Pensare Globale e Agire Locale

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domenica 3 marzo 2013

ITALIA - Intervista a Luca Ricolfi: Poco meno di 12 milioni di cittadini hanno scelto di abbandonare i partiti tradizionali


Non era mai accaduto nella storia dell’Italia repubblicana. Poco meno di 12 milioni di cittadini, come emerge dalle analisi dell’Istituto “Carlo Cattaneo”, hanno scelto di abbandonare i partiti tradizionali, le forze fino ad oggi indiscusse protagoniste della scena pubblica italiana. E molti di loro hanno deciso di riversare il proprio consenso verso le Cinque Stelle di Beppe Grillo o verso l’astensione.

Un atto di radicale rottura della lealtà che neanche nei giorni drammatici di Mani Pulite e del crollo della prima Repubblica era venuta meno nei confronti del ceto partitico dominante. Stiamo vivendo una crisi di regime strutturale e senza precedenti? E quali prospettive potrebbe determinare, sempre che esistano possibili vie d’uscita? Ne discutiamo con il sociologo Luca Ricolfi, editorialista de La Stampa, professore di Analisi dei dati presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino e fondatore, con Silvia Testa, della rivista di studi elettorali “Polena”.

Professor Ricolfi, gli elettori italiani hanno espresso un rigetto complessivo e radicale dell’intero ceto partitico tradizionale. Si tratta di una crisi di regime o solo della sua organizzazione bipolare conosciuta negli ultimi vent’anni?
È una vera e propria crisi di sistema, molto simile a quella esplosa nel 1992 per gravità, non per tipologia. Oggi come allora drammatiche emergenze economiche si sono intrecciate con i problemi politici. E se ieri fu Giuliano Amato a dovere approvare una manovra finanziaria da 90mila miliardi di lire prelevando le risorse necessarie anche sui conti correnti dei cittadini per fronteggiare la svalutazione della lira, ora è stato Mario Monti a farsi interprete di un’iniziativa durissima e dolorosa per arginare i riflessi distruttivi della crisi internazionale. È stato il cortocircuito fra politica ed economia ad avere determinato la consapevolezza che di fronte a un quadro sociale non più tollerabile non possiamo più permetterci di essere governati da autentici cialtroni. E la paura di perdere anche i risparmi familiari e personali oltre alle prospettive di lavoro e crescita, ha provocato le scelte dirompenti emerse dal responso delle urne.

Ci troviamo di fronte a una scelta potenzialmente rivoluzionaria nei confronti del regime fino ad oggi dominante?
No. Il popolo italiano non sembra esserne capace, perché il suo “ritmo politico” è quello di uno strano animale, che ogni tanto si risveglia e manda un tremendo ruggito, ma ben presto torna a sonnecchiare o brucare l’erba.

Rispetto al crollo dell’assetto politico dominante nel biennio 1992-1993, la crisi di regime odierna presenta una sua peculiarità distintiva?
A differenza di vent’anni fa, oggi metà degli elettori ha rifiutato di offrire il proprio consenso alla classe partitica tradizionale. Mai come ora i cittadini italiani hanno dimostrato un elevato dinamismo nelle loro decisioni strategiche, un’altissima fluidità e liquidità di scelta, una diffusa propensione a mutare preferenza nel segreto dell’urna. E non si tratta di un’ondata passeggera, se solo proviamo a sommare i suffragi conquistati dal movimento di Beppe Grillo e il 25 per cento di astensione. Tuttavia continua a esistere un’altra Italia, animata nei comportamenti elettorali da un meccanismo gregario verso le forze politiche tradizionali. Un’inclinazione che esisterà sempre, qualunque sciocchezza compiano i dirigenti di tali formazioni. Trovo a questo proposito assai sorprendente lo stupore manifestato da numerosi analisti per la persistenza di un bacino di consenso massiccio e rilevante a favore di Silvio Berlusconi. Una tenacia e costanza che rappresentano un fenomeno ben più limitato rispetto al tasso di fedeltà e attaccamento al Partito democratico dimostrati dal nucleo tradizionale degli elettori della sinistra. Con una differenza significativa. Mentre il voto espresso per i progressisti è fondato su un rapporto di lealtà e proviene sempre dalle stesse persone e ambienti, quello diretto verso il Cavaliere è basato sulla disperazione di individui generalmente diversi, che preferiscono cambiare pur di non votare questa sinistra.

