Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


domenica 1 aprile 2012

Il patrimonio ideale del socialismo riformista e la sinistra italiana di oggi

Nel 65° anniversario della scissione di Palazzo Barberini

Nessun elemento dello scenario internazionale e della condizione sociopolitica del secondo dopoguerra sopravvive nel mondo di oggi. Sessantacinque anni dopo, più che cercare nella complessa vicenda politica ed umana della scissione di Palazzo Barberini improbabili chiavi di lettura dell’attualità politica, è utile valutare in termini storicistici quell’esperienza, ricordando l’insegnamento di Croce che “la storia non è giustiziera, ma giustificatrice”.  Palazzo Barberini appartiene ormai interamente alla storia. Ed è la storia di una sconfitta, del fallimento della strategia di Giuseppe Saragat di costruire in Italia un’alternativa riformista alla Democrazia Cristiana portando la maggioranza della sinistra fuori dall’influenza del PCI.

Palazzo Barberini non fu l’atto di nascita della socialdemocrazia italiana, la cui storia ripercorre la continuità dell’anima riformista del socialismo italiano e la cui origine è da ricercare nelle dispute di fine ottocento, riflesso della Seconda Internazionale, intorno all’ampiezza delle basi del movimento operaio e della sua coscienza di classe. Ma i socialdemocratici italiani fanno, giustamente, risalire all’11 gennaio del ’47 l’inizio di una loro peculiare presenza ed esperienza politica nella storia repubblicana, che non merita di essere ignorata né liquidata con superficialità, perché contiene in sé tutto il bagaglio storico, politico e morale di quella cultura che, all’interno del movimento socialista di matrice marxista, si contrappone non alla visione rivoluzionaria ma a quella totalitaria del socialismo.

Gli interpreti principali del filone riformista nell’Italia prefascista e negli anni dell’esilio, furono Filippo Turati, Claudio Treves, Giacomo Matteotti, Giuseppe Emanuele Modigliani, Camillo Prampolini, Alberto Simonini, Bruno Buozzi. Al lascito di questi padri vanno aggiunte oggi le lezioni impartite dal meridionalista e federalista Gaetano Salvemini, nella sua eterodossia socialista, da Piero Calamandrei, maestro di diritto e di democrazia, con la sua anima azionista, da Ignazio Silone che, con la sua ispirazione cristiana, ha lasciato l’insegnamento più profondo e, con esso, il più arduo dei precetti: trasformare l’esperienza in coscienza.

Una scelta di coscienza, appunto, fu quella degli scissionisti: uno strappo tormentato e traumatico che consumò ancora una volta, nel nome dell’autonomia dal comunismo stalinista, la rottura di quell’unità socialista per ricucire la quale Saragat si era tanto prodigato negli anni terribili dell’esilio e della lotta antifascista. Ma i protagonisti di Palazzo Barberini, consapevoli di vivere un momento cruciale della storia, andarono oltre le questioni legate all’antico confronto sempre aperto nel socialismo italiano, essi gettarono sul piatto delle idee una visione politico/ideologica che avrebbe potuto dare a tutta la sinistra italiana una fisionomia più moderna e una diversa consistenza se non fosse stata poi tradita da una troppo lunga e scialba pratica quotidiana dei piccoli spazi di potere gestiti in subordine alla DC ed isolata, preclusa, osteggiata e demolita dall’angusto e fazioso conformismo culturale di matrice comunista e di retaggio cattolico controriformista che, fin da allora, fu influente nel mediare il rapporto tra politica e pubblica opinione.

