Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


mercoledì 29 agosto 2012

ITALIA - Ugo Intini: “Una volta per tutte riveliamo le ombre su Togliatti”

A distanza di quasi cinquant’anni dalla sua scomparsa, Togliatti continua a far parlare di sé. Non solo come figura intimamente connessa con la storia d’Italia, dal fascismo fino agli anni della crisi dei missili di Cuba. Parlare di Togliatti significa mettere le mani su un immaginario collettivo di anni con la “A” maiuscola, su un’emotività sempre viva, significa rinegoziare il piano della realtà politica del Paese con quella trasmessa dagli storici. Forse per questo, per la statura stessa del personaggio politico, l’articolo apparso sull’Unità a firma del professor Michele Prospero, dal titolo “L’eredità di Togliatti e il Pd”, non ha mancato di riaccendere polemiche che, come sottolinea l’onorevole Ugo Intini, hanno la tendenza a «riemergere» periodicamente a distanza di decenni per la «catastrofica mancanza di memoria dovuta alla vecchiezza inaudita dell’Italia».

Onorevole Intini, ritorna lo “spettro” di Togliatti tra le pagine dei quotidiani. Chi è stato veramente Togliatti?

Riveliamo una volta per tutte le ombre di Togliatti. Il caso che riemerge è purtroppo la testimonianza che, in Italia, c’è una catastrofica mancanza di memoria, e questo è dovuto alla vecchiezza inaudita del Paese. Anche gli intellettuali, che vivono questo clima, a volte fanno modo che le polemiche si ripropongano, sempre identiche a distanza di decenni, sempre uguali a se stesse. Il “caso Togliatti” non sfugge questo paradigma: la questione sulla figura dello storico leader del Pci fu sollevata, per prima, proprio dall’Avanti nel febbraio 1988. L’idea del nostro giornale nacque sulla scia della Perestroika avviata da Gorbaciov e la conseguente apertura degli archivi. Da quegli archivi saltarono fuori delle carte che riabilitarono la figura di Nikolaj Bucharin, condannato a morte nel ’38 da un tribunale staliniano con un coinvolgimento diretto del leader del Pci. Da tempo i socialisti credevano che, per ammodernare la sinistra italiana, fosse necessario che il Partito comunista facesse i conti con la Storia.

Cosa significa fare i conti con la Storia?

I socialisti ritennero che fosse necessario, da parte del Pci, rompere la continuità con la tradizione di Togliatti. L’Avanti! sollevò l’argomento dicendo una cosa semplicissima: se in Unione Sovietica si riabilita Bucharin, allora è venuto il momento di rivalutare Togliatti che fu il vicesegretario del Comintern all’epoca della condanna della quale propagandò la legittimità nell’Occidente. Di Bucharin, Togliatti arrivò a scrivere, per giustificarne la condanna, che «aveva il carattere del professorino vanitoso e in lui vi era la stoffa del doppiogiochista e del traditore». Il direttore degli archivi storici di allora afferma chiaramente che, dai documenti emersi, si evinceva la chiara responsabilità di Togliatti come vice di Dimitrov, primo accusatore di Bucharin. Ecco, alla luce di questo, l’Avanti! chiese al Pci di prendere le distanze dallo storico Segretario e lanciò un dibattito nel quale intervennero i più importanti intellettuali dell’epoca. Non fu fatto, alcuni addirittura disprezzarono la posizione dell’Avanti!, mentre altri dissero che si trattava di una questione da consegnare agli storici. Di fatto il rinnovamento del Pci non ci fu e poi, dopo alcuni anni, il Pci cambiò nome senza fare i conti con la storia.

Come sintetizzerebbe i nodi più importanti del processo che non venne fatto?

Per la verità, la polemica su Togliatti andò avanti ancora oltre e, ad un certo punto, ci fubisogno di sottolineare che la questione non era personale, ma che era politica perché interessava il coinvolgimento del leader comunista nei crimini staliniani. Togliatti era il fior all’occhiello di Stalin ed è stato il veicolo dello stalinismo alla cui ideologia ha apportato quel “di più” composto dalla politica occidentale, in continuità con l’elaborazione teorica di Gramsci. Fu proprio Antonio Gramsci, infatti, a scrivere un libro intitolato “Il moderno principe” in cui spiegava che il partito è da considerarsi il moderno Principe di Machiavelli e, come tale, può venir meno alle regole della morale comune, può mentire e uccidere per la ragion di Stato e per preservare l’autorità dello Stato stesso. Gramsci parla del partito come di una persona collettiva che ha il dovere di preservare gli obiettivi della rivoluzione. Togliatti fu, con la sua capacità e intelligenza politica, l’anima che riuscì a propagandare questa visione, quindi la radice del problema è molto profonda, non è una questione personale, ma politica.

Eppure il Pci si è fatto sempre portatore e promotore della “Questione morale”.

In realtà è normale che un politico machiavellico, per cercare un consenso, vesta i panni del moralista. Togliatti però, proprio perché spietato e cinico e dotato di intelligenza e cultura politica superiore, non ha mai avuto alcuna indulgenza verso il moralismo, perché non ha mai accettato l’idea che il moralismo fosse uno strumento della politica. Ha scritto anche cose molto intelligenti contro la criminalizzazione moralista di Giolitti e ha sempre anche molto severamente insegnato che non si deve confondere la politica con la propaganda. Fu Berlinguer il vero padre della “questione morale”.

Lei ha citato Gramsci. C’è un passaggio che lo lega a Togliatti. In realtà, proprio a Gramsci fu detto di tornare in Italia, ma poi venne arrestato. Che si sa in merito?

