Dai
gamberetti ai mattoni: 30 milioni di schiavi i nel mondo, 150 miliardi di
dollari di profitti illegali. L’economia globale si fonda sullo
sfruttamento
Paolo
Mirenda LEFT
Duecentomila
lavoratori in fuga. L’economia della Thailandia messa in ginocchio dal più
grande esodo di mano d’opera straniera che il Paese asiatico ricordi. Una massa
di persone che preme alle frontiere con la Cambogia chiedendo di rientrare in
patria per timore di essere arrestata o cacciata. Il regime militare di Bangkok
che non vuole essere accusato di complicità in schiavitù. E l’inchiesta
dell’autorevole quotidiano inglese The Guardian, che poche settimane fa ha
pubblicato un dossier sulle condizioni dei pescatori che alimentano l’industria
dei gamberetti thailandesi, prelibato cibo da aperitivi e cene eleganti. Dietro
il piccolo crostaceo, l’incubo dei pescherecci dove i migranti del sudest
asiatico sono trattati come schiavi. Fino a 20 ore di lavoro al giorno ,
buttati in mare se protestano o se muoiono per la fatica, la paga trattenuta
fino alla fine del contratto che può durare anche due anni. A metà luglio il
nuovo governo di Bangkok – partorito da un colpo di Stato il 22 maggio scorso-
ha aperto un’indagine e annunciato di aver sguinzagliato i suoi ispettori per
verificare se davvero è così che si fanno gli affari. Ma la risposta era
talmente scontata che l’intero sistema è crollato. Le agenzie di collocamento
illegale, i “reclutatori”, hanno chiuso velocemente i battenti. Dei 2,2 milioni
di stranieri che lavorano in Thailandia ne sono rimasti poco più della metà e
le aziende non riusciranno a rispettare le scadenze: «Ci mancano gli operai»,
dicono.
Gamberetti
in catene
Dietro la
crescita economica delle tigri asiatiche ci sono non meno di quindici milioni
di schiavi: Cina, Vietnam, Cambogia, Myanmar, Corea del Sud, e poi ancora
India, Nuova Zelanda. Paese per Paese la lista delle vessazioni, delle
crudeltà, delle angherie riempie i dossier delle organizzazioni umanitarie. Ma
le testimonianze dirette restano ancora poche, perché la paura di perdere il
lavoro è più forte della volontà di ribellione. La logica padronale è tanto
semplice quanto efficace: «Se dichiari che ti trattiamo male, ci tolgono la commessa.
E se ce la tolgono, la fabbrica chiude. Se la fabbrica chiude, tu resti senza
lavoro. E te ne vai a casa». Non senza aver pagato la penale, nella maggior
parte dei casi. Yusril ha raccontato la sua storia a Businessweek: assunto da un’agenzia di collocamento di Jakarta, ha
lavorato otto mesi sulla Melilla 203, un peschereccio battente bandiera
sudcoreana che operava nelle acque della Nuova Zelanda. Non pescavano
direttamente gamberetti, ma il cibo di cui si nutrono quelli di allevamento, i
«pesci spazzatura» da cui si ricava la farina per alimentare le vasche di
produzione. Il contratto – che Yusril nemmeno aveva letto perché in inglese –
prevedeva una trattenuta del 30 per cento sul suo stipendio e tre mesi di prova
senza salario per stabilire se il suo lavoro era soddisfacente. Altrimenti,
biglietto aereo per casa, al modico costo di mille euro. Fuga? Nemmeno a
parlarne, la sua famiglia avrebbe dovuto sborsare 3.500 euro di penale: debiti
da far pagare alle generazioni future, soldo dopo soldo. Yusril racconta i
maltrattamenti, le ore di lavoro non pagate, la sete, il cibo insufficiente:
«Ci trattavano come animali». Lui è riuscito a cavarsela solo perché
l’ispettorato del lavoro neozelandese una volta tanto ha avuto fiuto e ha
trovato le prove del lavoro schiavistico a cui lui e i suoi compagni erano
sottoposti. Messo in un programma di protezione per vittime della tratta, è
riuscito a sfuggire ai suoi creditori. Ma ora è nella black list delle agenzie
di collocamento del suo villaggio, e di trovare lavoro su un altro peschereccio
se lo sogna.