Il nuovo partito, a cominciare dal nome, PSLI, e dal simbolo,  affermò la continuità con la storia del riformismo socialista italiano. Giuseppe Saragat, fin dai suoi scritti ed interventi giovanili,  aveva sostenuto l’esigenza di un superamento dell’impostazione riformista della generazione turatiana, cercando un più lucido ancoraggio di sistema alle teorie marxiste, di cui  una “critica illuminata” poteva eliminare le interpretazioni “più rozze”, innovandole, sublimandole direi, alla luce della stessa logica dialettica hegeliana che le aveva ispirate.
La rilettura “illuminata” di Marx, l’umanismo marxista, la rivoluzione democratica, il valore della libertà, l’alleanza tra operai e ceto medio in una nuova unità di classe, maturati dagli insegnamenti dei grandi socialisti europei, da Engels a Turati, da Jaurès a Leon Blum, da Kautsky a Otto Bauer, rimangono immanenti nel Saragat di Palazzo Barberini, sono anzi il corpo e la sostanza ideale su cui innestare il programma politico della rinnovata socialdemocrazia italiana.

Saragat, il gruppo di Iniziativa Socialista, gli autonomisti di Critica Sociale, la federazione giovanile di Leo Solari, non pensavano affatto di costruire a Palazzo Barberini un partito di socialismo moderato. Essi si preparavano ad una grande sfida, ad uscire in mare aperto  per conquistare larghi strati di consenso popolare. La concezione che li animava era legata ad una libera interpretazione del marxismo, inteso come movente culturale e non come dogma. Giuseppe Saragat era già punto di riferimento, in lui si vedeva il continuatore della tradizione riformista ma se ne riconosceva anche la visione critica, a volte eretica, di un socialismo che si fa “umanismo integrale del proletariato, di cui l’idea di libertà è l’espressione cosciente, l’elemento integrale e il fondamento della sua coscienza di classe.”

A Palazzo Barberini c’erano i rappresentanti della tradizione riformista, da Giuseppe Emanuele Modigliani a Rodolfo Mondolfo a Giuseppe Faravelli, i quali vedevano nel marxismo, emendato dalle deformanti storture del leninismo e dello stalinismo, uno strumento ancora valido per interpretare le linee di tendenza dello sviluppo sociale. C’erano i partigiani Aldo Aniasi e Corrado Bonfantini e la passionaria Angelica Balabanoff che dopo essere stata a fianco di Lenin negli anni ruggenti della rivoluzione ne era diventata la nemica più acerrima. C’era perfino un gruppo trotzkista guidato dai giovanissimi Livio Maitan, Rino Formica e Giorgio Ruffolo. C’era di tutto, insomma, meno che un partito agnostico o moderato. E quel tutto così eterogeneo era tenuto insieme dall’ideologia.

Le considerazioni che oggi facciamo sulla scissione di Palazzo Barberini sono influenzate fatalmente della cognizione degli esiti cui l’iniziativa politica è approdata nelle fasi successive. Ma un fatto storico va esaminato in relazione al momento in cui si svolge. L’Italia, nell’inverno del ’47, è un cumulo di rovine, la tensione verso la ricostruzione morale e materiale è parossistica, la Costituzione repubblicana è solo una bozza, su di essa ferve il dibattito, De Gasperi presiede un governo tripartito (DC, PSIUP, PCI) ancora post-bellico ed è appena stato umiliato e disilluso dalla conferenza di pace di Parigi (cui ha partecipato con Bonomi e con lo stesso Saragat). Il Segretario di Stato americano, Marshall, deve ancora presentare il suo piano di aiuti alle nazioni europee, lo farà ad Harward il 5 giugno del ’47 e solo nel settembre di quell’anno Stalin formerà il COMINFORM.   La guerra fredda si delinea ma la NATO nascerà nel ’49 e il Patto di Varsavia solo nel ’55.

Saragat entra nella sala Borromini senza sapere, non può esserne certo, che il fronte popolare uscirà sconfitto dalle urne. Pur essendo sicuro della “tattica liquidatrice” del PCI, forse non immagina nemmeno quanto grande risulterà l’umiliazione di Nenni e dei massimalisti nelle liste con l’effigie di Garibaldi.

