Vent’anni di
scontro tra giudici e centrodestra berlusconiano. Il risultato? La magistratura
che si arrocca. La politica che fugge. E abbandona i più deboli. Un tabù
per le forze di sinistra che pure avevano una tradizione di garantismo. Parlano
Luigi Ferrajoli, Salvatore Lupo e Valerio Spigarelli.
La cultura
giuridica di sinistra è stata quasi paralizzata, perché ha dovuto difendere la
magistratura dagli attacchi, riducendo la critica. Questo ha determinato una
caduta della cultura garantista. Penso per esempio a molti processi di mafia o
a quelli nei confronti dei NoTav». L’analisi è di Luigi Ferrajoli,
filosofo del diritto di fama internazionale, che proprio sul garantismo ha
fondato gran parte della sua ricerca (i suoi ultimi libri sono Dei diritti e
delle garanzie, Il Mulino, e La democrazia attraverso diritti,
Laterza). La “caduta del garantismo” nell’analisi di Ferrajoli, comincia con la
stagione di Mani pulite e segna l’intero ventennio berlusconiano. Si tratta
della rinuncia da parte della sinistra a «una tradizione di tutela del più
debole nei confronti della repressione, del sopruso, dell’abuso del potere
giudiziario e anche di quello poliziesco». Quasi un tradimento del principio di
uguaglianza e di legalità in nome del quale fino agli anni Settanta le forze di
sinistra si erano spesso contrapposte a una magistratura considerata a volte
conservatrice, addirittura fascista, in un’epoca di leggi “speciali” lesive dei
diritti sanciti dalla Costituzione.
All’origine
del “tradimento”, di questo “chiudere gli occhi” di fronte ai problemi della
giustizia, la contrapposizione sempre più dura tra la magistratura e il
centrodestra berlusconiano. «Uno scontro tra due fonti di legittimazione», lo
definisce Ferrajoli. «Da un lato quella elettorale e politica di Berlusconi che
è appunto legittima per quanto riguarda la rappresentanza ma
contemporaneamente non lo è per le violazioni della legge; dall’altro la
legittimazione legale che è alla base del potere giudiziario e dello stato di
diritto». In un contesto di acceso populismo, che fa perno sull’ideologia del
capo «come incarnazione della volontà popolare e perciò esente da censura», è
accaduto così che gran parte della sinistra si sia schierata a fianco della
magistratura sotto attacco.
Da storico
della mafia Salvatore Lupo ha incontrato spesso nei suoi studi il potere
giudiziario. In un
recente libro (La mafia non ha vinto, Laterza) scritto con il giurista Giovanni
Fiandaca arriva a smontare le tesi del processo di Palermo sulla trattativa
Stato-mafia sostenendo la legittimità dell’intervento da parte delle
istituzioni centrali. Lupo condivide il giudizio sull’immobilismo della
sinistra: «Non tanto quella parlamentare, ufficiale – dice – quanto quella di
opinione, costituita per esempio dalla rete di organizzazioni per la legalità e
l’antimafia, che nel loro impegno a sostegno della magistratura non hanno visto
le difficoltà e i contrasti al suo interno». In questo modo è stata data una
sorta di delega al potere giudiziario. E la figura del magistrato per i
cittadini – spettatori dei processi-gogna in tv degli anni 90 – assume una
funzione quasi salvifica. La battaglia legale contro la corruzione – mai
combattuta prima di allora in modo così intenso – arriva a fare del pubblico
ministero una specie di missionario.
