Se fossi il padre di
un bambino palestinese di Ramallah penserei alle pietre della prima Intifada e ai Tavor TAR
21, i moderni fucili d’assalto delle Forze di Difesa Israeliane. Griderei forte
al mondo che nei territori occupati, a Gaza e in Cisgiordania, Israele non ha
mai concordato nulla con la popolazione araba, che la politica colonica è
sempre stata imposta dalla forza militare, che nei territori Israele ha operato
con il suo servizio di intelligence
militare (Aman) per definire gli obiettivi delle “ticking bombs” mirate contro
i capi del mio popolo. Avrei sempre in mente il terrore dell’operazione “Piombo
fuso” del dicembre 2008, quella massiccia offensiva aerea e terrestre
israeliana costata in poche settimane oltre 1300 morti fra i palestinesi, a
fronte di 28 vittime fra i civili israeliani in otto anni. Additerei come unici
responsabili della rottura dei negoziati di pace fra Israeliani e Palestinesi
nel settembre 2010 il premier Benjamin Netanyahu e il suo ministro degli esteri
Avigdor Lieberman, da sempre contrari al processo di pace avviato a Oslo. Se
fossi il padre di un bambino palestinese di Ramallah direi a mio figlio che la
condizione di vita attuale dei Palestinesi nei territori occupati, esuli e
profughi nella loro stessa terra sotto un’occupazione militare straniera, è
intollerabile agli occhi di qualunque persona che conosca la realtà di questa
terra e abbia un minimo di obiettività.
Se fossi il padre di
una bambina israeliana di Tel Aviv vivrei nel terrore ogni volta che mia figlia
sale su un autobus. Porterei sulla pelle la storia del mio popolo, ovunque
segnato da diaspore e discriminazioni, eterna minoranza in Stati non propri,
colpito dai pogrom,
decimato dall’Olocausto. Non dormirei la notte pensando ai lanci indiscriminati
di razzi Qassam contro le città di Sderot e Ashkelon da parte del Movimento
della resistenza islamica Hamas
di Ismail Haniyeh e Salam Fayyad. Sarei convinto che oggi Abu Mazen non sia
capace di controllare neppure la Cisgiordania e che i Palestinesi, lasciati a
sé stessi, non siano in grado di governare un proprio Stato indipendente.
Vedrei la vittoria elettorale di Hamas
e la sua presa di potere a Gaza dopo il ritiro israeliano come un minaccioso
anticipo di quanto potrebbe accadere su scala più vasta in caso di un nostro
ritiro dalla Cisgiordania. Urlerei al mondo che adesso a Gaza governa un
Movimento come Hamas,
che non vuole affatto uno "Stato palestinese", ma semplicemente la
cancellazione di Israele. Ricorderei che fu il rifiuto degli Arabi al Piano di
partizione della Palestina nel novembre 1947 a scatenare prima le violenze e
poi la guerra arabo-israeliana del 1948 e che in conseguenza di quel conflitto
600.000 ebrei furono espulsi dai Paesi arabi confinanti.
Se fossi il padre di
una bambina israeliana di Tel Aviv riterrei prioritario il diritto alla
sicurezza del mio Paese, assediato dalle frange palestinesi più radicali
appoggiate dall’Iran di Mahmud Ahmadinejad. Osserverei preoccupato il crescendo
di dichiarazioni minacciose contro Israele, alimentate dalla seconda Intifada
del 2000, dal sostegno siriano e iraniano a Hezbollah
e a Hamas,
dalla guerra in Libano dell’estate 2006, dall’allarme suscitato dal programma
nucleare dell’Iran. Vedrei crescere e allargarsi le minacce militari e quelle
terroristiche contro l’ebraicità d’Israele, in una regione come quella
mediorientale che dal marzo 2011, con la crisi siriana, è diventata una vera e
proprio polveriera sul punto di esplodere. Ricorderei che il Movimento della
resistenza islamica Hamas
si è sempre schierato contro il processo di pace avviato con gli Accordi di
Oslo del 1993 e che oggi viene considerato ufficialmente un’organizzazione
terroristica non solo da Israele, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione
Europea e un potenziale nemico alla stabilità dell’intera regione. Sarei
favorevole alla costruzione di nuovi insediamenti nei territori a Est di
Gerusalemme e in Cisgiordania annunciata dal governo del mio Paese dopo la
risoluzione Onu del 29 novembre scorso e giudicherei i nostri insediamenti e la
barriera di sicurezza l’unico mezzo sicuro per impedire infiltrazioni
terroristiche in Israele e per proteggere i coloni. Se fossi il padre di una
bambina israeliana di Tel Aviv chiederei al mio governo di adottare tutte le misure
necessarie per garantire le due priorità che David Ben Gurion aveva assegnato
allo Stato ebraico, la sicurezza interna e la pace con i vicini.
