Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


lunedì 12 marzo 2012

PSI: Cos’è il reddito minimo garantito?

Il reddito minimo garantito, conosciuto anche come reddito di cittadinanza o basic income, è una misura di welfare contro la povertà molto praticata, conosciuta in Europa e nel mondo, che si applica generalmente con carattere temporaneo a categorie di cittadini che vivono un momento di difficoltà contingente rispetto al lavoro e alle dinamiche economiche (si pensi ai giovani in attesa di prima occupazione, ultracinquantenni disoccupati con difficoltà di reinserimento, persone in condizione di marginalità sociale e lavorativa quali le donne).
Come funziona e chi ne può beneficiare?Di norma il sostegno viene erogato a quei lavoratori non provvisti di ammortizzatori sociali (collaboratori o parasubordinati) oppure formulato come imposta negativa, a carico del fisco, a favore di chi versa in una condizione di povertà, ma può anche essere pensato come forma di integrazione per chi svolge un lavoro che non consenta di raggiungere un salario pari o superiore ai parametri minimi per la conduzione di un’esistenza al di fuori della povertà. La somma è chiaramente diversa in ogni paese (in Italia la soglia di povertà si aggira secondo le ultime stime intorno ai 600 euro al mese), ma sostanzialmente volta a garantire almeno il 60 per cento del reddito medio di ciascun Paese di riferimento (in questo senso sembra essersi orientato in diverse occasioni recenti il Parlamento Europeo).
L’impostazione europea, l’”anomalia” italiana e le esperienze degli altri paesiIn Italia al momento non esistono politiche di reddito minimo garantito e le esperienze in questo ambito sono state anche in passato molto marginali, ma l’argomento è tornato in primo piano ed è facile pensare che salirà agli onori della cronaca nel futuro più prossimo per un riferimento che il neo-ministro Elsa Fornero ha inserito in un recente intervento al Parlamento Europeo esprimendosi, almeno a titolo personale, favorevole alla sua istituzione.
Il reddito minimo garantito è stato più volte caldeggiato a livello europeo dove viene inteso alla stregua di un diritto sociale fondamentale legato alla disponibilità delle risorse minime necessarie per vivere una vita libera e dignitosa. Gli stati membri sono stati invitati dalle istituzioni europee in diverse occasioni ad inserirlo nel loro sistema di welfare, dalla prima Raccomandazione del Consiglio europeo sulle politiche di protezione sociale del 1992 all’ultimo documento della Commissione del 2008 relativo «all’inclusione delle persone fuori del mercato del lavoro».
In effetti ad oggi la maggior parte dei paesi europei prevede politiche di reddito minimo con modalità ed esiti diversi, ma sostanzialmente positivi.
Le esperienze più longeve e riuscite sono quelle dei paesi scandinavi, Inghilterra, Olanda, Francia e Germania. I paesi che ancora non hanno aderito agli indirizzi della politica sociale europea sono invece, insieme all’Italia, Grecia, Ungheria e Bulgaria.
Il reddito Minimo garantito in italiaL’Italia ha sperimentato questa misura per un periodo molto breve nel 2000 quando l’allora ministro Turco volle, con la legge 328, l’inserimento del reddito minimo in 298 comuni. La sperimentazione tuttavia durò poco, infatti nel 2001 a seguito del cambio del governo e dell’approvazione della finanziaria 2003 finì. Negli anni successivi alcune Regioni (quali Lazio, Campania, Basilicata, Friuli, Trentino, Valle d’Aosta, Puglia) continuarono ad adottare provvedimenti simili, ma in breve tempo tutti i tentativi (alcuni anche di successo) trovarono fine anche per la mancanza di risorse economiche.
Le ragioni a sostegno del Basic Income e le finalità della sua eventuale introduzione in ItaliaL’introduzione del reddito minimo tuttavia non può prescindere da una riforma complessiva del mercato del lavoro, questo va infatti inserito nel contesto più ampio dell’incremento della flessibilità del lavoro, cosa che dovrebbe accrescere la competitività delle aziende e in definitiva quindi la produttività. Tutto ciò però non prima di aver riformato l’intero sistema di sicurezza sociale e di politiche di previdenza e assistenza al reddito in caso di perdita involontaria del lavoro, all’interno delle quali rientrano appunto gli ammortizzatori sociali e il reddito minimo garantito. Misure queste che dovrebbero necessariamente andare a beneficio di tutti i lavoratori e non solo del 25% di essi come accade oggi, comprese soprattutto tutte le larghissime fasce ad oggi escluse (vedi i lavoratori precari).
Questo discorso poi è inevitabilmente legato anche ai meccanismi di licenziamento che ovviamente dovrebbero essere anch’essi rivisti in questa occasione.
C’è chi vede il reddito minimo come una misura imprescindibile per costringere gli Stati e gli organi dell’Unione europea a una gestione della crisi economica internazionale improntata all’equità e alla giustizia sociale. In Italia il grande ostacolo all’introduzione del reddito minimo è in gran parte culturale (ancor prima che di bilancio) in quanto la visione del reddito minimo è legata ad una connotazione negativa che gli attribuisce un carattere di iniquità e deresponsabilizzazione. Se si vede il reddito come merito per il lavoro se non c’è lavoro non ci deve essere reddito, ma solo dipendenza e quindi povertà, ma questo in fondo è un gatto che si morde la cosa perché dalla povertà, con questi meccanismi, non si esce.
Le ragioni a favore del reddito minimo stanno infatti soprattutto nella convinzione che questo meccanismo abbia la capacità di riequilibrare i rapporti di potere asimmetrici per natura, ovvero nel riconoscimento del diritto di ogni individuo ad avere una dotazione di base che consenta lo sviluppo delle capacità e la fuoriuscita dal meccanismo della dipendenza e lo svincolamento del proprio futuro dall’elemento incerto costituito dal destino (ad esempio l’annullamento dell’ingiusto vantaggio di essere nati in un determinato contesto economico-familiare o in un determinato luogo).
E’ sostenibile il reddito minimo in Italia?La maggior parte degli studiosi che si occupano di queste problematiche sostengono di si. Si andrebbero infatti ad eliminare alcune forme di sussidio oggi esistenti ridistribuendole secondo logiche diverse, quelle appunto del reddito minimo.
Pertanto se il costo complessivo potrebbe essere quantificato in 25 miliardi di euro (secondo le stime di Andrea Fumagalli dell’Università di Pavia) da questa somma andrebbero scomputati circa 15 milioni di euro di sussidi esistenti che andrebbero eliminati, pertanto il costo in termini reali si aggirerebbe tra gli 8 e i 10 miliardi di euro, che per il bilancio di uno Stato non sono cifre astronomiche

Nessun commento:

Posta un commento