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mercoledì 14 maggio 2014

ITALIA - Jobs act. Il lavoro senza qualità


Assunzioni a termine senza freni. Formazione professionale senza formazione. Un contratto unico che è l’ennesima forma di impiego atipico. Con il decreto Poletti, il capo del governo Renzi ha fatto il contrario di quanto diceva da segretario del Pd

Ci risiamo. La politica dell’occupazione viene ricondotta, come accade da un ventennio, a misure lavoristiche. La presunta rigidità del mercato del lavoro è ancora vista come causa della disoccupazione. Intendiamoci, nei provvedimenti sul lavoro del “piè veloce” Renzi ci sono cose utili e sacrosante: le riduzioni Irpef per i dipendenti, che dovrebbero portare in busta paga le famose 80 euro al mese, le misure per garantire alle donne il diritto alla maternità qualunque lavoro svolgano, l’impegno a misure per incentivare la conciliazione fra tempi di lavoro e di vita, e tanto altro. Ma è la logica complessiva e soprattutto il contenuto delle prime poste in essere – quelle del decreto Poletti – che va da tutt’altra parte. E non coglie l’obiettivo fondamentale: creare lavoro nuovo e di buona qualità.

Perché le due cose – bisognerebbe convincersene dopo anni nei quali il lavoro è divenuto più precario e la disoccupazione è aumentata – vanno insieme. Ce lo ha detto, da ultimo, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco: «Il miglioramento della competitività delle imprese passa dalla valorizzazione del capitale umano di cui dispongono, anche in collaborazione con il sistema di istruzione e di ricerca. Studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività».

Se il problema del nostro sistema industriale è la scarsa produttività e propensione all’innovazione, se sono queste le cause di fondo che frenano lo sviluppo e la crescita dell’occupazione, allora continuare a rendere più facile e conveniente il ricorso a forme di lavoro precario è un freno allo sviluppo. Ed è anche un segnale sbagliato mandato alle imprese: continuate pure a sacrificare lo sviluppo futuro per ottenere risparmi di brevissimo periodo. Perché la capacità di innovazione produttiva e organizzativa richiede stabilità e investimenti di lunga lena sulle capacità e le competenze delle persone. La cosa che sembra non importare affatto al governo, visto che nelle misure non c’è nessun segnale di rafforzamento della formazione permanente, nonostante l’avviso che l’Ocse ci ha mandato con la ricerca Piaac. Uno studio molto chiaro: tra i 24 Paesi indagati i lavoratori italiani hanno il più basso livello di competenze; e ben il 70 per cento di loro, per capacità di leggere, scrivere e far di conto, è al di sotto del livello 3, che per l’Ocse è il livello minimo per vivere e lavorare dignitosamente.

Non sembra essersene accorto il ministro Giuliano Poletti, il quale con tutta tranquillità voleva addirittura far fuori la formazione dall’apprendistato professionalizzante. Se non ci riuscirà è perché si è insinuato il timore che quell’apprendistato non sarebbe stato considerato dall’Ue coerente coi fini della “Garanzia Giovani”, dal momento che si sarebbe caratterizzato come un puro aiuto di Stato alle imprese e non uno strumento di rafforzamento delle competenze dei lavoratori. La “Garanzia Giovani”, un provvedimento europeo, già cofinanziata e impostata dal governo Letta, è allo stato dei fatti l’unica misura attuabile utile ai giovani disoccupati. Il combinato disposto dei primi provvedimenti del governo Renzi va in direzione esattamente contraria a quella annunciata dal Renzi segretario del Pd. Annunciando il Jobs act alla direzione del Pd, il segretario disse che la priorità era far crescere la produttività e l’innovazione delle nostre imprese, per portarle a competere sulle produzioni di maggior qualità e a maggior valore aggiunto. Il suo primo decreto da capo del governo è invece funzionale all’esatto opposto: lasciare le nostre imprese nella fascia bassa della produzione di merci e servizi, quella appunto che compete quasi esclusivamente sulle dinamiche di costo e sulla riduzione delle tutele dei lavoratori. I contratti temporanei “liberalizzati” non creano più occasioni di lavoro. Lavoce.info ha pubblicato una ricerca relativa alla Spagna, in cui l’aumento esponenziale dei contratti temporanei ha prodotto meno giornate di lavoro e salari più bassi. La stessa Spagna – oggi in piena deflazione e con la disoccupazione giovanile in crescita – che qualcuno continua ad additare come esempio “riformatore”.

E se i contratti temporanei vengono “liberalizzati”, il famoso contratto di inserimento a tutele crescenti, salutato con favore anche in ambienti “liberal”, perde la qualifica di “unico”, la sola che poteva giustificare il superamento della giusta causa sui licenziamenti nel periodo di ingresso. E diventa un contratto tra i tanti: non una misura per ridurre la frammentazione del mercato del lavoro, ma per rendere più flessibile i tempi indeterminati residui.

Intanto incombe la cosiddetta spending review, che “revisiona” poco, ma taglia molto. Anche questa un’occasione persa, perché il nodo che dovremmo affrontare per ridare fiato all’occupazione è un altro: come ridare efficienza, efficacia, qualità ai servizi, a partire dalla Pubblica amministrazione. Che è il settore dove il lavoro potrebbe crescere, dando risposta al bisogno di salute e istruzione, ai desideri di cultura, città vivibili e paesaggi restituiti alla loro bellezza. Su questi terreni l’Italia ha un numero di occupati in rapporto ai cittadini molto inferiore rispetto a tutti gli altri Paesi europei. Combattere gli sprechi ha senso se in questi settori si reinveste e si crea nuovo lavoro.  Insomma, la questione dell’occupazione non può più essere affidata esclusivamente al mercato. Meno che mai al mercato del lavoro. La durezza della crisi ci ha fatto dimenticare che la crisi è venuta dopo anni di crescita senza occupazione. Porsi sul serio il problema del lavoro vuol dire affrontare i nodi di fondo che hanno frenato lo sviluppo del sistema produttivo. Per immaginare un ciclo virtuoso, che metta in sintonia il lavoro col desiderio delle persone di vivere in un mondo più pulito, più giusto, più sano.

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