Burocrazia e strapotere dei sindacati: per gli
imprenditori greci sono queste le cause dello stallo dell’economia. Ma anche
loro hanno contribuito con l’evasione e la mancanza di investimenti.
Claire Gatinois 28 maggio 2012 LE MONDE PARIGI
Andreas Liontos ha sentito cambiare il vento in
fretta. Prima c’è stato qualche ritardo nei pagamenti, spiegazioni poco chiare,
poi non c’è stato più alcun pagamento. E inesorabilmente la sua compagnia di
assicurazione, creata nel 1990 a Larissa, città agricola nel centro della
Grecia, si è ritrovata in rosso. Soffocati dalle misure di austerità, i greci
non erano certi interessati a sottoscrivere un nuovo contratto di assicurazione
sulla vita o di proteggere un veicolo che il più delle volte non avevano più.
Per Andreas il conto è stato salato, cinque milioni di euro.
Ma a 45 anni quest’uomo, ambizioso e taciturno, non si
è lasciato andare; ha capito che il suo futuro era ormai fuori dalle frontiere
e che poteva contare solo su se stesso. “Tutto quello che ho fatto lo ho sempre
fatto da solo, senza sovvenzioni e senza lo stato”, afferma con orgoglio. Così
alla fine del 2011 quest’uomo dai capelli scuri e leggermente sovrappeso ha
deciso di fondare l’Olympus Olive Oil, una società per l’esportazione del
miglior prodotto della Grecia, l’olio d’oliva. “Il migliore del mondo”,
assicura Andreas.
Con un contratto firmato con un supermercato cinese,
che gli comprerà 1.800 tonnellate per cinque anni, questo padre di tre figli è
sicuro del fatto suo. Il suo paese entra nel quinto anno di recessione, la
ricchezza nazionale ha perso quasi un quinto del suo valore dal 2008, ma lui e
la sua società sono immuni dal rischio. Neanche l’uscita della Grecia dalla
zona euro o addirittura dall’Unione europea lo spaventa più di tanto.
“Spero che questo non succeda, voglio che il mio paese
rimanga in Europa, ma l’uomo d’affari che è in me sa che questo potrebbe
permetterci grandi profitti”, riconosce Andreas. L’olio prodotto a Creta e nel
Peloponneso sarà comprato in dracme svalutate e venduto in valute estere. “Gli
uomini d’affari devono fare come me. Sarebbe un bene per noi e per il paese”.
Ma se si insiste un po’ si scopre che il ritorno alla
dracma non sarebbe per la sua società un’operazione così interessante come
afferma l’imprenditore. “Nel breve termine è sicuramente positivo, ma nel lungo
i profitti saranno controbilanciati da costi più alti”, calcola Vasileios
Pitsilkas, il suo direttore finanziario. Le macchine utilizzate per trasformare
l’olio provengono dall’Italia e fra qualche anno dovranno essere sostituite.
L’energia importata e soggetta a pesanti tasse è sempre più cara. Olympus vuole
installare dei pannelli solari ma per ora è impossibile ottenere dei
finanziamenti. “In questo momento il 90 per cento delle domande di prestito è
rifiutato dalle banche”, dice desolato Pitsilkas.
L’ennesima dimostrazione che una svalutazione della
moneta greca, anche se di vaste dimensioni, non risolverebbe tutti i problemi.
E che il costo della manodopera non è l’unica zona d’ombra dell’economia greca.
Se si dovesse dar retta agli imprenditori, il male del paese è più profondo e
preoccupante. “Qui non si produce più niente. Tutto viene importato”,
sintetizza il politologo Panos Mavridis. Nonostante una spettacolare ripresa
nel 2011, le esportazioni greche coprono a malapena la metà del valore delle
importazioni.
L’industria non è l’unico settore in difficoltà,
ricorda Michail Vassiliadis, economista presso la Fondazione per la ricerca
economica e industriale (Iobe). I macchinari industriali provengono da altri
paesi, l’innovazione è trascurata, l’agricoltura è in declino, soprattutto
perché i contadini sono stati spinti dalla politica agricola europea a lasciare
le loro terre in maggese. “È semplice, fino all’arrivo della crisi lavorare nel
settore pubblico era un vero e proprio paradiso: un lavoro a vita, uno
stipendio confortevole e nessuna necessità di rendere conto a qualcuno”,
riassume il direttore finanziario dell’Olympus Olive Oil.
