma sempre oppositori. Leopoldo Lopez è in gattabuia, Manuel Rosales è stato costretto a chiedere asilo politico in Perù, il generale Baduel, dopo essersi schierato contro Chávez, è finito anche lui in carcere.

Quando c’era Chávez, almeno c’era la sensazione che il paese avesse una leadership continentale, ora neanche questo. E non si vede una via d’uscita.

Piero Armenti

mercoledì 5 marzo 2014

ITALIA - Renzi ostaggio di Pd, Berlusconi e Alfano


Chi esce vincitore e sconfitto dal nuovo accordo sulla legge elettorale.

Il nuovo accordo a tre sull’Italicum consegna vincitori e perdenti a metà.

“Sarà una rivoluzione”, commenta Matteo Renzi, soddisfatto per aver portato a casa almeno tre obiettivi: il patto di maggioranza tiene, l’accordo sulle riforme con Berlusconi si allarga ma è ancora in piedi e la legge elettorale potrebbe essere una partita chiusa già venerdì alla Camera. Governo al sicuro, dunque, e duraturo, si prospetta.

In realtà, il premier è il primo a sapere che ora lo attende la prova più difficile, l’abolizione del Senato che passa per il voto degli stessi senatori, senza dubbio refrattari all’idea di venire cancellati. E poi, l’immagine che emerge dalla convulsa giornata di ieri è quella di un presidente del Consiglio sotto lo scacco di tre forze: la minoranza Pd, non a caso autrice dell’emendamento risultato vincitore, quello del bersaniano Alfredo D’Attorre che riduce alla sola Camera la validità dell’Italicum; il Nuovo Centrodestra, principale azionista di maggioranza; e Forza Italia, principale azionista sul tavolo delle riforme. Ed ecco che, tirato per la giacchetta da molteplici lati, il capo del governo ha dovuto cimentarsi nella difficile, e a lui non congeniale, arte del mediare.

Canta vittoria Angelino Alfano, accontentato nella sua volontà di vincolare la riforma elettorale a quella del Senato. La durata della legislatura così si allunga e permetterà al Ncd di rafforzare la sua identità con il “governo del fare” prima di tornare alle urne. Urne però che non sono scongiurate perché questa soluzione consentirebbe, in caso di crisi, di andare al voto con l’Italicum alla Camera e il “Consultellum”, la legge uscita dalla sentenza della Consulta al Senato.

È forse questa eventualità rimasta aperta che ha fatto optare Berlusconi per il sì. In questo modo, il Cav. esce sì perdente rispetto ai desiderata di Alfano ma resta sul treno delle riforme che senza il suo consenso sono comunque destinate a saltare. “Il senso di responsabilità” prevale. Per ora.

Fabrizio Argano

domenica 2 marzo 2014

ITALIA - Il Pd di Renzi è socialista?


Gli interrogativi sulla compatibilità tra il nuovo Pd trainato da Renzi e la famiglia del Pse a cui ha appena aderito.

Se anche un quotidiano filo-renziano come Europa esprime le sue riserva  sull’ingresso del Pd nel Pse, qualcosa vorrà pur dire. Sette anni di tormenti, discussioni, polemiche di colpo ieri sono stati cancellati da un voto pressoché unanime: 121 sì, 1 no e due astenuti che sancisce l’ingresso dei Democrat nella grande famiglia del Partito socialista europeo.

Sono stati il decisionismo renziano sull’argomento, la tendenza bipolare anche in Europa e la paura che una non chiara identità in quell’orizzonte potesse penalizzare il voto per l’Europarlamento a determinare l’azzardo finale. Un azzardo che riesce oggi, dopo le leadership di sinistra di Veltroni e Bersani, a chi proviene paradossalmente da un’altra tradizione politica.

Il Pd di Renzi appare in realtà molto lontano dai partiti socialisti che il Pse raggruppa. Un partito divenuto personalistico, poco partito e tutto Renzi, la cui musica pop stride notevolmente con l’Internazionale che fino a pochi anni fa apriva i congressi del Pse.

