I problemi del paese sono cominciati ben prima della
bolla immobiliare: il pensiero antieconomico è stato una costante nazionale fin
dai tempi della Reconquista. Estratti
Sebastian Schoepp 1 giugno 2012 SUDDEUUTSCHE ZEITUNG
Monaco
Che cosa c’è che non va con la Spagna? Ai tempi
delgoverno di José María Aznar (1996-2004), la Spagna ha rappresentato l’ascesa
della quintessenza dell’Ue. Centocinquanta miliardi di euro in aiuti
strutturali piovvero da Bruxelles nella quarta economia più grande della zona
euro.
Ma invece che di fabbriche fiorenti, le brulle terre
di Andalusia e Castiglia si sono riempite di progetti a metà, abbandonati,
rimasti lì come le rovine di castelli dell’epoca del Cid. Sia gli uni che gli
altri rivelano un modello sociale antieconomico che ha contraddistinto la
Spagna per mezzo millennio.
In tempi moderni la Spagna ha sperimentato un isolamento
autoimposto, terminato soltanto negli anni sessanta, quando il dittatore
Francisco Franco ha aperto le frontiere ai turisti. La Spagna è così entrata
con passo malfermo nell’era moderna, “accalorata e frettolosa come l’ospite che
arriva in ritardo a un banchetto e si abbuffa per recuperare il tempo perduto”,
scrisse Juan Goyrtisolo nel suo saggio del 1969 La Spagna e gli spagnoli,
quanto mai attuale ancora oggi.
Dopo vent’anni, e con la stessa fretta, la Spagna ha
iniziato a distribuire la manna caduta dal cielo sotto forma di aiuti
strutturali dell’Ue. Tuttavia, invece di investire in una società produttiva,
ha voluto entrare a far parte dell’Ue prima possibile, modernizzarsi – e ciò ha
voluto dire, sopra ogni altra cosa, apparire moderna. I soldi sono stati
incanalati nel mercato immobiliare. In un primo tempo ciò è stato fatto con
oculatezza, ma in seguito – per la politica ultraliberale di Aznar per i
terreni – con frenesia.
Il trionfo del pensiero anti-economico, tuttavia, era
iniziato già nel 1492. La Spagna non soltanto aveva scoperto l’America, ma
aveva anche sconfitto le ultime vestigia del potere arabo a Granada, e nei
secoli seguenti avrebbe espulso dal suo territorio musulmani ed ebrei. Questi
due gruppi etnici erano entrambi molto attivi nei commerci. La nobiltà
spagnola, invece, detestava il lavoro che per un bizzarro codice d’onore gli
era precluso, e vedeva nelle armi l’unico compito affidatole da Dio.
La ricchezza delle colonie scivolava tra le loro mani
come oro liquido. L’Europa centrale si arricchì con l’oro degli incas, mentre
la nobiltà spagnola la dissipò tutta in rovinose proprietà, e nacquero i
latifondi.
Per tre secoli l’Inquisizione diede accanitamente la
caccia all’eresia in qualsiasi cosa sembrasse produttiva. Chi si dedicava alla
ricerca, ad armeggiare con qualcosa, a leggere, correva il rischio di finire
sul rogo.
Finita l’Inquisizione, l’avversione al progresso
sopravvisse nel cattolicesimo nazionalista spagnolo e il laicismo non riuscì ad
affiorare. Soltanto nel Paese Basco e in Catalogna si costruirono alcune
infrastrutture industriali. Si vollero creare collegamenti e allo stesso tempo
impedirli. Si abbozzò una rete ferroviaria, ma con uno scartamento differente
da quello francese, così da non avvicinarsi troppo all’Europa. E da allora
divenne comune dire che l’Europa finiva ai Pirenei.
Nel XIX secolo apparve un accenno di classe media
dinamica, mercantile, in grado di capire qualcosa di politica, insieme a un
movimento anarchico che fu molto più forte in Spagna che da qualsiasi altra
parte al mondo. Quel movimento ha ripreso vita oggi, sotto le spoglie del
movimento degli indignados che si riuniscono alla Puerta del Sol di Madrid, i
cui affiliati sono uniti dallo sdegno nei confronti del capitalismo, ma
incapaci di dar vita a un movimento coeso.
