Pensare Globale e Agire Locale

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venerdì 18 gennaio 2013

ITALIA - BETTINO CRAXI, UN BILANCIO

E’ profondamente sbagliato demonizzare Craxi, ritenendolo responsabile di tutte le cose negative che sono accadute in Italia. E’ una demonizzazione che purtroppo continua ad essere sostenuta da molti, anche a sinistra. Se Craxi non va demonizzato, non va però nemmeno santificato.

Andrea Ruini

Craxi è stato un leader politico, con le sue luci e le sue ombre, con i suoi meriti e i suoi errori. Cominciamo con i meriti politici di Craxi, che un bel libro di Edoardo Crisafulli (“Le ceneri di Craxi”, Rubbettino editore) sintetizza in questi punti. In primo luogo, la restaurazione della autorità statale. Soprattutto negli anni in cui era Presidente del Consiglio, Craxi ripristinò l’autorità dello Stato democratico, gravemente lesionata durante gli ‘anni di piombo’ e durante la lunga crisi politica e sociale degli anni Settanta. Il secondo punto, la proposta di una “grande riforma” per costruire una democrazia governante, che ponesse fine alla gravissima instabilità politica, al consociativismo, al trasformismo. Il terzo, l’idea di una democrazia conflittuale. Il suo riformismo aveva assimilato la cultura liberaldemocratica, imperniata sul concetto di conflitto pacifico tra forze diverse. Il quarto, la difesa dell’Occidente dalla minaccia sovietica. La svolta craxiana in politica estera prevedeva la solidarietà verso il Terzo Mondo, ma non nella tradizionale ottica terzomondista, rivoluzionaria, pauperista; il sostegno ai movimenti di liberazione, purché di ispirazione democratica; la denuncia dell’imperialismo sovietico e la proposta di un atlantismo coerente con la tutela della nostra sovranità nazionale; il ripudio delle tirannide e delle dittature, non importa se fossero nere, rosse o di altro colore. Ricordo in particolare la decisione che portò, in risposta all’installazione dei missili sovietici SS 20, all’installazione dei missili Cruise e Pershing, ristabilendo l’equilibrio delle armi nucleari in Europa.
Tra gli errori politici di Craxi, il più grave fu l’aver fatto e l’aver permesso un uso eccessivo, e alla fine incontrollabile, dei finanziamenti illegali al PSI, che ebbero l’effetto di diffondere a macchia d’olio la corruzione dentro il Partito. Il secondo errore fu quello di avere una visione ‘politicista’ del consenso, che lo induceva a riporre speranze eccessive nell’appello diretto agli italiani. Craxi era molto popolare, il PSI no. Strategia fallimentare, perché il PSI crebbe troppo lentamente, dal 9,8 del 1979 al 13,6 del 1992. Soprattutto di fronte ad un PCI che, in piena crisi ideologica e politica, passava dal 29,9 al 22 per cento (16 PDS e 6 Rifondazione). Terzo errore, la prosecuzione della ‘guerra civile’ a sinistra anche dopo il 1989: nelle nuove condizioni proseguire nella offensiva anticomunista non aveva più alcun senso. Quarto errore, l’aver riportato il PSI al governo con la DC nel 1980, e aver mantenuto l’alleanza fino all’ultimo. Craxi non si rese conto che la Prima Repubblica si stava sfasciando con velocità inarrestabile. Per non finire sugli scogli, sarebbe stata necessaria una brusca virata che non ci fu. Mentre la nave colava a picco, aveva in mente una solo idea: quella di ritornare a Palazzo Chigi, da cui si sentiva ingiustamente sfrattato. Il PSI avrebbe dovuto essere alternativo alle forze conservatrici, e l’aver stipulato una alleanza organica con quelle forze fu un errore scellerato e suicida.
Nel 1991 era già evidente che la strategia politica di Bettino Craxi, da quindici anni alla guida del PSI, si era rivelata fallimentare. Una strategia che aveva suscitate molte attese e molte speranze, sia nella base socialista che tra gli osservatori esterni. Dieci anni prima, nel 1981, Craxi aveva vinto il congresso socialista di Palermo, diventando il leader incontrastato e carismatico del Partito. Nel 1982 l’assemblea socialista di Rimini aveva delineato i tratti di un riformismo moderno, capace di conciliare merito ed equità. L’esperienza di Presidente del Consiglio aveva dato a Craxi una autorevolezza e riconoscibilità a livello anche internazionale.