Le mille anime che colorano Largo del Nazareno non sembrano però battere ciglio. Avanti tutta con il socialismo europeo, hanno detto all’unisono, accogliendo festanti i suoi rappresentanti a Roma questo fine-settimana. Le uniche eccezioni sono rappresentate da Beppe Fioroni, Arturo Parisi e a sorpresa dal renziano Matteo Richetti. “Non voglio morire socialista”, ha polemizzato a gran voce il leader dei Popolari del Pd. Ma il fine giustifica i mezzi, perché come ha ricordato Massimo D’Alema, il punto è non morire. Una domanda tuttavia sorge spontanea: sicuri che la sopravvivenza del Pd passi dal Pse?

Fabrizio Argano

ITALI A - Che cosa non mi convince dell’ingresso del Pd nei socialisti. Parla Arturo Parisi


L'ex ministro della difesa e ultra prodiano, Arturo Parisi, ci affida a una lunga e articolata analisi sui rischi dell'abbraccio piddì al Pse.

02 - 03 - 2014 - “In questa vicenda Renzi c’entra poco”, ammette subito l’ex ministro della Difesa “ulivista” Arturo Parisi che ragiona a voce alta sull’ingresso del Pd nella grande famiglia europea del Pse. Renzi, guidato dall’ottimismo del suo volontarismo – dice Parisi – ha preferito chiudere con un passato concluso e aprire al futuro sperando che la scelta di ieri “più che un punto di arrivo” possa essere “un punto di partenza”.

E’ quindi un errore l’ingresso del Pd nel Pse?

L’errore è di sicuro il modo in cui ci si è arrivati. Tardi ma soprattutto male. Il Pd che aderisce al Pse non è infatti il partito che sette anni fa fondammo come un partito nuovo, come il partito che ambiva ad esportare in Europa la propria novità, ma un partito che si arrende a ri-importare dall’Europa in Italia le divisioni ereditate dal Novecento, le stesse che con la sua fondazione il partito aveva dichiarato di voler superare per aprirsi al futuro. E ci arriva a pezzi e non invece come avrebbe dovuto arrivarci un partito unito. Non è infatti il Pd nel suo insieme che entra nel Pse per la prima volta, ma solo quella parte di esso che finora al Pse non aveva ancora aderito. Ad entrare nel Pse sono le componenti non diessine che “finalmente” si accodano ai Ds che, sotto la guida di D’Alema nel Pse ci sono da sempre.

Dunque unito in Italia e diviso in Europa?

Non possiamo dimenticare che, unito in Italia, il Pd continuava infatti ad essere diviso in Europa. Pur uniti nell’unico gruppo parlamentare socialista (e democratico), quanto all’appartenenza partitica europea, i parlamentari che dall’Italia erano partiti eletti nelle liste dello stesso partito, avevano a Bruxelles tre diverse qualifiche. Una parte, la maggioranza diessina, apparteneva infatti da sempre al Partito Socialista Europeo oltre che al Gruppo Socialista che del Partito era la proiezione parlamentare, e vi apparteneva in continuità con la precedente affiliazione di partito in Italia e in Europa. Una seconda parte sedeva invece solo nel Gruppo parlamentare socialista, ma invece apparteneva (assieme ad altri che a Bruxelles sedevano tra i lib-dem dell’ALDE) a quel precario Partito Democratico Europeo che era stato promosso da Bayrou e Rutelli, con la Presidenza onoraria di Prodi, come incontro tra “i Democratici”, prima collocati tra i liberaldemocratici dell’Eldr, e i Ppi che in precedenza avevano fatto parte del Ppe. Altri infine erano incaricati di rappresentare il Pd, e niente altro che il Pd, per poter assolvere alle funzioni unitarie della componente italiana del Gruppo Socialista.

Una costruzione barocca?

Nell’immediato era servita per consentire agli esponenti diessini e in particolare al loro “leader Massimo” per continuare a ricoprire le cariche rivestite in precedenza a livello internazionale tra i socialisti, e, nel caso di D’Alema, alla guida della Feps, la federazione dei pensatoi progressisti, in rappresentanza della Fondazione Italiani Europei proposta nei fatti in Italia e all’estero come unico centro di studi del partito italiano all’insegna (si veda al riguardo il sito del Pd) del “qui lo dico, qui lo nego”, e quindi del “come puoi negarlo se non l’ho detto”. Senza questa architettura non si sarebbe infatti riusciti a spiegare a che titolo dirigenti nazionali del Pd sedessero a livello internazionale in organi di partiti, ai quali il Pd non aderiva o, come minimo, non aveva ancora aderito.