Spinto dalle pressioni dei “giovani turchi” di Iniziativa Socialista e di Faravelli (Critica Sociale), nel marzo del ’46 aveva lasciato a Parigi moglie, figli e il comodo posto di ambasciatore,   per affrontare “il problema morale dell’autonomia del socialismo”. Il 13 aprile, davanti al XXIV Congresso del PSIUP, pronuncia (tra gli applausi della platea) un discorso che, più di quello di Palazzo Barberini, fu il vero manifesto ideologico della socialdemocrazia del dopoguerra, scolpendo, contro le tesi fusioniste, le ragioni teoriche dell’opposizione al comunismo: la necessità di una profonda revisione del marxismo e il rifiuto del leninismo.

Il 2 giugno 1946 l’Italia diventa una Repubblica, il 24 dello stesso mese Saragat viene eletto presidente dell’Assemblea Costituente, incarico che, pur non essendone obbligato né richiesto, lascerà (a Terracini) subito dopo la scissione.  Il nuovo congresso del PSIUP è convocato a Roma dal 9 al 13 gennaio 1947, non tutti gli autonomisti, ridotti attorno al 20% dai contestatissimi congressi provinciali, vi partecipano. La mattina dell’11 Saragat abbandona il congresso e, nel pomeriggio, raggiunge palazzo Barberini, dove già sono i “giovani turchi” e i dirigenti dell’FGS con in testa Leo Solari. (Ri)nasce il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.

L’esule, il teorico marxista che aveva speso buona parte della vita a ricucire i rapporti tra le componenti socialiste e tra queste e il partito comunista per affrontare insieme la lotta contro il fascismo, ha 48 anni quando entra a Palazzo Barberini per consumare la “sua” scissione. Già sente nell’aria il rombo della denigrazione e della calunnia da sinistra, l’implacabile, sprezzante (falsa) accusa di un’azione finanziata dal governo americano, ideata e diretta dalla destra e dai grandi capitali, ed avverte su di sé un peso maggiore di quello che poi realmente sarà assegnato dalla storia alla sua scelta, vissuta al lume di una ineludibile responsabilità “di coscienza”: “non c’erano che due soluzioni: o rinunciare a battersi per l’idea che ci è cara, oppure fare quello che abbiamo fatto”, cioè un’azione di rottura dell’unità socialista che sarebbe stata accusata di voler colpire l’unità della classe operaia e favorire la reazione. Ma l’amico d’infanzia di Piero Gobetti coltiva la religione del dovere e “il nostro dovere è continuare l’opera di proselitismo, iniziata or sono cinquant’anni dai nostri grandi Maestri” (tra cui Giacomo Matteotti che, come ricordò un accorato Faravelli, aveva detto un giorno: “i socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”).

Con la mentalità di oggi è difficile crederlo ma Saragat, come Nenni del resto, agiva solo per ragioni ideali. Dietro la scissione non c’erano calcoli tattici né ambizione personale. I famosi finanziamenti americani, procurati da Faravelli, non hanno niente di misterioso, tanto che il ricercatore catanese Alessandro De Felice ne ha ricostruito l’intero ammontare servendosi di documenti originali: i sindacati italo-americani di Luigi Antonini e Vanni Montana (che del resto finanziavano tutti i gruppi socialisti fin dai tempi della lotta antifascista all’estero) fecero pervenire (prima alle correnti di Iniziativa Socialista e Critica Sociale, poi al nuovo partito ma per un tempo limitato) contributi di entità non straordinaria anche se vitali per una struttura politica che doveva essere inventata dal nulla.

Saragat non aveva in mente un piccolo partito, tutt’altro. Sperava di trovare un seguito significativo nell’ambito del ceto medio, da cui non desiderava essere schiacciato ma che pensava di sottrarre al richiamo della DC. E soprattutto credeva di poter agire sui rapporti di forza col partito comunista fra gli operai, prospettando loro una diversa, più civile, più umana concezione della lotta di classe. “La storia della scissione di Palazzo Barberini – ha detto lo storico Gaetano Arfè proprio nella ricorrenza dell’anniversario dell’evento nel 2001 – è la storia di un tentativo, audace, storicamente fallito e tornato politicamente attuale, di comporre in dialettica unità, nel comune segno della indipendenza dal gioco delle politiche di potenza, le forze del movimento operaio socialista, per farne, in un quadro di solidarietà europea, la forza dirigente del processo di ricostruzione di un paese uscito dalla più grande catastrofe della sua storia.”