Secondo
l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) il valore del lavoro servile ammonta a oltre 150 miliardi di dollari
annui, l’equivalente del Pil di Tunisia e Marocco insieme. Ma quantificarlo è
impresa improba: perché è ovviamente in nero, in quanto attività non dichiarata
o non remunerata come tale; perché nessuno sa bene quale sia la reale
definizione di «schiavo» nel mondo moderno. «Si considera schiavitù ogni forma
di lavoro che presenti le caratteristiche della coercizione in situazione di
vulnerabilità», spiega Francesco Carchedi, docente di Sociologia a Roma e
autore di Schiavitù di ritorno. «Ma i protocolli e le convenzioni non bastano a
definire esattamente il confine tra lavoro forzato e lavoro paraschiavistico,
tra lavoro “nero” e lavoro “nero nero”, come si finisce per chiamarlo tra gli
esperti». La terminologia non è questione solo formale. La Mauritania ha uno
schiavo ogni 20 abitanti (5 per cento della popolazione) secondo il
Dipartimento di Stato Usa, ma la percentuale arriva al 25 per cento se viene
applicata la definizione dello schiavismo formulata dalle organizzazioni
umanitarie come la WalkFree foundation: nel Paese africano ogni quattro persone una è in
cattività, per debiti o per status sociale. Di generazione in generazione.
«Sono nato schiavo, nella casa dove erano schiave mia madre e mia nonna»,
racconta Said Ould Ali. Ha 15 anni, vive con una famiglia altolocata di
Nouakchott, la capitale, non considera la sua situazione come anomala. Nonostante
il governo abbia tentato per 3 volte di mettere la schiavitù fuorilegge, la
pratica è così comune che a tutti sembra normale. Succede in molti Paesi
poveri, spiega l’Ilo. «Il lavoro forzato non viene identificato come tale,
perché la situazione di partenza è talmente compromessa che ogni strada sembra
buona per cambiare vita».
Vestiti
coatti
È il
meccanismo per cui prolifera in India il «sistema Sumangali»: il termine significa «donna felicemente sposata», e
nella pratica vuol dire andare a lavorare per 3 o 5 anni in cambio della dote
in vista di un futuro matrimonio. La maggior parte delle fabbriche tessili o di
“abbellimento” del tessile – tipo mettere paillettes sui vestiti – sfrutta
questo tipo di manodopera. Le ragazze vengono reclutate nelle zone rurali,
hanno tra i 13 e i 20 anni, andranno a vivere in dormitori comuni, i soldi li
vedranno a fine contratto – se li vedranno. Per la legge indiana ogni promessa
di un bonus a fine lavoro è da equiparare a una schiavitù per debito, quindi è
vietata e punita. Ma il sistema resiste anche se, secondo l’indagine di Anti
Slavery, gli aspetti del lavoro forzato ci sono tutti: orario da 12 a 16 ore,
divieto di usare il cellulare (si può comunicare con la famiglia, ma solo sotto
sorveglianza), sei giorni di vacanza ogni sei mesi (se non si torna, si dice
addio al salario promesso a fine contratto), nessun rapporto con l’esterno.
Molte multinazionali che lavorano nel distretto di Tamil Nadu stanno rivedendo
i loro codici etici, ma il sistema è duro a morire. Si poggia su una tradizione
atavica, si alimenta della divisione in caste e dell’estrema povertà. Puoi
stilare l’elenco dei marchi di abbigliamento che sfruttano il sistema
Sumangali, ma se il controllo non si estende alle materie prime sarà inutile. Cotton Campaign mette
l’accento sul cotone uzbeko, raccolto sfruttando il lavoro obbligatorio degli
studenti, ricattati e persino incarcerati se rifiutano di «collaborare alla
crescita della Patria». Ma non è differente lo sfruttamento dietro il cotone
burkinabé, dove ancora il padrone passa col bastone in mano. E il cotone non è
solo nei vestiti, è nelle garze mediche, nelle salviettine per struccarsi, nei
bastoncini per le orecchie.
Giochi
pericolosi
Il cotone
sta anche nei vestiti delle bambole – il fornitissimo armadio di Barbie – ,
anche se la Mattel, gigante nel settore “toys”, è sotto accusa per ben altro.
La ong China labor wacht (Clw, con sede a New York) le rimprovera di avallare
le pessime condizioni di lavoro nelle fabbriche dei suoi appaltanti in Cina.
L’azienda statunitense si serve di circa 100 fornitori nel Paese che fu di Mao,
limitandosi – secondo la ong – a far firmare un codice di comportamento senza
poi occuparsi del rispetto delle norme. Nello stesso tempo, dice Clw, «Mattel
chiede prezzi stracciati e scadenze brevi alle fabbriche produttrici. Data la
forte concorrenza tra i produttori per gli ordini, la maggior parte accetta».