Vede possibili spazi per interventi finalizzati ad allontanare lo scenario della conservazion dello status quo e lo spettro “greco” o weimariano che ne rappresenta il frutto inevitabile?
Sono piuttosto pessimista. Partendo da una prospettiva realistica non riscontro nessuna possibilità effettiva. Se non si è voluta e potuta realizzare alcuna autentica innovazione negli ultimi vent’anni, perché si dovrebbe iniziare adesso? La possibilità di un’uscita di sicurezza ci sarebbe. Fra tutte le proposte politiche, la più convincente è a mio giudizio quella portata avanti da Matteo Renzi, imperniata su una miscela intelligente e coraggiosa di liberismo, orientato a liberare i produttori dal fardello fiscale e statalista che li opprime, e di socialdemocrazia, volta a completare e rendere davvero universale il nostro Stato sociale, eliminando sprechi intollerabili come i 10 miliardi di euro annui di false pensioni di invalidità e gli 80 miliardi di sprechi nella pubblica amministrazione. Un progetto limpidamente alternativo alla visione di puro mercato promossa da Renato Brunetta e Oscar Giannino, e allo statalismo costruito su una forte pressione tributaria incarnato da Mario Monti e da Pier Luigi Bersani. Era un punto di equilibrio che esisteva solo nel programma concepito dal sindaco di Firenze, rispetto a una destra e a una sinistra estremiste. La prima priva della volontà e della capacità di realizzare le riforme liberali invocate sulla carta, la seconda guidata dalla filosofia del deficit spending e dell’aumento delle tasse, non in grado di affrontare il totem intoccabile della spesa pubblica, ritenuta oggi più che mai la leva prioritaria per promuovere crescita e creazione di lavoro. Ma la scommessa promossa da Renzi poteva essere valida fino a tre mesi fa. Rilanciare la sua centralità ora, dopo averla emarginata e averne distrutto la base elettorale nel Partito democratico, è un’idea un po’ peregrina.

Non ritiene un grave errore da parte del gruppo dirigente del Pd avere marcato i confini di un’identità socialista ortodossa e keynesiana, favorendo l’estromissione della sinistra liberale e “clintoniana”?
Ma Pier Luigi Bersani è stato eletto proprio per realizzare un lavoro di ricompattamento del popolo del Partito democratico e della sinistra, che tendenzialmente è ancora più ortodosso e ideologico dei suoi vertici. Se va a una festa dell’Unità, le capiterà di vedere molte persone spellarsi letteralmente le mani per applaudire Nichi Vendola, leader di un’altra formazione, e mostrarsi estremamente tiepide e fredde verso una figura come Pietro Ichino, che può vantare una storia lunga e appassionata nell’universo politico, culturale, sindacale della sinistra e fino a pochi mesi fa era un esponente di spicco del Pd almeno per le tematiche attinenti al lavoro. Una personalità che da ampi strati della militanza del Pd viene ritenuta di destra e finisce per restare inascoltata senza potere incidere. La base in altre parole è ancorata profondamente a schemi politico-ideologici arcaici e massimalisti, non ama il riformismo radicale, che non trova grande spazio nella sua forma mentis.

Walter Veltroni aveva provato a creare un’unica grande forza riformista a vocazione maggioritaria nel 2007-2008.
Non soltanto lui. Anche Francesco Rutelli in occasione del voto politico del 2001, e Sergio Chiamparino nel corso della sua esperienza alla guida della città di Torino. Ma costoro, come poi accaduto al sindaco di Firenze, sono stati sconfitti in due diverse tornate elettorali, a anziché andare avanti con coraggio hanno fatto marcia indietro. Così è arrivata grazie a Bersani una svolta inequivocabile di contenuti e di progetto che ha finito per privilegiare in modo ossessivo le geometrie delle alleanze in varie direzioni rinunciando alla vocazione maggioritaria e “americana” delle origini. Prospettiva che avrebbe implicato una necessaria revisione critica e una radicale autoriforma di contenuti, metodi, apparato. In tal modo è stata archiviata ogni possibilità di rinnovare in profondità il partito. Fra l’altro, ragionando in un’ottica retrospettiva, vorrei ricordare che Veltroni aveva assunto le redini di un Ulivo devastato dal fallimento dell’Unione prodiana, e riuscì nel 2008 a ottenere un 33 per cento eccezionale rispetto al 25 registrato tre giorni fa.