La storia successiva non terrà fede alle premesse por motivi di rilievo storico e per ragioni politiche anche di basso profilo. Il PSLI, poi PSDI, non sfonderà mai alle elezioni politiche, buona parte della classe dirigente che aveva seguito la scissione si perderà per strada a causa delle gravi divisioni, soprattutto sulla politica estera, tra i teorici del terzaforzismo e i fautori dell’Alleanza Atlantica ed anche della diversa concezione dei rapporti con la piccola borghesia. Saragat diventerà (pur senza gestire mai grande potere) una delle maggiori personalità di governo del centrismo (epoca che gli storici cominciano a rivalutare, poiché coincise con la ricostruzione  dell’Italia, con la sua provvida scelta occidentale, con il suo miracolo economico) lasciando l’originaria ispirazione marxista quasi come un “porto sepolto” della sua anima ombrosa e solitaria  ma sostanzialmente estranea in corpore vili al PSDI. Egli affermerà sempre di più, fino alla Presidenza della Repubblica, la sua natura di uomo di Stato senza mai tenere in gran conto gli interessi del partito che aveva fatto nascere. Le sue vere preoccupazioni furono quelle di riannodare i fili dell’unità socialista (che rinascerà e morirà durante il suo soggiorno al Quirinale, lasciando vieppiù impoverito e defedato il gruppo dirigente socialdemocratico) e preparare (con successo) la strada al centro-sinistra.

Il resto è cronaca della nostra generazione, nella quale alle tragedie della guerra, alla tensione morale della lotta al fascismo e della ricostruzione, si sostituisce un’inquietudine costante, lo scorrere fosco e misterioso, praticamente ininterrotto, di un fiotto di sangue e di melma che, come un fiume carsico, a tratti scompare per riemerge sempre in forma di stragi, di terrorismo, di complottismo e di scandali. Lo scorrere di questo fiume trova sorgenti ancor prima della stagione del “68” e dell’autunno caldo immediatamente successivo, risale all’inizio della serie dei governi di centrosinistra, nel momento in cui il partito socialista di Pietro Nenni (subendo per questo la scissione a sinistra del PSIUP) dopo sedici anni di assenza ritorna al governo, finalmente sganciato dall’asfissiante abbraccio col PCI. I misteri d’Italia iniziano lì, con l’affaire De Lorenzo e  l’improvvisa morte di Segni, che portò all’elezione di Saragat a Presidente della Repubblica.

Ma questa è un’altra storia, tutta da decifrare e da scrivere. O riscrivere. La lunga notte della Repubblica ci ha portati alla situazione che oggi viviamo. La “seconda Repubblica”, che dura ormai da quasi diciotto anni, un tempo suffuciente per far crescere una nuova generazione, ha prodotto una democrazia virtuale ed incompiuta, nella quale due conservatorismi uguali e contrapposti, uno di destra e l’altro che occupa l’area di centrosinistra, si contendono il campo guidati e manovrati da altrettanti gruppi di potere economico/mediatico. Il riformismo stesso di cui tanto si parla oggi non è quello proprio del socialismo democratico, che è stato e rimane sconosciuto nel nostro Paese, con l’eccezione dei contenuti autonomisti e innovativi del PSI di Craxi, buttati subito via con l’acqua sporca.

I pochi, disorientati, socialdemocratici rimasti in politica, non devono (né possono) scendere sul terreno della politica “politicante” ma hanno l’arduo compito (e, in realtà, l’unica prospettiva, se vogliono rimanere se stessi) di salire sul terreno della cultura che sottende la politica.

Saragat non fu solo né incontrastato nella costruzione del nuovo partito. Egli vi prevalse (malgrado un gran brutto carattere) per la superiore statura intellettuale e si può ben dire che il ricordo di Palazzo Barberini è tutto imperniato sul pensiero e sulla figura dello statista torinese. E se di questo pensiero, praticamente enciclopedico per estensione e per dottrina, ho voluto qui cogliere solo l’aspetto (che potrebbe sembrare archeologia politica) dell’adesione critica al marxismo è per farne spunto di riflessione sul presente.