Non si è mai appurato fino in fondo. In merito al rapporto tra i due, si sa che Gramsci, quando era in carcere, non aveva cognizione precisa del dibattito in corso nel partito. Tuttavia sappiamo con sicurezza che non approvava affatto quella che allora venne chiamata la dottrina del “socialfascismo”. Pertini mi ha raccontato che, nel carcere di Turi, Gramsci veniva isolato dagli stessi comunisti per la sua posizione, e che qualcuno gli tirò anche delle pietre accusandolo di tradimento. Ad un certo punto, i comunisti italiani approvarono, come ovvio, la posizione sovietica che identificava e metteva sullo stesso piano socialismo democratico e fascismo. La teoria fu accettata per disciplina dallo stesso Togliatti. Anzi, Ignazio Silone mi ha raccontato personalmente una cosa molto interessante: in un intervallo di una riunione del Pci in Francia, in forma riservata, Togliatti disse di non essere d’accordo con la teoria del “socialfascismo”, ma che avrebbe esternato il suo dissenso solo nel caso in cui ci fosse stato qualcuno che, prima di lui, si fosse opposto. Togliatti aveva capito che, solo se non ci fosse stata unanimità nel sostenere la posizione di Mosca, si sarebbe potuto sbilanciare contro di essa. Longo ,a quel punto, ribadì il suo sostegno alla tesi di Mosca, dunque Togliatti prese la parola per primo e, con forza appoggiò, la tesi del Partito Comunista sovietico.

Cosa sappiamo invece di Togliatti fino al ’43, quando era commissario politico delle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile spagnola?

Come commissario delle Brigate Internazionali Togliatti porta la responsabilità del massacro degli anarchici, dei trozkisti e dei socialisti libertari, che furono coloro che difesero Madrid fino alla fine dall’avanzata delle truppe franchiste. Ma di quel periodo Togliatti porta un’altra responsabilità particolare, conosciuta solo negli ultimi decenni. Era responsabile, come vicepresidente dell’Internazionale per l’Europa Occidentale, dell’appoggio alla messa fuori legge, voluta da Stalin, del Partito comunista polacco, i cui dirigenti furono sterminati e uccisi perché accusati di deviazionismo. Secondo un’opinione prevalente, Stalin aveva previsto la liquidazione della Polonia e la divisione del Paese tra l’Urss e la Germania nazista, cosa che poi avvenne. Per questo uccise i dirigenti polacchi, perché non avrebbero accettato la divisione del loro paese: però l’incriminazione, nel sistema dell’Internazionale, che era rigidissima sui regolamenti, prevedeva la firma di Togliatti per l’approvazione. Per poter firmare, Togliatti abbandona la Spagna e va a Mosca. Così firma il documento che apre la strada allo sterminio totale dei dirigenti comunisti polacchi.

Quale fu la sua posizione rispetto al processo di “destalinizzazione” avviato da Kruscev e alla sua posizione in merito ai fatti dell’Ungheria del ‘56?

Togliatti aveva intelligenza e cultura superiore e non amava Kruscev perché lo considerava un ignorante, un rozzo, un contadino rifatto e non condivideva la sostanza della destalinizzazione. Aveva capito che si iniziava così per finire al crollo dell’intero sistema, come poi è successo. Il sistema comunista non poteva reggersi senza essere basato su uno spietato autoritarismo. Dunque, anche se in pubblico non ne fece menzione, fu un forte oppositore della denuncia delle purghe staliniane da parte di Kruscev. Per quello che riguarda l’Ungheria, Togliatti fu tra quelli che fecero pressione sull’Urss affinché intervenisse a reprimere i moti proprio nel momento in cui, a Mosca, ci fu un’esitazione sul da farsi.

Prospero addirittura paragona Togliatti a Cavour, descrivendolo, nei fatti, come uno dei padri della Repubblica.

Quando Togliatti arriva in Italia nel ’44 si trasforma in uno dei più moderati dirigenti della sinistra italiana, addirittura accetta la monarchia mentre Nenni e gli altri non la accettarono. La svolta di Salerno fu storica. E, anche negli anni successivi, si mosse in pratica in modo moderato, lanciando grandi dichiarazioni rivoluzionarie ma, nella sostanza, muovendosi moderatamente e persino con maggiore moderazione dei socialisti del tempo. Ad esempio, nella Costituente, i socialisti erano molto più anticlericali dei comunisti: Togliatti accettò, all’inizio, di inserire l’indissolubilità del matrimonio tra i principi della Costituzione, cosa che avrebbe impedito i successivi referendum. Così si spiega la tendenza degli storici a dare un ruolo di statista “alla Cavour” a Togliatti perché, pur predicando la rivoluzione, in sostanza educava e tratteneva le masse, altrimenti ribelliste, al realismo. Ma questo lo faceva soprattutto perché sapeva dettagliatamente, a differenza di altri, il contenuto degli accordi di Yalta tra Churchill, Stalin e Roosevelt che si erano spartiti il mondo. E sapeva bene da che lato stava l’Italia e cosa comportasse la posizione del nostro Paese rispetto al ruolo del Partito comunista, ovvero di essere relegato all’opposizione o, al massimo, al governo di amministrazioni locali. Non voleva fare la fine dei comunisti greci che, nel ’47, si trovavano in una posizione simile a quella degli italiani, che quindi avevano le armi e che scelsero di continuare la lotta armata per prendere il potere e poi essere liquidati. I vecchi dirigenti comunisti raccontano che quando pensava alla sua possibile morte diceva sempre: «Poveri gattini cechi, cosa farete senza di me!». La sua moderazione fu frutto di un calcolo di opportunità politica.

Roberto Capocelli

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