Ma dove trovano poi i margini per il profitto? Risposta della Clw: «Nei
lavoratori, costretti a sopportare il peso di questo fardello». Un peso che si
traduce in truffa nei confronti dello Stato – non pagando le assicurazioni – e
truffa per i lavoratori, costretti a ore di straordinario (fino a 100 in un
mese) pagate come salario normale. Con un risparmio calcolato di 11 milioni di
dollari. La Mattel risponde di aver informato i suoi appaltanti che il lavoro
straordinario non retribuito è vietato e dunque di non vedere ulteriori
problemi. «Lo straordinario si elimina pagando di più per ogni giocattolo, non
diramando protocolli», ha replicato Clw. «Lo sfruttamento di manodopera avviene per aumentare il profitto. Per
evitare lo schiavismo, quel profitto deve essere generato da migliori prezzi,
non da buone parole. Non risulta che la Mattel abbia aumentato il costo per unità
prodotta».
Telefoni
senza controlli
Le leggi
cinesi vietano il lavoro minorile, fissano lo straordinario a un massimo di 36
ore e prevedono una serie di indennità. Ma ragazzine di 15 anni si fanno
assumere nelle fabbriche della Samsung per la stagione estiva, dribblando i
controlli con documenti falsi. Dietro di loro ci sono organizzazioni che
gestiscono il traffico di manodopera, soprattutto quello che arriva dalle
regioni più povere della Cina. Chi ha “fortuna” parte per l’estero, in
condizioni più che precarie. Chi ne ha meno, resta nelle zone industrializzate,
a lavorare per pochi dollari nelle fabbriche delle moderne tecnologie. La
coreana Samsung, stanca di ribattere alle accuse di China labor wacht – che
dopo le condizioni di lavoro alla Foxonn/Apple si è concentrata sulle fabbriche
che producono per Samsung – ha deciso per la misura più drastica: «Ok,
smettiamo di appaltare qua se non è possibile avere la certezza che il lavoro
sia regolare», ha scritto l’azienda nel suo sito lo scorso 15 luglio. Le
autorità locali stanno ancora cercando di fermare l’esodo: se le fabbriche
straniere chiudono per colpa dell’operato di singoli individui, dei padroncini
delle fabbriche, va in crisi un pezzo di sistema. E la libertà di impresa
decisa dal Partito comunista non arriva fino a tanto. La Cina cresce, migliora
le condizioni di lavoro dei suoi operai in patria ma nell’approvvigionamento
delle materie prime continua ad avvalersi di manodopera schiava. Secondo la
regola del “farsi i fatti propri”, non interferisce con le condizioni sociali
dei Paesi, quasi tutti africani, in cui Pechino acquista i componenti preziosi
per le sue industrie. Così il coltan, necessario per computer e telefonini, può
tranquillamente essere frutto di lavoro forzato, minorile, schiavo. Però la
fabbrica che lo utilizza è in regola, rispetta tutti gli standard, quindi si
sentirà assolta. Esattamente come Samsung.
Pomodori
clandestini
C’è un
intento politico dietro la denuncia dello schiavismo? Alcuni Paesi ne sono
convinti, e sostengono che molte ong lavorino in realtà per economie
concorrenti, in primis ovviamente quella statunitense. Il Dipartimento del
Lavoro Usa stila ogni anno il suo rapporto sulla tratta di essere umani (Trafficking in person report) che
classifica, in tre diversi rank, i Paesi secondo il loro grado di tutela. Per
Washington Cuba risulta tra i peggiori Paesi al mondo, mentre è considerata dal
Global Slavery una delle nazioni dove è meno diffusa la schiavitù. Visto che
sulla base di quel rapporto si distribuiscono i fondi e si stabiliscono le
alleanze, è lecito pensare che interessi personali possano prendere il
sopravvento su interessi collettivi. Gli Usa non “classificano” se stessi, ma
se lo facessero non dovrebbero assegnarsi un buon punteggio: lo sfruttamento
dei migranti in agricoltura, solo da poco messo all’indice, ha garantito
profitti e competitività alle industrie agro alimentari statunitensi per
decenni, prima che la pressione dell’opinione pubblica spingesse ad attuare
politiche salariali uguali per tutti. Coalition Immokalee workers (Ciw), associazione nata in Florida, ha combattuto
contro le condizioni dei braccianti irregolari nello Stato simbolo delle
vacanze e del benessere americano. Dietro Miami beach ci sono i campi
coltivati, le fattorie, gli allevamenti di bestiame. Ma non c’è nulla del sogno