L’uomo Saragat parlava sempre come un maestro dalla cattedra. Cosa resta della sua lezione? Chi scrive questa nota conobbe il vecchio leader, ormai ottantenne, dopo la fine del suo mandato al Quirinale. Vidi sempre, in pubblico, nelle poche occasioni in cui venne a presiedere il Comitato Centrale del PSDI, un nume svagato e scostante. Andai qualche volta a trovarlo nella sua casa di via della Camilluccia, con altri giovani o accompagnando alcuni dei maggiori dirigenti del partito a quell’epoca. E vidi un padre stanco e disilluso sulle virtù dei suoi figli, cui parlava ancora come un maestro agli scolari, non di politica ma di filosofia, di scienza, di letteratura. Si esprimeva  così come avevo letto sui libri, ogni frase era una citazione a memoria, spesso in lingua originale. A noi giovani diceva: “perché mi chiedono consigli sulle scelte da fare? Un vero dirigente non cerca mai la strada della convenienza, deve sentire dentro di sé qual’è il dovere di un socialista”.

Il tempo è passato senza costrutto, un nuovo millennio è iniziato e una diversa era politica è in corso. Qual’è il dovere dei socialisti?
“In Italia le caratteristiche fondamentali della psicologia politica ondeggiano fra l’assenza del senso statale e l’assenza del senso di libertà”. Sembra una foto scattata oggi eppure sono parole pronunciate da Saragat nel 1925. L’impegno profuso per limitare gli spazi di rappresentatività, quindi di agibilità democratica, non ha portato alle forze a vocazione egemone i benefici sperati sul piano dell’efficienza e della coesione di governi, maggioranze e schieramenti d’opposizione.

Ai partiti-contenitore della cosiddetta seconda Repubblica – la cui crisi è ormai patente – è mancato un “pensiero”, cioè un organico ordine di principi, un’idea-forza alla quale riferire le politiche del quotidiano; pertanto essi non sono in grado di concepire e guidare un processo profondo e coerente di trasformazione anzi seguono, si mettono a rimorchio di umori e interessi cangianti di parti della pubblica opinione e di pezzi dell’economia e della finanza, di cui assecondano le rivalità nel contendersi il monopolio dei mercati oggi più interessanti: quelli del denaro e delle comunicazioni. Non si tratta della “morte delle ideologie” ma della fine della politica. E si scrive fine della politica ma si legge fine della sinistra.

Il processo di trasformazione del PCI, volutamente, non è approdato al socialismo democratico, a differenza di quanto avvenuto persino ai partiti comunisti dell’ex cortina di ferro. Una scelta non dettata da bisogno di modernità ma legata all’antica vocazione al compromesso consociativo con gli “’interfaccia” cattolici della prima repubblica.

Ora, di fronte alla crisi d’identità del capitalismo, alla deriva (autoritaria) della finanza speculativa, a un mondo in cui degrada a vista d’occhio la qualità della vita, del lavoro, dello stato sociale, dei servizi, delle strutture civili, delle libertà personali, si apre il problema grave e urgente della sostanza democratica del sistema in cui viviamo.

È possibile concepire una nazione moderna in Europa in cui non si trovi almeno un settore della sinistra politica che rifletta la cultura, la tradizione, i contenuti, la rappresentatività sociale del socialismo di formazione riformista e democratica? A nessuno fuori d’Italia (e, fuori d’Italia, nemmeno alla sinistra di casa nostra) verrebbe in mente di dire che la socialdemocrazia è morta, pur se attraversa un periodo di difficoltà sul piano elettorale.