Che cosa è andato storto ? Con l’approdo al riformismo, nei primi anni Ottanta, il PSI dava inizio a una nuova stagione della sua storia: una stagione che avrebbe dovuto renderlo finalmente omogeneo al modello dei partito socialisti e socialdemocratici europei. Ma la svolta del 1979-1981, in sé positiva, venne gravemente indebolita, per non dire contraddetta, dalle circostanze in cui venne a maturare e più ancora dalle scelte tattiche che la accompagnarono. In primo luogo il brusco abbandono di qualsiasi progetto di alternativa, che pure era la linea approvata al congresso di Torino del 1978, e il frettoloso ritorno dei socialisti ad un governo con la DC. Un rientro che contrastava con la linea seguita dal partito negli ultimi anni, e che lasciava al PCI il monopolio dell’opposizione, un PCI che poteva così limitare i danni provocati dalla irreversibile crisi storica del modello comunista. Il PSI veniva così catturato da logiche di governo e di sottogoverno. E’ vero che era cresciuto lo spazio di manovra per il partito, che poteva far pesare la sua indispensabilità, ottenendo per un quadriennio la guida del governo e inaugurando un trend elettorale positivo, anche se non travolgente. Tutti questi risultati erano stati ottenuti in base a una logica tutta interna al sistema politico italiano di allora. Sfruttando tutte le opportunità offerte da quel sistema, un sistema che pure si dichiarava di volere riformare, e diventandone il massimo beneficiario in termini di potere, il PSI finiva con l’identificarsi con il sistema, e rinunciava alla possibilità di intercettare l’ondata crescente di dissenso che, soprattutto dopo il 1989, stava montando contro quel sistema.
Il progetto di “grande riforma” si rivelò essere solo una nebbia propagandistica. Nel corso degli anni Ottanta il PSI si impegnò infatti a massimizzare i vantaggi derivanti dal sistema politico, e non a lavorare per un sistema diverso. Eppure il ruolo di forza alternativa è il solo ruolo adatto a un partito socialista moderno, che deve candidarsi alla guida del Paese in alternativa alle forze moderate, per gestirlo in rappresentanza dei ceti più disagiati e in nome degli ideali di solidarietà e di giustizia sociale. Un partito socialista non può rinunziare alla funzione di fornire un punto di riferimento all’elettorato di sinistra in senso lato, di rappresentare il polo progressista del sistema politico, assicurando la possibilità di un ricambio del governo. A questo compito fondamentale il PSI di Craxi non ha saputo dare risposte soddisfacenti. Il PSI avrebbe dovuto cercare di allargare e irrobustire l’area del suo insediamento elettorale, recuperando consensi a sinistra. Un obiettivo che non si poteva raggiungere con la penetrazione aggressiva e sfacciata in tutte le strutture del potere nazionale e locale. Il PSI doveva invece distinguere la sua immagine da quella di una classe dirigente logorata e usurata, doveva farsi sostenitore di una diversa e più corretta gestione della cosa pubblica, doveva guardare a quella ampia area di elettorato progressista che votava PCI non perché credeva al comunismo, ma in quanto forza di opposizione e di alternativa agli equilibri esistenti e al malgoverno democristiano.
Tutto questo il PSI di Craxi non lo ha saputo fare, e per questo la sua strategia politica era in crisi molto prima che si scatenasse la bufera giudiziaria di Tangentopoli-Mani Pulite. Dopo l’inizio della "tempesta perfetta" politico-giudiziaria, il crollo del partito era solo questione di tempo.

Andrea Ruini

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