americano, non le condizioni di lavoro, non gli stipendi. Un procuratore
federale ha definito la Florida «il Ground zero della schiavitù moderna», e non
aveva torto. Fino a pochi anni fa nei campi di pomodoro era normale vedere
lavoratori messicani schiavizzati. Oggi non più. «Vanno affrontate le cause
sottostanti allo schiavismo», dice la ong, che opera di concerto con le forze
dell’ordine locali e con gli ispettori del lavoro. «Finché non migliorano le
leggi, finché il rapporto tra lavoratori e datori di lavoro è così diseguale,
queste forme di schiavitù continueranno a esistere. Inutile parlarne a vuoto,
solo quando si mette fine alle condizioni di sfruttamento si mette fine alla
schiavitù». Inutile anche denunciare i “pomodori rossi di sangue” se non si
combatte il male alla radice. E una delle cause dello sfruttamento, negli Stati
Uniti come nella Ue, è l’ingresso irregolare dei lavoratori stranieri, la
condizione di “clandestinità” dettata per legge. «Avere il permesso di
soggiorno è la promessa su cui si fonda la moderna schiavitù. Il silenzio sulle
condizioni di lavoro è ottenuto grazie all’illusione che dopo si diventerà
cittadini», spiega Francesco Carchedi, che per la Flai Cgil ha curato il 2° Rapporto Agromafie e caporalato. «Il lavoro forzato riguarda quasi sempre lavoratori
extracomunitari, perché sono loro a non avere nessun diritto e dunque nessuna
alternativa. La differenza tra lavoro sfruttato e lavoro paraschiavistico?
Tutti lavoriamo per necessità, ma c’è chi quella necessità è stato in grado di
negoziarla sindacalmente, e chi ancora non ci riesce o si mette in condizione
di non riuscirci. Per un italiano la necessità del lavoro si è nel tempo
trasformata in diritto tutelato, per un ragazzo extracomunitario non è così.
Per lui diventa dovere, un imperativo con pochi margini di scelta».
Mattoni
insanguinati
Dei 28,9
milioni di schiavi al mondo, più della metà lo sono in virtù della loro
condizione economica che li costringe a lavori mal pagati, sotto pagati, per
niente pagati. La schiavitù per debito consente di tenere bassi i prezzi – e alti
i profitti – dei mattoni prodotti nelle 5mila fornaci pakistane, Paese in cui
si calcola che ci siano almeno 2 milioni di schiavi. Per quel tipo di lavoro
non si fa la fila al collocamento: ci si arriva solo quando non ci sono più vie
di uscita. Un universo fatto di turni massacranti, alloggi fatiscenti, paga
irrisoria, punizioni fisiche. Alla stampa indiana lo hanno raccontato due ragazzi di 30 e 28 anni, Jialu Nial e Nilambar
Dhangdamajhi, ma solo quando sono finiti in ospedale con le mani mozzate.
Gliele avevano tagliate i loro padroni, per aver tentato la fuga. «Non volete
lavorare per noi? Non lavorerete per nessun altro». La maggior parte di quei
mattoni non varca i confini regionali, serve per tirare su case a Calcutta o a
Kabul, e magari a costruire le fabbriche in cui lavoreranno altri schiavi in
Sri Lanka. In almeno cinque dei dieci Paesi dove la schiavitù è più diffusa la
coercizione non viene dallo sfruttamento degli stranieri ma da quello dei
propri concittadini.
Quanta
“impronta schiavistica” c’è nella nostra vita quotidiana? È la domanda che si
sono posti gli ideatori di slaveryfootprint.org, il sito che misura, valutando lo stile di vita, il
nostro grado di complicità nel lavoro forzato. Difficile – forse impossibile –
uscirne con un punteggio pari allo zero. Puoi non comprare i cellulari della
Samsung (che comunque si adopera per contrastare lo schiavismo) ma non puoi
evitare l’uso di strumenti contenenti coltan o bauxite. Puoi non comprare
gamberetti, ma i pesci spazzatura nutrono anche le orate di allevamento. E il
mercato più grande non è quello europeo ma quello asiatico e africano.
Finiscono lì i tessuti cinesi a basso prezzo, la tecnologia di seconda scelta,
le derrate alimentari comprate coi soldi dei donatori. Gli schiavi del call
center lavorano oggi per le compagnie telefoniche di Nuova Delhi o di Nairobi,
che vendono prodotti e contratti alla “loro” classe media, indiana e africana.
Che ha faticato per arrivare a conquistare i simboli del successo, e oggi non
vuole sentirsi dire che li sta pagando col sangue del proprio sangue
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