La socialdemocrazia, come tutte le politiche del resto, va sempre aggiornata agli effettivi sviluppi dell’economia ma rappresenta una parte necessaria del pensiero politico democratico, prefigurando come suo sbocco ideale una determinazione socialista della democrazia (non viceversa, cioè una determinazione democratica del socialismo). La crisi della socialdemocrazia in Europa e la sua totale assenza in Italia sono parte essenziale del dramma che impedisce la nascita di una federazione politica europea e ostacola lo sviluppo della democrazia  italiana.

Di fronte, anzi dopo le dure repliche della storia non c’è più un intellettuale “di sinistra” capace di negare (e come potrebbe?) la fondatezza delle ragioni esposte da Saragat nel ’47 contro tutti i totalitarismi. Ma, ecco il paradosso, il riconoscimento di queste stesse ragioni viene usato per giustificare la fuoriuscita dalla sinistra storica piuttosto che per ricucire lo strappo con lo sviluppo del movimento socialista nell’Europa libera della seconda metà del novecento, provocato dalla presenza del più grosso partito comunista dell’occidente e dalla particolare posizione dell’Italia nello scacchiere geopolitico della guerra fredda.

Se viviamo un tempo amaro è perché, mentre sono state archiviate come ferro vecchio tutte le componenti della sinistra storica (che pure ha sempre trattato con sufficienza i socialdemocratici scissionisti di palazzo Barberini) l’area progressista si assesta attorno a un riformismo debole, non sorretto da un progetto credibile e riconoscibile di società più libera e giusta, annegato nella melassa giustizialista e falso-moralista. Il risultato è che le componenti più fertili e vivaci del ceto medio vengono lasciati nelle mani della cultura politica di centro-destra, in un’infarinatura liberale poco coerente e poco rigorosa, mentre il PD e le componenti collocate nella sua area, dentro e fuori dal Parlamento, vivono in condizione di subalternità rispetto al “pensiero unico mercatista” che, non da ora, regge le sorti delle economie e dei governi.

I “saragattiani” sono ancora davati a “un caso di coscienza”. Trovare ruoli e spazi di agibilità politica non è semplice, è il problema che abbiamo davanti. Eppure da un punto bisogna ripartire, per esempio da un’offensiva di verità: è nostro dovere far rilevare contraddizioni tanto gravi, così palesi, profonde al punto da aver compromesso il presente e minato il futuro delle giovani generazioni italiane. E mi soffermo soltanto sulle questioni che riguardano una delle parti in campo perché l’avvenimento di Palazzo Barberini non può essere inserito che sul terreno storico, nel contesto sociopolitico, nel tessuto culturale della sinistra.

Non sono pochi i cittadini che si rendono conto dell’illusorietà, della grande menzogna del sistema bipolare all’italiana, che ne colgono, a pelle, il nesso tra la volgare ferocia delle forme e il vuoto di valori della sostanza. La nascita del governo Monti, su cui non mette conto di soffermarsi in questa sede (ma bisogna procurare le occasioni per farlo), ha forse sorpreso ma non sdegnato questi italiani, che lo hanno vissuto come lo sbocco naturale di tanti anni di finto bipolarismo e forse anche di quel fiume carsico cui si è accennato.

Eppure la svolta di questi mesi, nell’impotenza o nel plauso imbelle delle forze parlamentari, è stata determinata dalle richieste pressanti della finanza, delle imprese confindustriali, della burocrazia europea, per un cambiamemto della politica economica nazionale in direzione di uno spostamento consistente e duraturo di risorse fiscali dalle famiglie verso le imprese e le banche. Si è affermata un’energica volontà di limitare, fino ad annullarlo, il primato della politica nella gestione del potere, di accelerare il processo già in atto di trasformazione del governo del Paese, come direbbe Marx, in comitato d’affari dei potentati economici nazionali e internazionali. Il mondo finanziario, oggi più che mai, ha bisogno di imporre le sue regole.

La rievocazione storica che ogni anno facciamo della scissione di Palazzo Barberini esprime in modo compiuto il nostro convicimento che riscoprire e valorizzare il patrimonio ideale e morale del filone riformista del socialismo italiano è il problema politico più importante della sinistra italiana di oggi. (di Antonello Longo 17.01.2012)

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