Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


giovedì 5 gennaio 2012

CHIVASSO: C’era una volta una città

C’è stato un tempo, più o meno lontano dal nostro, grosso modo tra gli anni ’60 e gli ’80, in cui la nostra città, pur tra mille difficoltà, seppe riconoscersi come comunità e inventarsi un destino.

Non erano i partiti, le oligarchie, gli apparati dello stato o i potentati economici a costruire il suo futuro, ma una comunità che, sostenuta da una forza che ancora ci stupisce, si rimboccò le maniche e lavorò sodo per creare ricchezza e benessere.

Certo, partiti e apparati ebbero in qualche modo una funzione importante e, pur tutelando interessi di parte, niente sembrava poter fermare quella macchina possente che era il popolo, determinato a conquistare la sicurezza economica e uno stile di vita almeno dignitoso. Le speranze non erano mal riposte. Gli stessi partiti politici, pur ficcando il naso dappertutto, non mostravano l’arroganza e lo strapotere di oggi.

Le degenerazioni cominciarono solo dopo, quando affari e politica si incontrarono sulla strada dell’avidità, travolgendo così le speranze che la gente aveva riposto nello stato. Eppure, in quegli anni, esisteva ancora una certa moralità della vita pubblica e privata. Negli occhi della gente c’era una luce che non avremmo più rivisto negli anni a venire, i cosiddetti anni dell’edonismo.

Nei sorrisi dei ragazzi e delle ragazze di allora si leggeva la leggerezza di una vita complessa, battagliera, vissuta, che s’intrecciava con ideali; nel ribellismo dei giovani c’era la voglia di costruire una società diversa. Forse era tutto sbagliato, ma quanta passione, quanta pulizia c’era in tutto quello che si faceva.

Sono passati appena 30 o 40 anni, eppure ci sentiamo lontanissimi da quell’epoca.

Un’epoca in cui le ragazze ci intimidivano solo con gli sguardi, in cui ci dilungavamo per ore a parlare di politica e a sognare un mondo migliore, in cui ci entusiasmava studiare perché pensavamo fosse utile per crescere e per far crescere la società. Ma oggi a chi non fa male questa città e non soffre vedendola così cambiata, così annullata?

Si vive in una città senza volto, senza spina dorsale, senza anima nella quale giorno dopo giorno si affievolisce la speranza di rivederla moralmente integra e cresce la certezza che l’avidità, il potere, l’edonismo, la corruzione l’hanno consumata come si consuma un ammalato terminale.

La decadenza, ci ricordavano illustri pensatori, si manifesta sempre con l’ossessione della bramosia unita alla crudeltà dell’accanirsi sulle vite innocenti. E’ così che una società muore perché il male interno che la corrode è talmente esteso da non dare speranze. E’ così che una società si disfa tra l’ottimismo degli imbecilli e dei corrotti che fingono di credere che tutto vada bene, non accorgendosi che nei meandri del potere locale esistono sacche di malaffare nelle quali si ruba e si spende senza controllo, si dilapidano risorse per ignoranza o ingordigia. E intanto, fuori, il conflitto sociale si nutre di amarezza e di disincanto. Fino a quando non esploderà la rabbia degli esclusi.

Eppoi pazienza se nella società si muore sul lavoro o se si sopravvive ai limiti della morte senza lavoro, se la criminalità non fa mancare il suo contributo all’inquinamento sociale e condiziona la politica, se lo scettro è stato sottratto al popolo continuando però a proclamare che la democrazia va difesa. Dopo tutto ciò resta la malinconia e la nostalgia per quella città e quella società che abbiamo conosciuto e vissuto e che probabilmente la nostra generazione non vedrà più.

Bel lavoro è stato fatto negli ultimi anni.

Quanti rivoluzionari abbiamo visto passare senza che nessuno abbia almeno fatto finta di volerla fare una rivoluzione. E quante intelligenze si sono sprecate nel tentativo di riformare l’irriformabile.

Sono state chiuse vecchie e stantie botteghe politiche, che forse non meritavano di essere chiuse, per aprirne di nuove che sanno di muffa ancor più delle vecchie.  Sono state buttate al vento vecchie idee, che forse andavano buttate, senza che ne siano nate di nuove. Sono state dissipate molte risorse civili, culturali e morali per che cosa?

Siamo stati travolti da quindici anni di edonismo sfacciato, volgare e plateale all’odierno parassitismo materiale, politico ed intellettuale di generali che hanno avuto gradi ed onorificenze non già sulle barricate ma nei salotti o nei retrobottega della città e che accusano le assenze o le mancanze degli altri per scusare la loro incapacità di elaborazione, la loro mancanza di orizzonti, addirittura la loro incapacità di reazione di fronte agli attacchi beceri dell’attuale minoranza.

Questa è la nostra città, ecco ciò che resta: non è molto. Anzi, è niente. Una città che arranca, dal verbo arrancare: il lento, faticoso, deprimente, procedere di chi non ha più progetti, tranne l'impulso di dover, semplicemente, continuare a esistere a volte senza sapere neanche il perché.

Ma non ci rassegneremo a tenercela  così com’è. E non diteci che siamo i soliti ottimisti solo perché non piacendoci quel che vediamo affacciandoci nelle scuole, negli ospedali, negli uffici pubblici, nelle banche, sulle panchine dei viali, sotto i portici, vorremmo dare il nostro contributo per cambiare l’esistente. Non diteci che siamo inguaribilmente innamorati della nostra città solo perché diciamo la nostra su ciò che ci fa schifo. E non rimproverateci se continuiamo a restare qui, nonostante sia forte la tentazione di fuggire.

Non si abbandona un luogo dell’anima quando è accerchiato, perché si spera di poterlo salvare. Forse questi giorni passeranno con noi. Purtroppo non ci sarà nessuno disposto a raccontarli. Della decadenza è stato detto tutto, almeno da duemila anni, e non c’è altro da aggiungere. (B.V.)

1 commento:

  1. Speriamo di ricostruirlo, a poco a poco, quello spirito di cui parli nel blog!

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