Un fenomeno
con radici lontane. «La sensazione di un forte ideologismo politico del potere
– ricorda Lupo – si diffonde negli anni 70 delle bombe e degli attentati e
negli anni 80 delle mafie. Tangentopoli non è altro che il punto di esplosione di
tutte queste tensioni e Mani pulite si accompagna all’azione della magistratura
antimafia di Palermo». E l’opinione pubblica, «nel passaggio in cui i partiti
si indeboliscono o addirittura si suicidano» si identifica nei giudici. «Dalla
crisi dei partiti – continua lo storico siciliano – emergono legittimità
diverse e anche delle classi politiche “di riserva”: le tecnocrazie,
alle quali anche la magistratura appartiene». I magistrati agli occhi dei
cittadini appaiono superiori rispetto ai politici, anche perché da un punto di
vista morale questa legittimazione viene sancita da un altissimo prezzo di
sangue. Le stragi di mafia del ’92 sono ferite che non si rimarginano. «Se come
cittadino penso che il ruolo della magistratura e dei suoi supporter sia sproporzionato
nella vita italiana, come storico non posso nascondermi che se tutto questo è
avvenuto vi sono delle ragioni non secondarie», spiega Lupo. «Cause che certo
non vanno cercate nel complotto o nella guerra civile o in altre stupidaggini
con cui la classe politica specie a destra, si è baloccata», conclude Salvatore
Lupo.
Ma
l’atteggiamento subalterno nei confronti del potere giudiziario rivela anche lo smarrimento determinato dalla fine
dei blocchi contrapposti, il vuoto di idee e di progetti da parte di una
sinistra che tentava faticosamente di rinascere dalle ceneri del Pci. Così,
oltre alla perdita dell’identità garantista ed egualitaria, si fa strada una
visione della legalità che per certi aspetti addirittura ricalca il modello
della destra. «In quegli anni avviene una mutazione genetica», sostiene Valerio
Spigarelli, presidente nazionale dell’Unione camere penali. «Cambia
l’approccio culturale della sinistra e la parola d’ordine diventa Law &
Order, lo slogan dei conservatori». Sull’onda del populismo giudiziario
cade pure il segretario degli allora Ds Massimo D’Alema: nel 1997 promuove la
candidatura nelle fila dell’Ulivo di Antonio Di Pietro, uno dei protagonisti
del «feroce rito della privazione della libertà» dice ancora Spigarelli. La
linea della “sicurezza” prosegue con norme molto dure sull’immigrazione, come
quel “decreto Amato” scritto in fretta subito dopo l’omicidio della signora
Reggiani a Roma, poco prima delle elezioni politiche del 2008. Ma anche in tema
di tossicodipendenza, la legge Fini-Giovanardi, fu preceduta dalla
Iervolino-Vassalli, che trasformava in reato il consumo personale. Anche la
sinistra, dunque, si serve del diritto penale per risolvere i problemi sociali.
E spesso quello che viene prodotto è una legislazione criminogena che divarica
la frattura fra i deboli e i forti.
Le
conseguenze di una tale politica repressiva sono sotto gli occhi di tutti: la proliferazione di microreati e le
carceri che scoppiano. Ma nonostante una condanna per trattamenti disumani da
parte della Corte europea dei diritti dell’uomo la sinistra – Pd, Sel e anche
una parte dei M5s – «non riesce a promuovere una mobilitazione per l’indulto»,
sottolinea Valerio Spigarelli. Il governo Renzi poi non si discosta dai
precedenti esecutivi. «Non si parla – insiste Spigarelli – del ruolo del
giudice equidistante e nemmeno del fatto che il Csm viene amministrato da una
serie di correnti che applicano una sorta di manuale Cencelli». E ancora: «Nel
discorso alla Camera l’unico accenno alla giustizia penale che ha fatto Renzi è
stato sull’omicidio stradale: una maniera per solleticare il consenso
dell’opinione pubblica, visto che non si tratta affatto un’emergenza».
La vera
emergenza è il crollo della legalità intesa come capacità di fare le leggi.
«Siamo al totale dissesto», sottolinea Luigi Ferrajoli. «Invece di introdurre
leggi organiche per ogni settore – salute, lavoro, istruzione, ambiente etc –
adesso ci sono leggi assolutamente incomprensibili, illeggibili, articoli
formati da centinaia di commi con rinvii interni ad altre leggi che a loro
volta rinviano ad altre, un labirinto inestricabile e ingovernabile». Lo
strapotere della magistratura deriva anche dal dissesto della legislazione
deriva e dall’uso improprio che essa può fare delle leggi. «E allora c’è un
solo modo per ridurre il più possibile il potere giudiziario: fare delle buone
leggi, chiare, precise e rigorose». La buona giustizia dipende dalla buona
politica e non viceversa.
Donatella Coccoli
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