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mercoledì 23 aprile 2014

ITALIA - Tabù giustizia per la sinistra. Vent’anni di immobilismo


Vent’anni di scontro tra giudici e centrodestra berlusconiano. Il risultato? La magistratura che si arrocca. La politica che fugge. E abbandona i più deboli. Un tabù per le forze di sinistra che pure avevano una tradizione di garantismo. Parlano Luigi Ferrajoli, Salvatore Lupo e Valerio Spigarelli.

La cultura giuridica di sinistra è stata quasi paralizzata, perché ha dovuto difendere la magistratura dagli attacchi, riducendo la critica. Questo ha determinato una caduta della cultura garantista. Penso per esempio a molti processi di mafia o a quelli nei confronti dei NoTav». L’analisi è di Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto di fama internazionale, che proprio sul garantismo ha fondato gran parte della sua ricerca (i suoi ultimi libri sono Dei diritti e delle garanzie, Il Mulino, e La democrazia attraverso diritti, Laterza). La “caduta del garantismo” nell’analisi di Ferrajoli, comincia con la stagione di Mani pulite e segna l’intero ventennio berlusconiano. Si tratta della rinuncia da parte della sinistra a «una tradizione di tutela del più debole nei confronti della repressione, del sopruso, dell’abuso del potere giudiziario e anche di quello poliziesco». Quasi un tradimento del principio di uguaglianza e di legalità in nome del quale fino agli anni Settanta le forze di sinistra si erano spesso contrapposte a una magistratura considerata a volte conservatrice, addirittura fascista, in un’epoca di leggi “speciali” lesive dei diritti sanciti dalla Costituzione.

All’origine del “tradimento”, di questo “chiudere gli occhi” di fronte ai problemi della giustizia, la contrapposizione sempre più dura tra la magistratura e il centrodestra berlusconiano. «Uno scontro tra due fonti di legittimazione», lo definisce Ferrajoli. «Da un lato quella elettorale e politica di Berlusconi che è appunto legittima per quanto riguarda la rappresentanza ma contemporaneamente non lo è per le violazioni della legge; dall’altro la legittimazione legale che è alla base del potere giudiziario e dello stato di diritto». In un contesto di acceso populismo, che fa perno sull’ideologia del capo «come incarnazione della volontà popolare e perciò esente da censura», è accaduto così che gran parte della sinistra si sia schierata a fianco della magistratura sotto attacco.

 

Da storico della mafia Salvatore Lupo ha incontrato spesso nei suoi studi il potere giudiziario. In un recente libro (La mafia non ha vinto, Laterza) scritto con il giurista Giovanni Fiandaca arriva a smontare le tesi del processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia sostenendo la legittimità dell’intervento da parte delle istituzioni centrali. Lupo condivide il giudizio sull’immobilismo della sinistra: «Non tanto quella parlamentare, ufficiale – dice – quanto quella di opinione, costituita per esempio dalla rete di organizzazioni per la legalità e l’antimafia, che nel loro impegno a sostegno della magistratura non hanno visto le difficoltà e i contrasti al suo interno». In questo modo è stata data una sorta di delega al potere giudiziario. E la figura del magistrato per i cittadini – spettatori dei processi-gogna in tv degli anni 90 – assume una funzione quasi salvifica. La battaglia legale contro la corruzione – mai combattuta prima di allora in modo così intenso – arriva a fare del pubblico ministero una specie di missionario.