Avere negato da parte della leadership democratica l’esistenza e l’emergenza dell’oppressione fiscale sul mondo produttivo, rifiutando di proporre la netta riduzione del peso delle tasse, può aver provocato nel ceto medio un rigetto della proposta progressista, spingendo fasce sociali rilevanti di nuovo nel centro-destra?
Senza dubbio. E quel rifiuto è stato consapevole, per nulla inconscio. Sul versante dell’Imu ad essere toccato è il reddito familiare e personale. Ed è probabilmente accaduto che molti pensionati con 700 euro di assegno mensile ma proprietari di un’abitazione di livello medio-alto ereditata hanno votato con convinzione per il Cavaliere. L’altro tema fiscale prioritario riguarda la chiusura quotidiana di centinaia di aziende e attività produttive perché i pochi margini di profitto sono assorbiti dalla voracità del fisco, Ires e Irap. Anche i protagonisti di questo tessuto imprenditoriale si sono orientati alla fine verso Berlusconi. Si tratta di due terreni distinti con un identico sbocco politico-elettorale. Consideri che nel 2011 le famiglie in serie difficoltà economiche erano 3-4 milioni, il 15 per cento del totale. Ma dopo l’esperienza del governo Monti, appoggiato lealmente fino all’ultimo dal Pd e non dal Cavaliere, sono schizzate oltre il 30 per cento: circa 8 milioni di famiglie su 23, in pratica una famiglia su tre. E la rivolta contro l’imposta sulla proprietà abitativa ha inciso maggiormente ai fini elettorali. Il gruppo dirigente del Pd, che pure ebbe a parlare di macelleria sociale all’epoca delle timide manovre finanziarie di Giulio Tremonti, non è apparso consapevole della gravità del fenomeno. Agli occhi di numerosi cittadini il leader del centro-destra è sembrato invece accorgersi di un problema concreto, rispetto ai discorsi vacui del numero uno del Nazareno sulla redistribuzione, l’equità sociale, l’Italia giusta, il bene comune.

Una ragione psicologica profonda alla base del fallimento della scommessa del Partito democratico potrebbe risiedere nella presunzione di vincere in maniera travolgente, in uno spirito di supponenza che ha allontanato gli elettori verso le forze avversarie?
È il riflesso del complesso dei migliori da me denunciato anni fa. Un elemento che ha accomunato Bersani e Monti nell’illusione a lungo coltivata di conseguire un exploit elettorale. Al candidato premier dell’alleanza progressista i responsabili degli istituti di ricerca hanno presentato rilevazioni che registravano un vantaggio persistente di molti punti sul centro-destra. Rifiutandosi di compiere le correzioni necessarie, visto che nei sondaggi telefonici il cittadino italiano puntualmente tende a rafforzare la preferenza per il vincitore annunciato, specie se è la sinistra, ed è riluttante a dichiarare il voto per la Lega e il Cavaliere, figura più screditata sul piano mediatico. Ragion per cui nelle rilevazioni demoscopiche bisognava aggiungere 2-3 punti percentuali a favore dello schieramento berlusconiano e sottrarne altrettanti al fronte progressista. Ragionamento simile doveva essere compiuto nei confronti del capo del governo uscente, a cui è stato raccontato che poteva arrivare al 20-25 per cento grazie alla sua immagine e appeal internazionale fantastici. Nulla più della lusinga induce in errore i politici.

Ritiene possibile che grazie allo shock dei risultati elettorali, nel Pd e nell’universo della sinistra si metta in moto un processo di revisione critica capace di far superare i ritardi e le chiusure che sembrano condannarli a ripetere gli stessi errori?
A giudicare dalle reazioni di molti miei amici e colleghi non vedo alcuna possibilità di un simile percorso nell’elettorato del Partito democratico. La cui risposta è tutta improntata al nichilismo vittimistico, all’insegna del Cavaliere che avrebbe vinto ancora a causa del popolo italiano cattivo, corrotto e abbindolabile. Non riscontro nessuna riflessione lucida nella gente di sinistra, né autentici cambiamenti. Almeno nei fedelissimi del Pd, nelle persone che lo voterebbero in ogni occasione, non in coloro che avrebbero scelto Renzi e sono rimasti a casa o hanno votato altro. Nutro più fiducia nei suoi dirigenti, che oggi hanno tutto l’interesse di provare a comprendere la realtà per il semplice motivo che preferiscono sopravvivere piuttosto che scomparire con ignominia. Al contrario, l’elettore militante e dogmatico non ha nulla da perdere e ama raccontare a se stesso la fiaba per cui lui incarna l’Italia buona e sana, migliore sul piano etico, sempre dalla parte della ragione e della civiltà. Non è mosso da un autentico sogno politico, bensì dalla ricerca di uno stato personale di benessere psicologico, fatto di autostima e auto-ammirazione, sentimento di superiorità morale, commiserazione per la pochezza di chi non la pensa come lui

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