Il brutto di essere
le avanguardie della generazione a perdere, i pionieri della dorata indigenza.
Quando si parla di generazione a perdere si pensa ai venti-trentenni. Giusto,
ma c’è anche un folto gruppo di quaranta-cinquantenni. Mal comune, niente
gaudio. Comunque è davvero meraviglioso far parte del magico mondo di coloro
che non sanno ancora bene se servono a qualcosa, che non è ancora chiaro se si
siano ben inseriti nella società, se stiano producendo qualcosa e soprattutto
se siano destinati ad avere il privilegio di continuare a produrre qualcosa.
Guadagnandosi magari anche il pane con onestà, cosa che non guasterebbe.
Eventualmente. Malgrado l’avanzare delle primavere (e degli inverni del nostro
scontento) e le molte cose fatte, nel bene e nel male (e perlopiù nel discreto
e nel mediocre), c’è gente di molte età che si domanda ogni giorno se potrà
avere (appunto) il privilegio di lavorare. Privilegio non è parola scelta a
caso, ma termine assai consono ai tempi e alla presente situazione. I concetti
di lavoro come dovere e come (ahaha) diritto sono molto cambiati, di recente.
Non sono invece cambiati i concetti di capriccio, di preferenza, di volubilità
di chi il lavoro te lo dà o meglio, come si potrebbe ormai dire secondo le
tendenze verbali dei tempi moderni, te lo concede. Trattasi di concetti
(tritissimi e vecchi come il mondo) che hanno ricevuto un frizzo di giovinezza
per merito di questa disastrosa crisi. Che bello, vero? Meno sono le certezze
più l’arbitrio imperversa, ci mancherebbe altro. I cretini hanno sempre
imperversato, si sa, ma sembra proprio che questo per loro sia un momento
d’oro.
IL RITORNO DEI
CRETINI VIVENTI – Insomma, bisogna, come si dice dalle mie parti, “sbasà
il cò” (abbassare la testa) e accettare le condizioni. In alcuni casi bisogna
anche farsele piacere, le condizioni. Volendo, e anche non volendo, si rende
necessario, a fini auto-gastronomici (in breve per coniugare il pranzo con la
cena), sottostare ed esporsi quotidianamente alla stanca replica del film “Il
ritorno dei cretini viventi”. Questo è uno dei molti lati negativi di essere
una generazione a perdere, ma non è nemmeno il peggiore, a ben vedere. Il lato
che consuma di più è sentirsi eternamente sospesi, come se si fosse sempre sul
punto di raggiungere un traguardo il quale invece, quando si arriva, ci si
accorge che era spostato un po’ in là, accidenti. E a furia di inseguire
baldanzosi un traguardo sfuggente si finisce, quasi senza accorgersene (ma
anche accorgendosene benissimo, malgrado i fallimentari tentativi di far finta
di niente), per avere i capelli bianchi, le gengive che si ritirano, il
presbitismo incipiente e la pelle che raggrinzisce. Certo, invecchiare sperando
è meglio che invecchiare disperati, senescere lottando è più stimolante che
stando seduti sull’impiego fisso. Il fatto è che ci sono generazioni che dovranno
morire lavorando, proprio come accadeva nei secoli scorsi, all’epoca ruggente
della rivoluzione industriale. Diciamo che noi siamo le prime sorridenti
vittime dell’involuzione industriale dei nostri tempi. Felici, si potrebbe
dire. Se così fosse. È vero che avremo l’occasione di non rimbambire facendo i
vecchietti in pensione che guardano l’orizzonte dalle panchine della
passeggiata a mare, però sarebbe stato bello almeno provare. Invece
l’esperienza di trascorrere anni in ozioso declino ci sarà risparmiata e
dovremo cercare di inventarci qualcosa fin ben oltre l’epoca della nostra prima
dentiera. Che fortunelli! La pensione più che un sogno è proprio una cosa a cui
non si pensa proprio, né da svegli né da addormentati. Intanto però gli anni
passano e s’invecchia con la sgradevole sensazione che la saggezza resti sempre
lontana, così come la sicurezza economica.
SINISTRAMENTE
SOSTITUIBILI –
Altro lato molesto di far parte della generazione a perdere è l’impressione di
essere in qualche modo di troppo e che prima o poi si finirà per incespicare in
una di quelle riconfigurazioni, in uno di quei rinnovamenti, in una di quelle
rottamazioni che sono per definizione una solenne fregatura. Insomma,
l’idea generale che si riceve dalla propria vita (si fa per dire) professionale
è di non essere ritenuti indispensabili, anzi di essere sostituibili,
sinistramente sostituibili. Perché è proprio così che questo mondaccio vuole
farti sentire, pur facendo di tutto perché tu ti illuda di essere speciale. Sei
speciale fino alla prossima svendita per rinnovo locali, dove tu farai la parte
del comò della nonna che ha preso le tarme (il comò, non la nonna, che ha 95
anni ed è a Miami a godersi la pensione).
DORATA INDIGENZA – Comunque il lato più
negativo di tutti (chi l’avrebbe mai immaginato che i soldi avessero una
qualche rilevanza nella nostra bella società?) non è la frustrazione (un lusso
per gente assunta a tempo indeterminato), ma il perenne stato di necessità
economica. Bisognerebbe coniare un nuovo termine per definire la disgraziata
capacità di guadagno e l’altrettanto disgraziata capacità di spesa della
generazione a perdere, che spesso ha studiato e viene da famiglie che, con
aggettivo demodé, si potrebbero definire borghesi (di regola prima ci va
l’aggettivo “piccolo”, perché chi viene da famiglie con i soldi questi problemi
non ce li ha e ai rampolli delle casate benestanti, anche se non combinano un
tubo nella vita, non si nega mai la qualifica di imprenditore, anche se del
menga). Come si potrebbe chiamare lo stato esistenziale di tutti costoro? Forse
l’espressione che più s’attaglia è dorata indigenza. Ecco, la generazione a
perdere è destinata a vivere in uno stato di dorata indigenza, con la seconda
casa al mare dei genitori ma senza la certezza di potersi permettere di mandare
i figli all’università, con il costante timore di essere d’avanzo e di
conseguenza votata a convivere con la paura di essere gettata via alla prima
occasione. Bello, vero? Converrà prima o poi parlarne, ma non adesso, perché
quando si fa parte di una generazione a perdere scappa anche la voglia di
finire i discorsi
Clementina Coppini.
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