L’anarchismo, trionfante negli anni trenta, fu
soffocato dai ribelli di Franco nella Guerra civile. Sotto Franco la Spagna si
trovò ancora una volta proiettata nell’Inquisizione. Per mantenere la pace dopo
la guerra, Franco favorì di proposito la paralisi, l’immobilità assoluta. Con
aiuti finanziari e incentivi immobiliari, rese la maggior parte degli spagnoli
proprietari di un’abitazione e spianò così la strada per il boom speculativo
che sarebbe seguito.
Oltre i Pirenei
Se riuscì a superare il caos politico che era
subentrato alla fine della dittatura nel 1975 dando vita a una società
permissiva, la Spagna mantenne però un’economia ferma alla fine del Medio Evo.
Molti giornali e blog spagnoli sono tuttora dominati da una retorica
autoreferenziale e da una timida baraonda di parte. Il campanilismo ha impedito
agli abitanti di Castiglia e Andalusia di guardare troppo da vicino i baschi e
i catalani, che producevano molto, mentre questi ultimi si sono rifiutati di
condividere i loro talenti con il resto del paese.
Per gli spagnoli, scrive Goytisolo, portare a termine
un compito è più importante per il coinvolgimento personale che per quello che
ci si guadagna. Ma i mercati anglosassoni, dominati dalla fredda efficienza
protestante, non lasciarono alla Spagna il tempo di trarne vantaggio dal punto
di vista commerciale. L’indispensabile conversione a un’istruzione orientata
alla pratica e alla ricerca è ora ostacolata dall’austerity.
Finché l’Europa esiterà ad abbattere il confine dei Pirenei
tramite aiuti mirati alla modernizzazione del sistema economico e
dell’istruzione, la Spagna dovrà appoggiarsi a una caratteristica nazionale
che, secondo Goytisolo, ha sempre arrestato la sua ascesa: la frugalità. Gli
spagnoli sanno che cosa vuol dire sopravvivere a una crisi: lo stanno facendo
da cinque secoli.
Dalla Spagna
Abbiamo rubato il futuro ai nostri figli
“In
tempi di vacche magre ci accorgiamo delle dimensioni del disastro, la cui
responsabilità ricade sulle nostre spalle”, scrive Isabel San Sebastián su Abc. Le spalle dei “leader degli ultimi trenta anni e anche
di chi ha accettato, per azione o omissione, in un triste silenzio ignorante o
complice, il modello che ci hanno imposto”. Secondo San Sebastián
Ci
siamo comportati come se sotto la Spagna ci fosse un enorme giacimento di
petrolio, anche se siamo un paese povero. La crescita spettacolare degli ultimi
anni si è basata sul credito e sui generosi finanziamenti europei, non sulla
nostra capacità reale di pagare le fatture delle autostrade, dell’alta
velocità, delle università e degli equipaggiamenti all’avanguardia predisposti
per la gloria degli inauguratori di turno. […] Da Bruxelles ci chiedono, come
condizione “sine qua non” per continuare a finanziarci, di controllare la spesa
delle regioni, ormai diventate un pozzo senza fondo. Ma chi metterà il sonaglio
al gatto?
Stiamo
vivendo sulla punta di un colossale iceberg fatto di ladrocini, bugie, cattiva
gestione e corruzione. Le casse di risparmio sono state trasformate nel covo di
Alí Babá e i quarantamila ladroni, ben noti a tutti i partiti politici e
sindacati che hanno messo le mani nelle loro tasche. […] Questa crisi non si
risolverà in un anno, e nemmeno in cinque. È qui per restare, perché il danno
inferto alla credibilità di questo paese e alle sue possibilità di crescere è
immenso. Questo significa che abbiamo rubato il futuro ai nostri figli.

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