Qual è il passo che invece andava fatto?

La natura nuova del Partito avrebbe infatti richiesto che fino a quando il Pd, come Partito nuovo, non avesse deciso della sua collocazione internazionale i dirigenti dismettessero le responsabilità prima ricoperte in rappresentanza dei partiti passati, per poi, nel caso, approdare tutti assieme nel partito che assieme avrebbero scelto. D’Alema sarebbe dovuto uscire dal Pse esattamente come Rutelli dal Pde. Si preferì invece mantenere lo status quo per consentire a D’Alema & Co di restare nel Pse evitandosi di dover uscire di casa, visto che in quella casa si era già deciso di tornare. In cambio ci si guardò bene dal chiedere a Rutelli, co-presidente del Pde e al tesoriere Lusi, di lasciare le loro cariche nel Pde, perché la permanenza degli uni era appunto funzionale alla permanenza degli altri. E questo avvenne nel Parlamento Europeo esattamente come in tutti gli altri consessi internazionali, dalla Assemblea Parlamentare della Nato a quella del Consiglio di Europa, nelle quali i rappresentanti del Pd hanno continuato in tutti questi infiniti sette anni ad approdare divisi dopo che dall’Italia erano partiti uniti.

Questo per il tardi. Ma perché male?

Male perché questi sette anni infiniti sono stati consumati come si consuma il brodo per abituare il partito a un copione già scritto come un esito inevitabile. Nonostante il punto sia stato tenuto all’ordine del giorno anche troppo a lungo, su di esso non si è ma aperto un vero confronto e meno che mai è stato aperto un confronto col partito europeo. Non capendo in che cosa consistesse la nostra novità, non si capiva quale novità avremmo potuto chiedere o offrire agli altri. Ecco perché si è preferito ridurre alla sua dimensione organizzativa e procedurale una decisione che all’interno ieri è stata chiamata storica e all’esterno salutata come definitiva scelta del campo della sinistra. Ecco perché la decisione è apparsa scontata, e sancita dal solito voto, unanime e allo stesso leggero, al quale le assemblee Pd ci hanno purtroppo abituato. E’ così accaduto che la decisione di ieri e l’approdo di oggi si è ridotto a una questione di nomi. Come se in politica i nomi fossero parole come altre e non invece l’unico modo per dire agli altri chi siamo, e da dove veniamo, anche se, purtroppo, non sempre dove stiamo andando.

C’è il rischio che la foga renziana di accreditarsi in Europa possa svilire il senso più ampio dell’operazione democratica “ulivista”?

In questa vicenda Renzi c’entra poco. Guidato dall’ottimismo del suo volontarismo, ha preferito chiudere con un passato che gli è apparso concluso ed aprire al futuro sperando che la scelta di ieri “più che un punto di arrivo” possa essere “un punto di partenza”. Peccato che il renziano Richetti abbia letto quella che sulla bocca di Renzi sembrava una sfida, come “la fine di un’ambizione”. Non vorrei proprio che arrivati alla fine di un viaggio guidato dal desiderio di una casa più grande e più nuova troppi tra iscritti e elettori pensassero di essere finiti in una casa più piccola e più vecchia e comunque con un nome certo antico e glorioso ma ad essi estraneo e da essi subito. Non vorrei che, privati dell’Ulivo democratico, cogliessimo della Rosa socialista soltanto le spine, e, perduta per strada la novità della nostra “Canzone popolare”, ci ritrovassimo muti, senza sentire né condividere, l’antico calore del Canto dell’Internazionale.

Lei che linea avrebbe seguito?

Di certo l’assetto attuale non era ulteriormente conservabile. Difficile da raccontare e perfino da ricordare. Bisognava perciò passare a una posizione che rivendicasse la nostra novità e perciò la nostra autonomia articolata su quattro punti. Partecipazione al gruppo di tutti i deputati Pd da indipendenti; contemporanea uscita di tutti dai partiti precedenti; apertura di un confronto col Pse da posizioni autonome; e nelle prossime elezioni sostegno della candidatura di Schulz alla elezione a presidente della Commissione Ue

Francesco De Palo