Richard Swartz 22
agosto 2012 DAGENS NYHETER Stoccolma
Molti hanno cercato di unire l’Europa, e
tutti vi hanno sbattuto il naso: Attila, Carlo Magno, Napoleone, Hitler.
L’ultimo tentativo, fino a questo momento, è quello dell’Unione europea.
L’Europa non ha sguainato la spada, essendo diventata dopo Hitler un continente
pacifista. Ha tuttavia utilizzato mezzi inoffensivi, come la buona volontà, le
istituzioni comuni, leggi e regolamentazioni. L’euro è soltanto l’ultima, e
indubbiamente la più audace, di queste iniziative a favore di un’Europa unita.
L’origine del progetto europeo
moderno è politica, anche se l’accento sin dall’inizio è stato posto
sull’economia. La comunità del carbone e dell’acciaio ambiva a far oltrepassare
alle industrie indispensabili alla guerra gli stretti confini dello
stato-nazione, per evitare il ripetersi di nuovi conflitti. Le economie
nazionali dovevano confluire in un grande mercato unico, sprovvisto di
frontiere, e convergere poco alla volta le une verso le altre.
Quel progetto non si fondava
semplicemente sulla supremazia dell’economia, ma anche sul principio che la
razionalità economica dovesse consentire l’affermarsi di una comunità di
opinioni in altri ambiti, con lo scopo di creare un insieme che assomigliasse
agli Stati Uniti d’Europa.
L’economia senza alcun dubbio ha
rivestito un ruolo determinante quando si è trattato di mettere l’Europa al
riparo dalla guerra e, da questo punto di vista, la cooperazione europea è
stata un successo straordinario dopo il 1945. Ma la cooperazione economica non
è più sufficiente per quello che dobbiamo realizzare oggi: la crisi dell’euro
ci ha insegnato che questa cooperazione ha i suoi limiti, che in realtà sono di
ordine storico e culturale, perché l’Europa è senza alcun dubbio la regione più
complessa al mondo.
In uno spazio tutto sommato ristretto,
300 milioni di persone devono cercare di dar vita a un’unione, quando di fatto
non occorre allontanarsi neanche troppo prima di non essere più in grado di
capire ciò che dicono gli altri, di trovare chi mangia o beve cose di cui non
abbiamo neanche una vaga idea, chi canta canzoni a noi sconosciute, chi celebra
altri eroi, chi ha un rapporto completamente diverso con il tempo, ma anche
sogni e demoni differenti.
Ebbene, queste differenze sempre
esistite e ancora esistenti non sono mai ricordate, oppure lo sono soltanto di
rado. Sono però camuffate da un discorso nel quale tutti gli europei appaiono
naturalmente uniti di fronte al resto del mondo, mentre uno svedese ha
indubbiamente più cose in comune con un canadese o con un neozelandese che con
un ucraino o un greco. Se la storia d’Europa è costellata di ostilità e di atti
di violenza, a iniziare dalle due guerre più spaventose che l’umanità abbia mai
conosciuto e che in fondo altro non erano che guerre civili europee, è
probabile che dipenda proprio dalle nostre differenze culturali – e non da
quelle politiche o economiche.
Tuttavia, si ha l’impressione che
tutto ciò sia dimenticato o omesso. Insomma, sconosciuto ai più, al punto che
la manfrina europea che ci è servita quotidianamente – la bandiera, Beethoven,
Eurovision, e così via – ha poco a che vedere con la nostra realtà europea, e
molto con la pura propaganda per un progetto che non ha alcuna intenzione di
sentir parlare di differenze culturali o mentali, che tuttavia sono molto più
profonde rispetto alle nostre differenze materiali o finanziarie.
In realtà, è stato necessario
attendere la crisi europea per aprire gli occhi sul divario che separa le
chiacchiere dalla realtà. Con nostro grande stupore, la crisi ci ha fatto
scoprire persone che non avevano mai pagato le tasse, che pensavano che fossero
gli altri a dover saldare i loro debiti e che accusavano di dispotismo chi
tendeva loro la mano. Ignoravamo l’esistenza di questi europei e non volevamo
credere che esistessero. Tuttavia, questa è la realtà che ci circonda, ed è
così da tempo.
Questione di
punti di vista
Chi, al di fuori degli addetti ai
lavori, un anno fa sapeva che cosa fosse il clientelismo? Ho un’amica croata
che dall’inizio dell’anno è diventata ministro. Il suo non è un ministero di
primo piano, ma è pur sempre un ministero. Le ho chiesto quanti funzionari
permanenti figurano sul libro paga dei lavoratori del ministero e mi ha
risposto cinquecento. Cinquecento? Sembra davvero tanto per un paese come la
Croazia. E di quanti collaboratori avrà bisogno lei per sviluppare la politica
che intende perseguire? La risposta è come un colpo di cannone: trenta. Trenta
persone.
“E pensi di licenziare tutti gli
altri 470?”. La ministra mi guarda con un’espressione a uno stesso tempo
empatica e di presa in giro per il balordo del nord delle Alpi che sono (senza
per altro essere neppure biondo). No, non ci pensa proprio, perché non ha
intenzione di mettere a repentaglio la propria vita. Tanto più che ha anche un
figlio che va a scuola a piedi tutti i giorni, e si sa, un incidente può sempre
capitare.
E così, anche quando la mia amica
avrà lasciato il suo incarico, quasi 500 funzionari continueranno ogni giorno a
recarsi in uffici immaginari per fare un lavoro che non esiste. Nel mondo reale
esistono soltanto i loro stipendi, quelli che intascano davvero.
Ecco a che cosa assomiglia la nostra
Europa. E si noti bene che il nord non è poi tanto diverso dal sud, né l’est
dall’ovest e viceversa. È tutta una questione di punti di vista. L’Europa non è
altro che un favo estremamente fragile, fatto di particolarismi culturali,
storici e mentali. Nessun europeo assomiglia veramente a un altro. E malgrado
ciò, noi preferiamo considerare questa Europa non come un favo, ma come un
vasetto di miele, al quale attingere di continuo, pronto per essere consumato.
Traduzione di Anna Bissanti
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