Pensare Globale e Agire Locale

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sabato 13 aprile 2013

VENEZUELA - Caracas, tutti vogliono l'oro nero


Dalla Cina agli Usa: le potenze mondiali guardano al voto in Venezuela. Per mettere le mani sulle sue riserve petrolifere.

di Fabio Bozzato

Venerdì, 12 Aprile 2013 - Sul pronostico tutti concordano. «Con un largo vantaggio nelle inchieste, ci si aspetta la vittoria di Nicolás Maduro, che probabilmente continuerà nella tradizione di Hugo Chávez», ha siglato per tutti James Clapper, direttore dell'intelligence di Washington, durante un'audizione al Congresso Usa. Le elezioni presidenziali venezuelane del 14 aprile sembrano insomma avere esito già scritto.
Ma l’interessamento americano non è casuale.
Il Venezuela è il più inquieto dirimpettaio degli Stati Uniti e il Paese con le maggiori riserve petrolifere al mondo: secondo la Pdvsa, la compagnia petrolifera di Stato, le riserve certificate di greggio si aggirano attorno ai 297 mila milioni di barili, cioè molto più di quelle dell'Arabia Saudita. L'Opec, l'organizzazione di Paesi produttori, ha rilevato che nel gennaio 2013 il Venezuela ha estratto attorno ai 2 milioni e 766 mila barili di petrolio al giorno.
PARTNER NONOSTANTE LE POLEMICHE. Nonostante i rapporti tesi, le accuse di destabilizzazione e gli stracci volati anche di recente con l'espulsione di due diplomatici nordamericani il giorno stesso della morte di Chávez, il 6 marzo, Caracas e Washington sono due partner commerciali inseparabili. E la stabilità del Venezuela, socialismo o meno, è la priorità per gli Stati Uniti. E non solo per loro.
Il Venezuela è il terzo fornitore di petrolio per le industrie nordamericane, dopo Canada e Arabia Saudita. E Caracas, per contro, importa almeno 197 mila barili al giorno di benzina, secondo la Eia, l'agenzia di informazione ambientale Usa: l’import è andato crescendo nel 2012, dopo l'esplosione nell'enorme raffineria di Amunay, che si stima riesca a lavorare ora solo al 55% delle sue potenzialità.
WASHINGTON E MADURO. Per gli Usa e il Venezuela insomma, è vitale tenersi stretti. Per cui, le parole di James Clapper suonano persino come un augurio a Maduro: nessuno a Washington vorrebbe un Venezuela destabilizzato. «Credo che questo sia un paradosso verosimile. Tuttavia, è da tener presente che la diplomazia Usa è plurale e che ogni dipartimento si muove spesso con sfumature e sentieri molto diversi», ha commentato a Lettera43.it Martin Granovsky, editorialista del quotidiano argentino Pagina/12 e uno dei più attenti analisti delle relazioni latinoamericane.
È pur vero che la strategia chavista è stata in questi 14 anni quella di sottrarsi all'abbraccio e alle sfide dell'egemonia di Washington. «L'altro corno del paradosso è che la diplomazia di Chávez con gli Usa si è rivelata realista e pragmatica, riducendo la dipendenza ma senza mai rompere», ha aggiunto Granovsky.

L'ingresso nel Mercosur e la creazione di Alba e Celac


Lo sguardo della dirigenza chavista si è spostato a Sud, verso il resto del continente: da qui la decisione di entrare nel Mercosur, il mercato comune sudamericano, la creazione dell'Alba (l'associazione di Stati “affini ideologicamente”) e quella della Celac, la comunità economica latinoamericana. L'obiettivo è stato creare processi di integrazione, in grande sintonia con Brasile ed Argentina. La diplomazia petrolifera chavista è stata un'invenzione ben oliata per tessere relazioni, scambi ed alleanze nello scenario latinoamericano.
«Il prezzo altissimo del greggio ha gonfiato le casse e la tecnologia ha aumentato le possibilità estrattive: il nostro petrolio è stato la locomotora del Caribe», ha aggiunto a Lettera43.it José Luis Méndez, una delle firme prestigiose del giornale di opposizione El Universal. «Così, lo scambio con Cuba di servizi, di vario tipo, medico-sanitari, sociali, di sicurezza contro petrolio, si è gonfiato, molto più che l'affinità ideologica».
I CREDITI DI CARACAS. Il problema è che, mentre il commercio Usa fornisce liquidità e in valuta pregiata, quello con i Paesi amici diventa un problema di cassa. I crediti all'1% da saldare nell’arco di un ventennio, in cambio di vestiario, caffé e carne dal Nicaragua o formaggio e carne dall'Uruguay potrebbero non reggere a lungo. Inoltre, una recente inchiesta dell'agenzia Reuters ha scoperto che nello scambio con l'Ecuador - greggio contro combustibile - almeno un terzo del materiale raffinato fornito da Caracas era prodotto di importazione. L'agenzia ha stimato che le triangolazioni con le nazioni sudamericane, tra il 2009 e il 2011, abbiano raggiunto un valore di 1.000 milioni di dollari. Ed è questo il fianco scoperto per il chavismo del futuro.
GLI INTERESSI CINESI. La Cina, infine, è l'altro attore che si muove sullo scacchiere latinoamericano con grande aggressività. Assetata di greggio, Pechino fornisce al Venezuela una montagna di finanziamenti, garantiti da approvvigionamenti petroliferi. Il 62% dell'export venezuelano verso il gigante asiatico è petrolio e il 27,5% suoi derivati. Un giro d'affari che si calcola attorno ai 18 miliardi di dollari, 24 volte più di 10 anni fa e rafforzato da continui accordi commerciali, 19 solo nell'ultimo anno.
Ma la forza d'urto cinese ha investito tutta la regione, dove si registra un business triplicato nell'ultimo quinquennio. Così, anche nel caso improbabile che il candidato dell'opposizione Capriles entri a Palazzo Miraflores lunedì 15 aprile, non cambierà di molto la sua diplomazia verso il gigante asiatico, tanti sono i legami vitali e di così imponenti dimensioni.
IL FUTURO È UN'INCOGNITA. «Il fatto è che Chávez aveva chiari i suoi obiettivi. Aveva una visione», dice amaro José Luis Méndez «Ma il gruppo dirigente che ha lasciato saprà reggere il Paese? O ci troveremo senza Alì Baba ma solo con i quaranta ladroni? Ci aspetta una transizione lunga e difficile».

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