Gli interrogativi sulla compatibilità tra
il nuovo Pd trainato da Renzi e la famiglia del Pse a cui ha appena aderito.
Se anche un quotidiano filo-renziano come Europa esprime le
sue riserva sull’ingresso del Pd
nel Pse, qualcosa vorrà pur dire. Sette anni di tormenti, discussioni, polemiche
di colpo ieri sono stati cancellati da un voto pressoché unanime: 121 sì, 1 no
e due astenuti che sancisce l’ingresso dei Democrat nella grande famiglia del
Partito socialista europeo.
Sono stati il decisionismo renziano sull’argomento, la tendenza bipolare
anche in Europa e la paura che una non chiara identità in quell’orizzonte
potesse penalizzare il voto per l’Europarlamento a determinare l’azzardo
finale. Un azzardo che riesce oggi, dopo le leadership di sinistra di Veltroni
e Bersani, a chi proviene paradossalmente da un’altra tradizione
politica.
Il Pd di Renzi appare in realtà molto lontano dai partiti socialisti
che il Pse raggruppa. Un partito divenuto personalistico, poco partito e tutto
Renzi, la cui musica pop stride notevolmente con l’Internazionale che fino a
pochi anni fa apriva i congressi del Pse.
Le mille anime che colorano Largo del Nazareno non sembrano però battere
ciglio. Avanti tutta con il socialismo europeo, hanno detto all’unisono,
accogliendo festanti i suoi rappresentanti a Roma questo fine-settimana. Le
uniche eccezioni sono rappresentate da Beppe Fioroni, Arturo Parisi e a
sorpresa dal renziano Matteo Richetti. “Non voglio morire socialista”,
ha polemizzato a gran voce il leader dei Popolari del Pd. Ma il fine giustifica
i mezzi, perché come ha ricordato Massimo D’Alema, il punto è non morire.
Una domanda tuttavia sorge spontanea: sicuri che la sopravvivenza del Pd passi
dal Pse?
Fabrizio Argano
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