Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


lunedì 27 febbraio 2012

PSI: Cap. 2 - Breve storia del Partito Socialista Italiano

2 - LA PACE E LA GUERRA

Nel 1900 si inaugurò quella che si suol chiamare “l’età giolittiana” e che, dal punto di vista socialista, si potrebbe chiamare “l’età turatiana”.
Per dodici-quattordici anni il paese progredì in prosperità e civiltà; per un tempo corrispondente il partito socialista ed il movimento operaio si fecero più forti e più estesi, le libertà democratiche più ampie e più salde.
Il nuovo secolo vide anche la nascita del sindacato unitario dei lavoratori, la CGdL, Confederazione Generale del Lavoro, fondata a Milano il primo ottobre 1906; in essa prevaleva la componente riformista sulla corrente anarchico-rivoluzionaria, impegnata a raggiungere risultati pratici e graduali a favore dei lavoratori che versavano ancora in condizioni oggi inimmaginabili.
Nel 1886 apparì una conquista il divieto di impiegare in “opifici, cave e miniere” fanciulli con meno di nove anni e nel 1902 la limitazione della giornata di lavoro a 11 ore per i minorenni e di 12 ore per le donne. Nel 1889 i lavoratori ottennero il diritto di associarsi e di scioperare ma ancora molte lotte e molto sangue li separava da una vera tutela sindacale.
“Non è lotta solo per qualche soldo in più e qualche ora in meno, è lotta per la personalità civile del lavoratore” così commentava nel 1898 l’Avanti! lo sciopero nelle risaie di Molinella.
Anche il movimento cooperativo si sviluppava e dal primo “magazzino di previdenza” sorto a Torino nel 1854 sulle idee mazziniane e garibaldine, dalla prima cooperativa di lavoro dei vetrai di Altare (Savona) del 1856, alle case del popolo nell’Emilia di Andrea Costa e di Camillo Trampolini.
Lo stesso Turati, a Genova, al congresso di fondazione del partito, era delegato di una cooperativa.
Fu la belle epoque del nostro paese, ma il progresso non è mai senza mescolanza di dramma.
Nel paese fermentavano profondi scontenti e rivolte, lo stato appariva inefficiente e corrotto, molto restava da fare per allargare lo spazio dei diritti civili.
Nel 1882 il diritto al voto fu concesso a quanti avevano frequentato le scuole elementari quando nel solo meridione il 75% della popolazione era analfabeta; solo nel 1912 si voterà a 21 anni, solo se si è fatto il servizio militare, altrimenti si voterà a 30 anni. Le donne avranno riconosciuto il diritto di voto solo nel 1919 ma in realtà, a causa di difficoltà burocratiche e successivamente del fascismo, potranno votare solo nel 1946.
Se il voto è lo strumento formale per raggiungere le conquiste sociali, l’istruzione è lo strumento sostanziale che trasforma le plebi in cittadini coscienti.
Nel 1894 ben 900 mila lavoratori che avrebbero voluto votare furono respinti dal seggio elettorale perché non dimostrarono un livello sufficiente d’alfabetizzazione. Solo nel 1904, grazie alla lotta del partito, l’obbligo scolastico verrà portato a 12 anni, ma senza un effettivo adempimento da parte delle autorità.
Emergono così schiere di maestri socialisti, come narrerà De Amicis, impegnati in un’opera d’insegnamento a giovani e adulti, con l’Avanti! (intorno al 1914 il giornale diffondeva 400.000 copie!) che, letto collettivamente nei circoli, diventa ben presto la “bibbia” laica dei poveri con le sue campagne contro l’alcolismo, la bestemmia, il maltrattamento degli animali, per l’emancipazione della donna, il controllo delle nascite ed il rispetto delle più elementari regole igieniche.
Mentre al Nord il movimento si organizzava nelle prime grandi fabbriche, al Sud la questione meridionale appariva drammatica, con gli eccidi periodici di contadini e la manipolazione delle elezioni da parte dell’autorità.
Anche nel partito socialista emersero le prime difficoltà e divisioni.
E’ l’era di Turati, eppure il dominio di Turati sul partito è interrotto dopo quattro anni dal pittoresco interludio della maggioranza di Enrico Ferri e Arturo Labriola e dopo una ripresa riformista, dalla maggioranza massimalista che, composta di onesti e probi dottrinari elementari, come Lazzari e Serrati, ha tuttavia alla sua testa il direttore dell’Avanti!, un giovane professionista della politica, ex maestro elementare, dagli atteggiamenti tribunizi ed insurrezionali, Benito Mussolini.
Nell’era di Turati il partito è uscito dalla forzata illegalità, lo stato ha proclamato la sua neutralità nei conflitti di lavoro, le organizzazioni di categoria e la Confederazione Generale del Lavoro diventano grandi istituzioni nazionali; le cooperative di lavoro sono una forza decisiva nella colonizzazione del suolo italiano e nei lavori pubblici, quelle di consumo una delle più moderne componenti della quotidiana vita operaia.
Dove esiste un più ricco terreno culturale e dove la rivoluzione industriale ha formato una classe operaia matura ed una classe media aperta alle innovazioni, i socialisti ottengono la guida delle prime amministrazioni comunali.
La Milano del sindaco Caldara, conquistata nel 1914, entra nel mito del riformismo socialista e i socialisti guideranno la città con il sindaco Filippetti sino al 3 agosto del 1922 quando le squadre fasciste arringate da D’Annunzio cacceranno gli amministratori socialisti dichiarati poi decaduti da Vittorio Emanuele III perché colpevoli “dell’abbandono delle loro funzioni” !
