Fu in un attimo che centinaia di
persone seppero di non poter più rivedere i loro cari: genitori, figli,
fratelli, padri e madri. Un’ingiustizia perpetrata nel tempo di cui si conoscevano
solo le vittime, ma i cui carnefici erano ancora all’ombra dell’omertà di chi
seppe, di chi ha sempre saputo ma ha preferito nascondere a fronte del
compromesso morale, della giustizia, dell’incontro tra la verità storica e
quella politica. Quella stessa politica, quella realtà militare, quei paesi
stranieri e quegl’interessi statali, non nazionali, cui si doveva dare
priorità. Ma quelle stesse persone che aveva nascosto forse non avevano mai
visto gli occhi di chi perse per sempre la speranza di un amore, di un
familiare, di qualcuno che non avrebbe rivisto più.
Io l’ho fatto. Ho parlato con chi a
distanza di trent’anni mi disse di non riuscire a dormire perché non sapeva chi
gli avesse portato via l’intera famiglia. E ho guardato sempre negli occhi
tutti quei politici, quei militari e tanti altri che mi suggerivano di levare
mano alla faccenda, che mi consigliavano di occuparmi di altro, di qualcosa che
fosse meno controverso, che non avesse bisogno di essere sviscerato fino in
fondo, perché tanto la verità non sarebbe venuta mai fuori. E perché forse per
loro era meglio così. Ma le mille difficoltà, le paure, i ricatti professionali
che avrei dovuto accettare e a quali avrei dovuto sottostare pesavano meno
dell’orrore e della vergogna che portavo addosso in quanto cittadino italiano.
Cittadino di un paese che non aveva cercato e voluto fino in fondo sapere cosa
fosse successo la sera del 27 giugno del 1980.
Per questo tenni accesa quella
telecamera e quel microfono, per questo insieme al collega andammo ad
intervistare chiunque potesse aggiungere un elemento nuovo, una parola in più.
Per questo non feci vincere le minacce e le intimidazioni di chi ci avrebbe
voluto silenti e inchinati al potere. Per questo non permisi alla paura di
prendere il sopravvento, perché sapevo che me ne sarei pentito per il resto
della vita. Perché quello che mi è stato insegnato del mio mestiere è non
fermarsi alle apparenze di chi intende mistificare la realtà per il proprio
tornaconto. Ma soprattutto perché ero cresciuto con le parole di un ragazzo che
appena dodicenne mi disse di aver perso il padre, proprio come me, ma di non
sapere cosa e come fosse successo, se non per il fatto che l’aereo che pilotava
era sprofondato in mare al largo di Ustica.
Poi arrivò un giorno di settembre,
quando rispondendo al telefono mi sentii dire da chi aveva combattuto anche più
di me soltanto poche parole: “Abbiamo vinto! Sono stati condannati”. E la
vittoria non era solo morale, la condanna non era solo un risarcimento
economico, era molto di più. Si trattava più semplicemente di giustizia. Perché
nella vita deve esserci giustizia, perché sono cristiano e sono quindi
fermamente convinto che vi sia per tutti un momento in cui schiudendo gli occhi
e ripensando alle difficoltà, ai sacrifici, ai dolori sostenuti per le infamie
ricevute, per le sottomissioni involontarie, per il fango tirato addosso da
tutte quelle persone ottuse e infami che ancora non riconoscono la verità
dimostrata processualmente, tutto assuma un contorno meno sfumato. E seppur ad
una morte ingiusta non si possa dare spiegazione, sono convinto che la
giustizia conquistata può ridare il sonno.
Giampiero Marrazzo
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