Questo mito della funzione pubblica risale all’inizio
degli anni ottanta, quando il socialista Andreas Papandreou ha creato un
sistema clientelare perpetuato dai suoi successori di sinistra e di destra. La
loro azione ha contribuito a far cadere l’industria greca “come un frutto
maturo” in favore di uno stato tentacolare, assicura Vernicos.
Secondo gli imprenditori questa organizzazione si è
tradotta in un inferno burocratico. Per creare la propria impresa bisogna
riempire decine di formulari in vari uffici diversi, senza alcuna concertazione
tra i diversi servizi della pubblica amministrazione. E a ogni fase del
processo tutto può essere bloccato.
Per uscire da questo dedalo molti si rassegnano a
pagare un avvocato. Christopher Kaparounakis è diventato un specialista
nell’aiutare le imprese. Ma dopo l’inizio della crisi le cose sono cambiate.
Una nuova legge ha introdotto lo “One Stop Shop”, una sorta di sportello unico,
per semplificare le procedure.
Tuttavia in Grecia adottare una legge non vuol dire
che poi venga applicata, sospira l’avvocato ricordando come il paese sia ancora
al 135° posto su 183 nella classifica “Doing Business” della Banca mondiale. La
Federazione degli imprenditori greci, l’equivalente della nostra Confindustria,
ha censito almeno 250 ostacoli all’imprenditoria. Secondo gli economisti dello
Iobe, liberare l’economia dagli ostacoli amministrativi permetterebbe di far
crescere il prodotto interno lordo del 17 per cento, il 10 per cento nei primi
cinque anni.
Soldi facili
Ma la burocrazia non spiega tutto. Secondo Thasy
Petropoulos, caporedattore del settimanale in inglese Athens News, gli
industriali si lamentano anche dell’onnipotenza dei sindacati, diventati nel
corso degli anni delle vere e proprie “cinghie di trasmissione dei partiti politici”.
La legittima lotta in difesa dei lavoratori ha assunto una tale portata che
ogni conflitto sociale si traduce in una nuova disposizione legislativa. Questo
ha trasformato il codice del lavoro in un’intricata serie di testi che talvolta
si contraddicono, continua Petropoulos. Esasperati, molti industriali hanno
lasciato il paese. Chi non ha chiuso la propria fabbrica ha deciso di
espandersi in Bulgaria o altrove.
La “troika” dei creditori di Atene – la Banca centrale
europea, la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale – ha
obbligato il governo greco a adottare una legge per rendere il mercato del
lavoro più flessibile e 136 professioni protette sono state liberalizzate. Ma
questa politica sarà realmente efficace? Molti greci si rammaricano che la
troika e il governo abbiano scelto “la strada più facile”: ridurre gli stipendi
e aumentare le tasse, mentre lottare contro l’evasione fiscale sarebbe stato
probabilmente più popolare e più equo.
In ogni caso le lungaggini burocratiche e l’indigenza
dello stato non sono le uniche ragioni della mancanza di competitività
dell’industria greca, sottolinea l’economista Michail Vassiliadis. Anche gli
imprenditori hanno la loro parte di responsabilità in questo enorme spreco di
risorse. “Le imprese non hanno investito nella ricerca e nello sviluppo,
preferendo profitti rapidi con l’acquisto di innovazioni già sperimentate in
altri paesi d’Europa”.
Mancanza di coraggio? Voglia di guadagni facili? È
possibile. In ogni modo questo atteggiamento ha contribuito a fare della Grecia
un paese passivo, privo di iniziativa. Per Vassiliadis “si vede gente che torna
all’agricoltura e questo non è certo un segno di sviluppo per il paese. Se la
situazione continua così faremo un salto indietro di 30 anni”, dice preoccupato
l’economista. Un’epoca in cui la Grecia, paese povero appena uscito dalla
dittatura dei colonnelli (1967-1974), sognava di appartenere a quell’Unione
europea che oggi sembra non amare più.(Traduzione di Andrea De Ritis)
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