Tutte le concrete politiche sociali che oggi appaiono consuete vengono concepite e realizzate dai socialisti in quegli anni tra mille resistenze e difficoltà.
Nascono le mense popolari, i ricoveri per i vecchi bisognosi, le aziende municipalizzate per fornire il latte, il pane ed i trasporti a prezzi accessibili, la refezione scolastica, le case popolari; si conducono per la prima volta campagne di vaccinazione e di prevenzione contro pellagra, tubercolosi e sifilide.
Qualche anno dopo Lenin rimprovererà con disprezzo ai dirigenti socialisti italiani di esitare nel lanciare la rivoluzione per il timore di perdere i loro municipi, ma questi municipi sono rimasti nella storia come isole di progresso, esempi insuperati per decenni, seme di una tradizione riformista duratura.
Eppure il terrore continua a dominare molti strati della borghesia nei confronti del socialismo, come si vede dopo gli scioperi del 1904 e le intermittenti fiammate rivoluzionarie come negli scioperi di Parma del 1913. Non a caso il decennio che era cominciato con la restaurazione delle libertà democratiche terminava con una guerra coloniale, la guerra di Libia e preparava lo scoppio della prima guerra mondiale.
Nel 1914, un velleitario e disordinato tentativo di rivoluzione delle forze massimaliste ed anarchiche, “la settimana rossa”, produceva uno scontro molto duro tra le forze popolari ed il governo.
Il 7 giugno, ad Ancona, i carabinieri aprono il fuoco sui partecipanti ad un comizio antimilitarista provocando tre morti tra i manifestanti; la protesta, sostenuta dal PSI, guidato dai massimalisti rivoluzionari, e dalla CGdL, esplode in tutto il paese con scioperi e scontri che lasciano sul terreno quattordici morti (uno delle forze dell’ordine) e la sensazione d’essere all’inizio di un moto rivoluzionario.
Dopo una settimana di lotta la dirigenza riformista della CGdL, di fronte alle divisioni esistenti nel movimento socialista ed all’impossibilità di dare uno sbocco politico agli avvenimenti, revocava lo sciopero generale; due settimane dopo i colpi esplosi a Sarajevo da Gavrilo Princip che provocano la morte dell’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, aprono di fatto le porte alla Grande Guerra.
Il quattordicennio giolittiano vide, proprio nel 1914, un grande successo del PSI alle elezioni amministrative, ma anche le prime scissioni nel socialismo italiano.
La prima, dopo il 1907, fu l’uscita dal partito dei sindacalisti rivoluzionari, la seconda, nel luglio del 1912, fu l’espulsione, voluta da Mussolini, dei cosiddetti “riformisti di destra” Bissolati, Bonomi e Podrecca, colpevoli di “ministerialismo e bellicismo libico”.
E’ comunque da notare come queste scissioni, che pensavano di contrapporre al partito l’organizzazione sindacale, non intaccassero l’egemonia del partito sul sindacato e sulle masse popolari. La situazione paradossale, prima del 1914, era che il partito, pur modesto in confronto al sindacato ed al ruolo dei gruppi parlamentari, in definitiva era sempre esso a prevalere. Nel partito e nella sua continuità il proletariato socialista vedeva il depositario della sua fede.
Ciò spiega anche quel che accadde al socialismo durante la prima guerra mondiale.
I giovani, i dirigenti più audaci, nemici di Giolitti e della borghesia, poterono inclinare per un momento all’interventismo o legarsi definitivamente ad esso; ma il partito e le masse rimasero fermamente aderenti al principio della pace.
Non ci fu in questo differenza tra Turati o Modigliani, cioè i riformisti, oppure Serrati o Angelica Balabanov, i massimalisti.
Comprensione di ciò che veramente è la civiltà, sogno di un ideale finale di redenzione, scarsa adesione alle necessità di stato, ideali internazionalisti, tutto contribuiva ad ancorare il pacifismo nelle masse come nei capi del socialismo italiano che alla fine seppero coniugare il no alla guerra con l’esigenza di non entrare in conflitto con un diffuso sentimento popolare di difesa della patria, nella formula “nè aderire nè sabotare”.
Coloro che avevano preso sul serio i temi della violenza e dell’attivismo, con cui avevano galvanizzato le folle, come Mussolini, entrarono malamente in rotta con il partito e furono espulsi.
Alcune delle iniziative pacifiste più importanti della prima guerra mondiale, come le conferenze internazionali di Zimmerwald e Kienthal, ebbero i socialisti italiani per attori e iniziatori. Su questa fondamentale unanimità di avversione alla guerra si svilupparono diversi atteggiamenti.
Da una parte c’era il cauto atteggiamento dei Turati e dei Treves, che dell’avversione socialista alla guerra intendevano fare uno strumento di ricostruzione per il futuro, e pertanto erano attenti a non colpire il paese in un momento tragico – quando anche per loro la patria era, come appunto ebbe a dire Turati, sul Grappa – dall’altra c’era l’atteggiamento sempre più rivoluzionario dei giovani che, sulle sofferenze delle masse, costruivano un piano o un sogno di violento spodestamento della borghesia, specie dopo quel 1917 che vide la rivolta operaia di Torino , la crisi militare di Caporetto, ma soprattutto gli avvenimenti russi della rivoluzione proletaria.
Ma l’atteggiamento di “guerra alla guerra” era comune in fondo all’intero partito e spiega i drammatici successi, le drammatiche illusioni, le speranze e la crisi del 1919. (continua)

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