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sabato 21 giugno 2014

ARGENTINA - Ufficiale, l'Argentina non pagherà i fondi avvoltoio: salvo colpi di scena, il default è servito


Con un comunicato apparso sul ministero dell'Economia, l'Argentina ha annunciato di non essere in grado di pagare i propri debiti a seguito della decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di non accogliere il ricorso contro le decisioni dei tribunali inferiori che le avevano imposto di pagare in pieno i cosiddetti fondi avvoltoio possessori di titoli del debito pubblico finiti in default all'inizio del millennio.

Nel comunicato si legge dell'impossibilità «[per l'Argentina di] effettuare i pagamenti del prossimo 30 giugno relativi alle cedole del debito ristrutturato e, contemporaneamente, pagare la totalità di quanto reclamato da fondi avvoltoio (che potrebbe arrivare a 15 miliardi di dollari)».

La revoca della sospensione, causata dalla decisione della Corte Suprema, ha riattivato le decisioni dei tribunali inferiori, dove il caso è tornato per le negoziazioni del caso. L'Argentina, pur ribadendo la volontà di negoziare e pagare i debitori "ristrutturati", lamenta che le condizioni sinora imposte le rendono impossibile il pagamento di quanto dovuto, ed ha nuovamente offerto ai fondi avvoltoio di essere pagati quanto i creditori ristrutturati.

A seguito del default argentino del 2001, i debiti in essere vennero convertiti in due tranche nel 2005 e nel 2010, finendo per coprire il 93 per cento del totale (di circa 95 miliardi di dollari) con uno haircut di circa un terzo del valore originario.

I fondi avvoltoio decisero però di rastrellare il vecchio debito e non aderire all'offerta del debito argentino, chiedendo di essere pagati in pieno. L'ovvia decisione dell'Argentina di non pagare ha portato la questione nei tribunali statunitensi, per la precisione a New York, sotto il cui diritto quei titoli erano stati emessi. Quei tribunali hanno dato ragione agli avvoltoi e, potenzialmente, a tutti coloro che non hanno aderito al concambio, con effetti che potrebbero essere positivi anche per alcuni possessori di titoli ristrutturati, ammesso che abbiano tempo, voglia e denaro di inseguire l'Argentina in tribunale.

Le riserve valutarie argentine sono ferme intorno a circa 28 miliardi, molto, molto poco, specie se si considerano le varie scadenze (per le importazioni) e risarcimenti (per esempio al club di Parigi o alla Repsol), e anche il fatto che la moneta forte continua a tenersi ben alla larga da Buenos Aires.

Per questa ragione, salvo ulteriori colpi di scena, un nuovo default sovrano (il settimo, nella storia dell'Argentina) è divenuto più che probabile: se l'Argentina decidesse di pagare gli avvoltoi, potrebbe non avere abbastanza denaro per onorare i coupon dei debiti ristrutturati, e finirebbe automaticamente in default; se, al contrario, decidesse di pagare gli obbligazionisti ristrutturati ed ignorare gli holdout, sarebbe ugualmente insolvente nei confronti di questi ultimi, i quali potrebbero già agire per pignorare i beni della Repubblica Argentina, con possibili interventi spettacolari, come il sequestro di una nave da guerra in Ghana negli anni scorsi.

Come già vaticinato spesso su queste pagine, la questione per l'Argentina non riguarda più il se, ma il quando finirà in default. E quel momento sembra infine essere giunto.

Le conseguenze del caso Argentina, anche se non provocheranno scossoni finanziari visto l'"embargo" contro il peggior pagatore sovrano, ha avuto ed avrà comunque conseguenze anche per altri emittenti, basti pensare all'introduzione e alla diffusione delle cosiddette Clausole di Azione Collettiva (CAC): grazie a queste ultime, se uno Stato vorrà ristrutturare il proprio debito pubblico, basterà l'adesione di solo una parte dei creditori (solitamente i due terzi) perché il default valga anche per quelli che non hanno aderito. Tanti saluti ai fondi avvoltoio (e anche alle certezze di molti altri investitori, per i quali investiti in titoli del debito pubblico è diventato automaticamente un po' meno certo).

giovedì 3 gennaio 2013

ARGENTINA – Malvinas/Falkland, Kirchner riapre la diatriba con Cameron

Il presidente argentino: «Porre fine al colonialismo, restituire le isole».

In una lettera aperta pubblicata il 2 gennaio 2013 sul quotidiano britannico Guardian il presidente argentino, Cristina Fernandez de Kirchner, ha riaperto l’offensiva diplomatica sulla sovranità delle Falkland, in cui chiede al premier, David Cameron, di aprire i negoziati per la restituzione dell’arcipelago.
Come già fatto più volte, l'Argentina ha reclamato dal Regno Unito il rispetto di una risoluzione Onu del 1960 nella quale si chiede a tutti gli stati membri delle Nazioni Unite di «porre fine al colonialismo in tutte le sue forme e manifestazioni».
La lettera è stata inviata in copia al segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. All'interno si è sottolineato che le Falkland-Malvinas si trovano «a 8.700 miglia, circa 14 mila chilometri da Londra».
LONDRA ESCLUDE IPOTESI DI TRATTATIVA. Il Foreign office da parte sua ha escluso ogni ipotesi di trattativa, ribadendo che il futuro delle isole potrà essere deciso solo dagli abitanti della colonia, in accordo con il principio di auto-determinazione delle Nazioni Unite: un referendum in tal senso - che dovrebbe confermare lo status quo - è previsto entro la fine dell’anno.
Londra ha respinto anche le accuse avanzate da Kirchner di avere espulso la popolazione argentina dell’isola sostituendola con dei coloni britannici: stando al Foreign Office, nel 1833 non esisteva alcun civile sull’isola, solo un contingente militare argentino sbarcato appena tre mesi prima.
RIVENDICAZIONI E INVASIONE DEL 1982. Le rivendicazioni argentine sfociarono 30 anni fa in un'invasione dell’arcipelago, ordinata dalla giunta militare del generale Leopoldo Galtieri: il conflitto - conclusosi con la resa formale delle forze argentine il 14 giugno del 1982 e costato la vita a 649 militari argentini e 255 britannici - affossò il prestigio dell’esercito e aprì la strada al ritorno della democrazia in Argentina.