Un fenomeno con radici lontane. «La sensazione di un forte ideologismo politico del potere – ricorda Lupo – si diffonde negli anni 70 delle bombe e degli attentati e negli anni 80 delle mafie. Tangentopoli non è altro che il punto di esplosione di tutte queste tensioni e Mani pulite si accompagna all’azione della magistratura antimafia di Palermo». E l’opinione pubblica, «nel passaggio in cui i partiti si indeboliscono o addirittura si suicidano» si identifica nei giudici. «Dalla crisi dei partiti – continua lo storico siciliano – emergono legittimità diverse e anche delle classi politiche “di riserva”: le tecnocrazie, alle quali anche la magistratura appartiene». I magistrati agli occhi dei cittadini appaiono superiori rispetto ai politici, anche perché da un punto di vista morale questa legittimazione viene sancita da un altissimo prezzo di sangue. Le stragi di mafia del ’92 sono ferite che non si rimarginano. «Se come cittadino penso che il ruolo della magistratura e dei suoi supporter sia sproporzionato nella vita italiana, come storico non posso nascondermi che se tutto questo è avvenuto vi sono delle ragioni non secondarie», spiega Lupo. «Cause che certo non vanno cercate nel complotto o nella guerra civile o in altre stupidaggini con cui la classe politica specie a destra, si è baloccata», conclude Salvatore Lupo.

Ma l’atteggiamento subalterno nei confronti del potere giudiziario rivela anche lo smarrimento determinato dalla fine dei blocchi contrapposti, il vuoto di idee e di progetti da parte di una sinistra che tentava faticosamente di rinascere dalle ceneri del Pci. Così, oltre alla perdita dell’identità garantista ed egualitaria, si fa strada una visione della legalità che per certi aspetti addirittura ricalca il modello della destra. «In quegli anni avviene una mutazione genetica», sostiene Valerio Spigarelli, presidente nazionale dell’Unione camere penali. «Cambia l’approccio culturale della sinistra e la parola d’ordine diventa Law & Order, lo slogan dei conservatori». Sull’onda del populismo giudiziario cade pure il segretario degli allora Ds Massimo D’Alema: nel 1997 promuove la candidatura nelle fila dell’Ulivo di Antonio Di Pietro, uno dei protagonisti del «feroce rito della privazione della libertà» dice ancora Spigarelli. La linea della “sicurezza” prosegue con norme molto dure sull’immigrazione, come quel “decreto Amato” scritto in fretta subito dopo l’omicidio della signora Reggiani a Roma, poco prima delle elezioni politiche del 2008. Ma anche in tema di tossicodipendenza, la legge Fini-Giovanardi, fu preceduta dalla Iervolino-Vassalli, che trasformava in reato il consumo personale. Anche la sinistra, dunque, si serve del diritto penale per risolvere i problemi sociali. E spesso quello che viene prodotto è una legislazione criminogena che divarica la frattura fra i deboli e i forti.

Le conseguenze di una tale politica repressiva sono sotto gli occhi di tutti: la proliferazione di microreati e le carceri che scoppiano. Ma nonostante una condanna per trattamenti disumani da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo la sinistra – Pd, Sel e anche una parte dei M5s – «non riesce a promuovere una mobilitazione per l’indulto», sottolinea Valerio Spigarelli. Il governo Renzi poi non si discosta dai precedenti esecutivi. «Non si parla – insiste Spigarelli – del ruolo del giudice equidistante e nemmeno del fatto che il Csm viene amministrato da una serie di correnti che applicano una sorta di manuale Cencelli». E ancora: «Nel discorso alla Camera l’unico accenno alla giustizia penale che ha fatto Renzi è stato sull’omicidio stradale: una maniera per solleticare il consenso dell’opinione pubblica, visto che non si tratta affatto un’emergenza».

La vera emergenza è il crollo della legalità intesa come capacità di fare le leggi. «Siamo al totale dissesto», sottolinea Luigi Ferrajoli. «Invece di introdurre leggi organiche per ogni settore – salute, lavoro, istruzione, ambiente etc – adesso ci sono leggi assolutamente incomprensibili, illeggibili, articoli formati da centinaia di commi con rinvii interni ad altre leggi che a loro volta rinviano ad altre, un labirinto inestricabile e ingovernabile». Lo strapotere della magistratura deriva anche dal dissesto della legislazione deriva e dall’uso improprio che essa può fare delle leggi. «E allora c’è un solo modo per ridurre il più possibile il potere giudiziario: fare delle buone leggi, chiare, precise e rigorose». La buona giustizia dipende dalla buona politica e non viceversa.

Donatella Coccoli

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