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domenica 21 aprile 2013

ITALIA - Napolitano bis: verso un governo di larghe intese


La rielezione del capo dello Stato apre all'ipotesi di un esecutivo del presidente. Che realizzi le riforme individuate dai saggi. Letta e Amato in pole per la premiership. Monti spinge Cancellieri a Palazzo Chigi. Il centrosinistra scompare. E il PD è a rischio scissione.

di Gabriella Colarusso

Sabato, 20 Aprile 2013 – Dopo sette anni alla guida del Colle più alto della Repubblica, Giorgio Napolitano è stato rieletto Capo dello Stato, con un'ampia maggioranza: 738 voti arrivati da Pd, Pdl e Scelta civica.
È la prima volta nella storia della Repubblica che un presidente viene rieletto, non era mai successo prima. Un secondo mandato che inizia, però, sotto i colpi di una durissima crisi politico-istituzionale.
LA NOTTE DRAMMATICA DEL PD. Napolitano aveva escluso da tempo la possibilità di una sua rielezione. Ma nella serata del 19 aprile l'ipotesi aveva cominciato a prendere corpo, dinanzi alla debolezza di un parlamento diviso in tre blocchi, senza nessun vero vincitore, e alla paralisi di un sistema politico incapace di trovare un accordo sul nuovo presidente della Repubblica.
I DUE CANDIDATI BRUCIATI. In due giorni, infatti, il Partito democratico ha visto sfaldarsi la sua stessa maggioranza, prima sul nome di Franco Marini, poi su quello di Romano Prodi. Il M5s è rimasto fermo nelle sue posizioni, rifiutando il dialogo con i democratici su tutte le ipotesi alternative al candidato grillino per il Quirinale, il giurista Stefano Rodotà.
Il Pdl, dopo aver visto cadere l'ipotesi Marini sulla quale si era accordato con il Pd, ha alzato le barricate contro la candidatura di Romano Prodi, considerata un affronto al centrodestra, poi abbattuta dallo stesso partito del Professore.

La condizione non detta di Napolitano: appoggio a un governo di larghe intese


Uno scenario balcanizzato che ha spinto Napolitano, nel primo pomeriggio del 20 aprile, a desistere e ad accettare la richiesta di ricandidatura che gli è stata avanzata, con un certo pathos drammatico, raccontano le cronache dal Quirinale, da tutti i leader dei principali partiti - Pier Luigi Bersani, Silvio Berlusconi, Mario Monti - e dai rappresentanti delle Regioni.
Nel comunicato con cui annunciava la sua disponibilità ad un secondo mandato, Napolitano però aveva escluso che nei colloqui con i leader politici tenuti prima del voto si fosse parlato anche del futuro governo.
LA PRIORITÀ SONO LE RIFORME ISTITUZIONALI. Ma il sì del presidente alla ricandidatura, dicono i bene informati, è stato condizionato proprio a un preciso impegno da parte dei due principali partiti, Pd e Pdl: il sostegno a un governo di larghe intese che realizzi almeno le principali riforme istituzionali ed economiche che servono al Paese, già individuate dal lavoro dei saggi, e riporti poi i cittadini alle urne, magari già entro un anno.
Un governo del presidente, di scopo, o comunque lo si voglia chiamare, sostenuto con i voti di una parte del Pd, del Pdl e di Scelta civica.
IN LIZZA PER PALAZZO CHIGI AMATO E LETTA. Sul nome del premier che dovrebbe guidare l'esecutivo di concordia ci sono diverse ipotesi. Il più quotato al momento è quello di Giuliano Amato, che avrebbe l'appoggio di Pd e Pdl ma non della Lega. O in alternativa, quello di Enrico Letta, vicesegretario del Partito democratico, affiancato come vice-premier da Angelino Alfano.
IPOTESI VIOLANTE ALLA GIUSTIZIA. Al momento è escluso, secondo fonti parlamentari, che si dia vita a un esecutivo tecnico o comunque composto solo da tecnici. Alcuni dei saggi scelti da Napolitano per accompagnare la fase di transizione post voto potrebbero così entrare nella nuova squadra. Si parla al momento di Luciano Violante alla Giustizia e della conferma di Anna Maria Cancellieri agli Interni.
Ma è sulla maggioranza trasversale che dovrà sostenere l'esecutivo che si aprono le incognite maggiori. Con il PD, che ha azzerato la segreteria, a forte rischio scissione.

La guerra dei democratici e la fine del centrosinistra

Mentre la presenza di Silvio Berlusconi riesce a tenere ancora unito il Pdl, le votazioni per la scelta del nuovo capo dello Stato hanno fatto emergere tutte le contraddizioni interne alla formazione uscita vincitrice, seppur con una maggioranza risicata, dalle elezioni: il Partito democratico.
La guerra interna, combattuta a colpi di schede bianche, nulle e franchi tiratori, che ha travolto persino il padre fondatore e nobile del partito Romano Prodi, ha spaccato i democratici al punto da portare prima la presidente, Rosy Bindi, e poi anche il segretario Bersani alle dimissioni.
LA PROFEZIA DI D'ALEMA. «L'amalgama mal riuscita» - copyright di D'Alema - si è così dissolta dinanzi all'impossibilità di far convivere le due diverse anime del partito: quella dei sostenitori della larghe intese, favorevoli a un accordo con Berlusconi in grado di archiviare una guerra durata 20 anni, e quella della sinistra del Pd convinta che il governo di cambiamento con il M5s fosse l'unica possibilità di dare un esecutivo al Paese dopo il voto del 25 febbraio. Una linea, quest'ultima, che è stata portata avanti da Bersani e dall’ ormai ex alleato, Nichi Vendola, anche di fronte ai ripetuti e a tratti offensivi niet di Beppe Grillo.
PARTITO A RISCHIO SCISSIONE. Ora il Pd rischia davvero la scissione. Di certo, il centrosinistra non esiste più. Al sesto scrutinio che ha decretato la rielezione di Napolitano, infatti, il leader di Sel ha dichiarato che il suo partito avrebbe votato per Stefano Rodotà, annunciando già che sarà all'opposizione di qualsiasi governo dell'«inciucio». «Silvio Berlusconi è il vero vincitore di questa partita», ha spiegato Vendola in conferenza stampa. L'ipotesi di governissimo che si profila all'orizzonte «la consideriamo una sciagura per il Paese».
IL TWEET DI BARCA APRE IL CONGRESSO DEL PD. A riscaldare il clima è arrivata anche la dichiarazione di Fabrizio Barca, attuale ministro della Coesione territoriale, che molti considerano il possibile futuro leader di una nuova formazione politica che tenga dentro la sinistra del Pd e Sel. Anche se l'interessato ha escluso di voler fare il capo partito preferendo invece un ruolo di dirigenza.
«Incomprensibile perché il Partito democratico non voti Stefano Rodotà o Emma Bonino», ha scritto su Twitter il ministro pochi minuti prima che iniziasse la sesta votazione per il Quirinale. Aprendo di fatto il congresso del Pd, che orà dovrà portare a una sintesi tra l'anima liberal-renziana, quella più spostata a sinistra dei Giovani Turchi e dei socialdemocratici, e quella ex popolare. Oppure a una scissione e alla nascita di qualcosa che per ora è difficile prevedere

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