Se fossi un uomo,
poco importa se arabo o israeliano, che guarda a un futuro di coesistenza
pacifica e
vuole disegnare un orizzonte di pace dove far crescere i propri figli,
osserverei con occhi diversi la storia rispettiva di sofferenze e ingiustizie
patite e avrei ben presente che queste risalgono indietro nei secoli da ambo le
parti. Rigetterei ogni forma di fanatismo e coltiverei la speranza che da una
parte e dall’altra emergano quanto prima uomini politici che riescano a
conquistare i cuori e le menti dei rispettivi popoli e degli avversari a un
credibile progetto di pace e di collaborazione, indispensabile per condividere
un territorio limitato con scarse risorse naturali. Leggerei i giornali del mio
paese, ma proverei a confrontarmi anche con le notizie diffuse da altri organi
di stampa, nella convinzione che il pluralismo mediatico offra un’immagine meno
parziale della complessa realtà della regione dove vivo. Contrasterei però
azioni di propaganda mediatica elusiva o volutamente ingannevole, intentate
dalla mia parte o dall’altra sulle sofferenze di vittime innocenti. Sarei
disposto a ascoltare le ragioni dell’altro, senza per questo rinunciare alle
mie, nella convinzione che le vittime, da qualsiasi parte vengano hanno la
memoria lunga. Parlerei con chi la pensa come me, ma cercherei anche il dialogo
e il confronto con chi ha opinioni diverse, al di fuori della cerchia ristretta
di accoliti, militanti, affiliati, adepti nella quale mi muovo. Rafforzerei la
determinazione a uscire da un passato di discriminazioni e persecuzioni
reciproche, chiedendo ai responsabili del mio popolo, siano essi arabi o
israeliani, di rilanciare immediatamente il processo di pace sul principio “Due
popoli, due Stati”. Mi unirei a quanti, e sono tanti, sia a Tel Aviv che a
Ramallah credono che costruire la pace significa rinunciare definitivamente a
una visione unilaterale dei propri diritti, lungamente coltivata e
continuamente alimentata dalla mobilitazione emotiva e propagandistica di un
conflitto ormai più che sessantennale.
Se fossi un uomo,
poco importa se arabo o israeliano, che guarda a un futuro di coesistenza
pacifica cercherei di far comprendere alla mia gente che la vera discriminante
passa all’interno dei due campi, delle due società e delle rispettive forze
politiche, che il partito da prendere non è fra Israeliani e Palestinesi, ma
fra chi in un campo e nell’altro lavora per la pace e chi opera, più o meno
consapevolmente, per la continuazione del conflitto. Sarei convinto che i due
Stati devono coesistere e rispettarsi senza affermare la priorità di uno Stato
sull’altro, accettando da una parte l’impraticabilità del sogno biblico del
“Grande Israele”, che si traduce in termini politici nel diritto
storico-biblico a insediarsi ovunque in Eretz
Israel, e rinunciando dall’altra all’obiettivo massimalista della
negazione dell’altro e all’illusione di poter ribaltare la forza
dell’avversario con una contrapposta violenza, confondendo così resistenza e
terrorismo. Sarei consapevole che per rendere possibile l'impossibile occorre
un salto di mentalità: una nuova generazione israeliana e palestinese educata
alla convivenza, perché possa radicarsi un abito mentale diverso nei confronti
dell’ex nemico. Perché, come sostiene Amos Oz, un conflitto comincia e finisce
non sulla sommità delle colline, ma nei cuori e nella mente delle persone.
Questo salto di mentalità può sembrare oggi un obiettivo lontano, difficile, ad
alcuni forse illusorio. Ma se non si lavora per costruirlo soltanto perché non
lo si crede possibile, di certo non si produrrà da solo.
Luciano Trincia
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